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Una vita ‘sprecata’ per la teologia

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Il 25 novembre scorso, a 96 anni è scomparso a Brescia, attorniato dall’affetto dei suoi confratelli e amici dell’editrice Queriniana, padre Rosino Gibellini. Rinomato teologo e filosofo, (il Card. Ravasi lo definiva un ‘teologo raffinato’) è stato un attento osservatore delle trasformazioni in atto nella storia e nella Chiesa. Gibellini, per lunghi anni direttore letterario della Queriniana (casa editrice cattolica di Brescia), dopo il Concilio Vaticano II ha fondato e diretto collane prestigiose, come Giornale di teologia (1966) e Biblioteca di teologia contemporanea (1969), aprendo la Chiesa e la cultura italiana al pensiero teologico internazionale. Da tutti gli era riconosciuta una spiccata – e allo stesso umile – capacità di “pensare insieme”, di creare “rete nel pensare” per dare voce a tutti e ricavare dalla pluralità delle posizioni teologiche quella “sintesi delle prospettive” che dà futuro alla teologia e alla missione della Chiesa.

Sfogliando i cataloghi delle autorevoli collane Giornale di teologia (1966) e Biblioteca di teologia contemporanea (1969) appaiono i nomi di Küng, Barth, Bonhoeffer, Balthasar, Ratzinger, Rahner, Pannenberg, Moltmann, Schillebeecks, Dupuis, Kasper…

Qual era la sua cifra editoriale? “La confessò lui stesso in un capitolo di quel che è il suo capolavoro come autore, La teologia del XX secolo, divenuto in breve tempo, in forza delle molte traduzioni, un paradigma storiografico. Secondo Gibellini quel che ha caratterizzato la teologia post-conciliare è stata la ricerca dell’umano nelle tracce del religioso. Per lui la teologia era tra i linguaggi più espressivi dell’umano, proprio perché ricerca di Dio” (Ilario Bertoletti). [redazione]



Una vita ‘sprecata’ per la teologia

Quella di Rosino Gibellini potrebbe apparire una vita “sprecata” per la teologia. Lo si può dire con consapevolezza, per il teologo (prima) e il filosofo (poi) che è stato il direttore letterario dell’Editrice Queriniana dove ha fondato prestigiose collane come “Biblioteca di teologia contemporanea” (1966) e “Giornale di Teologia” (1966). Di recente padre Alfio Filippi su SettimanaNews ha proposto un’interessante disamina del «libro come luogo teologico» e mettendo in risalto il rinnovamento teologico realizzato dal Concilio con la conseguente nascita di nuove facoltà teologiche in Italia, insistendo nel rilevare la nascita, nel post Concilio, di «nuovi soggetti del fare teologia: gli editori e le associazioni teologiche che vanno messi in primo piano». In particolare, i giovani teologi preparati nelle università pontificie erano impegnati a comunicare le idee più importanti discusse al Concilio e soprattutto intrapresero l’opera di traduzione dei nuovi orientamenti prodotti in Europa, dagli atenei tedeschi (dove la teologia era ben inserita nelle università dello Stato), ma anche francesi e fiamminghi. Si cominciarono a leggere anche i primi teologi del terzo mondo. Così, per Filippi: «L’editore è il soggetto attraverso cui l’autore raggiunge il lettore, producendo il luogo dell’incontro che si chiama libro».

Evidentemente ogni editore è un caso a sé, è una «esperienza esistenziale singolare». Nel caso di Gibellini, si può ammirare una figura di editore di vasta cultura teologia e filosofica con una mission intellettuale ben precisa, e direttamente riferita a quella che Bernard Lonergan chiamava «l’ottava specializzazione della comunicazione». Questa specializzazione funzionale è decisiva perché senza di essa sono inutili tutti gli sforzi fatti nelle altre specializzazioni (dottrina, interpretazione e sistematica). La teologia, restando scienza e accademia teologica, deve farsi anche «divulgazione scientifica alta», anzitutto per dare ragione di sé, della propria esistenza quale importante “funzione ecclesiale” a servizio della maturità della fede nella Chiesa. Non si tratta soltanto — per vivere questa missione di divulgazione teologica — di abituarsi al “parlare semplice e piano” perché tutti possano comprendere quello che viene scritto o detto. Di più e meglio questa operazione comporta «una grande capacità di sintesi» perché nessun frammento della vasta e complessa produzione teologia del post-Concilio vada perduto.

Da qui la propensione, diremmo oggi sinodale, che ha caratterizzato l’impegno di intelligenza teologica di Gibellini, facilmente rintracciabile in alcune sue opere in collaborazione, aprendo la Chiesa e la cultura italiana al pensiero teologico internazionale. Oltre ai suoi studi su Teilhard de Chardin, in tempi difficili per questo profeta del rapporto tra teologia e scienza, vanno menzionati quelli su teologi protestanti di maggior successo come Moltmann e Pannenberg. La sua La teologia del XX secolo (1992) e, in collaborazione, i volumi Dio nella filosofia del Novecento (1993) e Prospettive teologiche per il XXI secolo (2003), mostrano la sua capacità di “pensare insieme”, di creare “rete nel pensare” e soprattutto esprimono l’umiltà necessaria per dare voce a tutti e ricavare dalla pluralità delle posizioni teologiche quella “sintesi delle prospettive” che dà futuro alla teologia e alla missione della Chiesa.

