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La rete è un luogo pieno di possibilità che dobbiamo cogliere

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A colloquio con don Alberto Ravagnani

La solitudine online, ma anche l’uso della rete a 360 gradi con i suoi aspetti positivi e negativi. Temi che pongono interrogativi cruciali in un tempo di crisi come il nostro: Come i social network influenzano il nostro modo di agire e di relazionarci agli altri? Che tipo di rischi e di opportunità ci sono? Come possiamo abitare al meglio questi nuovi luoghi?

Di tutto questo abbiamo discusso insieme a don Alberto Ravagnani, giovane sacerdote brianzolo, classe 1993, che opera nella parrocchia san Michele Arcangelo di Busto Arsizio (Varese). Sui social conta numeri da capogiro: 140mila fedelissimi su Instagram, 142mila su YouTube e 92mila su Tik Tok. Il suo romanzo, La tua vita e la mia (Rizzoli, 2021), è andato subito a ruba. Su questi canali racconta la vita del suo oratorio, la sua storia, così come problemi di fede.

La solitudine è necessariamente una conseguenza dell’uso di questi nuovi media, oppure si tratta di un fenomeno ben più profondo?

In generale riporto un’esperienza positiva dei social networks; per quello che ho visto, per quello che faccio e le persone che conosco, mi sembra che i social networks abbiano una grandissima potenzialità dal punto di vista relazionale. La rete è un ambiente relazionale fondamentale. Spesso e volentieri, il mondo adulto si approccia al digitale fraintendendolo, ossia trattandolo come uno strumento per entrare in relazione, fare ricerca, lavorare, oppure — nel caso della Chiesa — uno strumento per evangelizzare. Al contrario, la rete non è uno strumento bensì un ambiente, un luogo di relazione. I tempi e i modi di questa relazione sono diversi rispetti alla realtà fisica alla quale siamo abituati, al mondo fuori dalla rete. Il punto è che la rete come luogo offre tantissime possibilità di relazione. Dunque, il vero problema non è se la rete favorisca o meno fenomeni di solitudine, ma se favorisca o meno relazioni autentiche, un incontro che sia un vero incontro. Tante volte, purtroppo, sui social network i ragazzi non riescono, un po’ a causa della struttura dei social, un po’ per limiti personali, a mettere in campo integralmente la loro persona. Riescono invece a mettere in campo solo una parte della loro personalità che è sintetizzata in un account. Viene così trasmessa unicamente una parte del sé, la parte estetica, fisica o quella razionale. Manca insomma un incontro con la personalità integrale, una condivisione tra persone integrali. Questa parzialità può avere effetti molto negativi; qualcuno può correre il rischio di perdersi, di sentirsi isolato o solo, distante dagli altri, non valorizzato e amato.

Dunque, il problema non sta nei social, ma nell’umanità che sta dietro di essi.

Nel momento in cui una persona ha un’umanità ben formata, nel senso che ha potuto ricevere un’educazione integrale al di fuori della rete, allora, in questo caso, la rete diventa un’occasione per potenziare le relazioni e intensificare la vita relazionale. Grazie alla rete, puoi entrare in contatto con i tuoi amici o anche con persone molto distanti da te, in ogni momento e velocemente. Quindi la rete offre grandi potenzialità se in primo luogo dall’altra parte c’è una persona formata, in pace con sé stessa e con gli altri.

Nella sua esperienza concreta di youtuber, come le tecnologie l’hanno aiutata a raggiungere gli obiettivi che si era posto?

Non è che mi hanno aiutato. Direi piuttosto che ho abitato queste tecnologie e le potenzialità che mi offrivano cercando di essere me stesso. Non ho inventato io Instagram, ma su Instagram evangelizzo. Non ho inventato YouTube, ma su YouTube evangelizzo. Lì dove sono, offro una testimonianza usando i modi, i tempi, gli strumenti e le categorie del contesto in cui mi trovo. Le categorie della rete sono state particolarmente favorevoli perché aiutano nel rendere l’evangelizzazione più efficace. In poco tempo ho potuto raggiungere tantissime persone con una grande velocità e immediatezza nel rapporto. Questo mi ha permesso di superare tante barriere. Tutti hanno in tasca un telefono, anche le persone non credenti. Arrivando dentro quei telefoni, posso arrivare a coloro che non avrebbero mai messo piede in chiesa o incontrato un sacerdote.

Lei ha iniziato questa attività durante la pandemia.

Esatto, nel primo giorno di lockdown ho fatto il primo video e poi sono andato avanti. Ho creato anche altri contenuti e sono rimasto in questo mondo. La ragione è che questo mondo è anche il mio mondo. Ovviamente non posso essere sempre a contatto con tutti i ragazzi che conosco, ma grazie alla rete tutti possono contattarmi in ogni momento. Tante persone che accompagno e tanti passaggi decisivi nella vita di tanti passano attraverso la rete e i messaggi. Dal messaggio si può arrivare alla telefonata e poi all’incontro. Tante persone decidono di cambiare vita, vengono da me e incontrano i miei ragazzi perché hanno visto dei video in cui si parlava dell’oratorio e mi hanno contattato. E questo con una semplicità e una velocità che senza la rete non sarebbero mai state possibili. I social hanno permesso a molti ragazzi di avere una grande familiarità con quello che faccio. Anche se non mi hanno mai incontrato fisicamente, sanno quel che faccio e mi conoscono. Quello che io vivo a Busto Arsizio entra in contatto con loro anche se si trovano a centinaia di chilometri di distanza.

Per evitare le conseguenze negative dell’uso delle tecnologie, potrebbe essere utile sviluppare specifici programmi educativi, una sorta di nuova pedagogia?

I social network non sono uno strumento, dunque non serve un tutorial per usarli. I ragazzi imparano subito a stare su Instagram e a visitare le nuove piattaforme. Il punto invece è aiutarli a sviluppare le competenze relazionali giuste, cioè capire come si sta insieme, qual è il valore dell’amicizia e del rispetto. Tutto quello che si vive offline si può vivere online; non è questione di tecniche o di consapevolezza digitale. Certamente sarebbe utile una riflessione su questi temi. Tuttavia, bisogna evitare il rischio del paternalismo o del moralismo. Quello che potrebbe davvero essere utile sarebbe aiutare i ragazzi a prendere consapevolezza di quello che c’è sui social. Tante dinamiche che loro vivono inconsapevolmente, subendole, dovrebbero e potrebbero essere analizzate meglio mettendo in risalto i rischi e i benefici. Tanto più se ne parla, tanto meglio è.

di Luca M. Possati

Luca M. Possati
28 Avril 2023
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