Il Concilio Vaticano II ha rivoluzionato profondamente il metodo teologico e, con esso, l’identità della teologia. In particolare con la Dei Verbum e la Gaudium et spes, la teologia perdeva la sua impostazione prevalentemente intellettualistica e recepiva le nuove istanze delle culture, a esempio la fenomenologia e l’ermeneutica: se Dio si dice umanamente nella vita e nella storia di un popolo e la sua rivelazione è «storia di salvezza», diventa impellente capire «cosa davvero Dio dice con il linguaggio umano», poiché la Parola di Dio va accolta come parola di salvezza che opera nel credente la trasformazione della sua vita. E come si ascolta e si interpreta questa Parola, come la si legge? Lo sforzo ermeneutico è improcrastinabile, nel controllo critico (ecco il servizio della teologia) che resti Dio a parlare e non si dissolva tutto in soliloquio umano.

Gibellini è un attento lettore delle trasformazioni culturali in atto e rende ragione delle novità emergenti nel rinnovamento teologico, aperto alle istanze della cultura che, tuttavia, non dovranno/potranno estenuare il discorso su Dio, fino a farne perdere ogni significato e rilevanza. Se la parola “Dio” è morta, perché nessun significato può essere esperito (verificato) in essa, o se vale l’affermazione di Wittgenstein («ciò di cui non si può parlare, si deve tacere»), allora tutto diventa complesso e rischioso, come emerge dalla vicenda teologica dei teologi della morte di Dio (Paul Van Buren) che sulla base dell’impossibilità di conoscere la verità di Dio si proponevano di tradurre in un linguaggio secolare (Harvey Cox) la fede cristiana, sostituendo le parole della tradizione non più comprensibili con nuove parole areligiose o mondane.

La crisi della metafisica e della filosofia in generale costringeva il rinnovamento teologico a fare i conti con la pluralità degli approcci alla verità/realtà e alla lettura della storia e dei segni dei tempi. Il confronto ormai non si fa più solo con le filosofie separate, sorte dopo la modernità, ma anche con le scienze (specie quelle di maggior successo, come l’astrofisica e la meccanica quantistica). La svolta conciliare implicò la nascita di una pluralità di teologie, di una ricchezza straordinaria, che non potevano inoltre non tener conto delle teologie cristiane non cattoliche (si pensi ai grandi teologi come Barth, Moltmann, Jüngel, Tillich e tanti altri) con le quali entrare in dialogo critico, ma anche in un cammino “ecumenico” per pensare insieme il futuro del cristianesimo in Europa e in Occidente.

La teologia, nella sua qualità di «forma critica del sapere della fede», è al servizio della trasmissione della fede nel popolo di Dio. Vivendo però le comunità cristiane non in una “bolla teologica” ma nella carne drammaticamente sofferente degli uomini e delle donne, dentro determinate situazioni storico-socio-politiche, ecco che la teologia svolge il suo servizio ecclesiale diventando inevitabilmente non solo teologia esistenziale (Rahner) o teologia estetica (Von Balthasar), ma anche teologia politica (Europa), teologia della liberazione (America latina), teologia nera (Africa), teologia del pluralismo religioso (Asia), teologia del popolo (Argentina).

Gibellini trascorre tutta la sua vita a recensire con puntualità, in ogni dettaglio, la nascita e lo sviluppo di queste teologie del contesto, ovviamente con la propria interpretazione teologica. Ha così creato, per tutti i cultori della teologia, una mappa paradigmatica di riferimento di cui non si potrà fare a meno nel futuro. La sua è stata, anche da questo versante, una “esistenza teologica” che non può essere sprecata in avvenire. Da qui l’urgenza di ridare alla teologia — come servizio ecclesiale — la dignità dovuta (almeno nella Chiesa cattolica): quella per cui potrebbe ritornare, la teologia, a essere “regina di tutte le scienze”, facendo l’operazione contraria da quella fatta da Kant nel 1798, quando con la sua opera Il conflitto delle facoltà contestò l’ancillarità della filosofia rispetto alla teologia. Da qui in avanti, con Comte, la teologia venne degradata e considerata alla stregua delle favole per i bambini.

Affinché l’esistenza teologica di Rosino Gibellini non risulti “sprecata”, sarà necessario che la teologia ridiventi regina, ma lo diventi “teologicamente”, cioè facendosi dire dalla rivelazione cristiana chi è il Re dell’universo e da qui concependosi regina perché “a servizio di tutti”, cioè autentica ancilla della filosofia, della scienza e di tutti i saperi.

di Antonio Staglianò
Vescovo presidente della Pontificia accademia di teologia
25 novembre 2022 – Osservatore Romano

 

 

 

Antonio Staglianò
09 Diciembre 2022
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