Il nostro confratello Adriano Cunha Lima, condivide con noi una lettura degli eventi che stanno scuotendo la Repubblica Democratica del Congo. Adriano amplia il discorso ai vari conflitti che stanno colpendo diverse zone del mondo prendendo spunto dal discorso della Ministra Thérèse Kayikwamba Wagner, Ministro degli Affari Esteri della Repubblica Democratica del Congo (RDC), pronunciato lo scorso 29 gennaio.
La tragica situazione all’Est della Repubblica Democratica del Congo (RDC), che stiamo accompagnando con particolare attenzione, purtroppo, non è l’unico conflitto brutale e persistente che quotidianamente provoca vittime e genera una crescente massa di sfollati nel continente africano. Il Sudan, il Sud Sudan, il Mozambico, la Somalia, l’Etiopia, la Libia e altri paesi sono anch’essi teatro di drammi simili. La maggior parte di questi conflitti affonda le sue radici in cause storiche e profonde, che si perpetuano, rivelando l’incapacità di questi Stati e degli attori internazionali di avviare processi di pace che possano realmente cambiare il corso degli eventi.
Definire frequentemente questi conflitti come "guerre civili", limitati ai confini nazionali e non tra Stati, facilita l'inazione degli organismi internazionali. Il principio di non intervento nelle questioni che rientrano nella competenza interna di uno Stato (articolo 2.7 della Carta delle Nazioni Unite) viene talvolta (abusivamente) invocato come giustificazione per evitare un coinvolgimento diretto. Forse, è anche un modo per non rivelare l’esistenza di Stati terzi che, in un modo o nell’altro, potrebbero trarre beneficio dall’andamento di questi conflitti.
Il discorso della Ministra Thérèse Kayikwamba Wagner, Ministro degli Affari Esteri della Repubblica Democratica del Congo (RDC), pronunciato lo scorso 29 gennaio durante una seduta del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, manifesta una certa delusione nei confronti della comunità internazionale e del funzionamento degli organismi internazionali. Pur senza entrare nel merito delle sue dichiarazioni (non avrei gli elementi necessari per una profonda analisi sulle sue affermazioni e accuse), le provocazioni rivolte al sistema ONU e al Consiglio di Sicurezza offrono spunti di riflessione interessanti sul modo in cui l’ordine internazionale affronta questi conflitti (Le citazioni tra virgolette sono estratti dal discorso della ministra).
Per rispondere a una necessità didattico-metodologica, ne scelgo tre:
- L’inerzia del Consiglio di Sicurezza: In questo periodo sembra diffondersi un sentimento generale di sfiducia nell’efficacia dell’ONU e di altre organizzazioni simili. La situazione della RDC ci impone una riflessione. La ministra, nel suo discorso, sottolinea come, nonostante il riconoscimento internazionale dell'aggressione ruandese, il Consiglio di Sicurezza continui a restare inerte, senza adottare misure concrete per fermare il conflitto. La difficoltà nel prendere decisioni incisive è legata, quasi sempre, alla necessità di conciliare interessi geopolitici contrastanti tra i membri permanenti.
“Fino a quando il Rwanda continuerà a abusare del vostro rispetto e della vostra autorità? Quale strumento internazionale deve ancora violare affinché questo Consiglio prenda finalmente le misure necessarie contro Kigali? Dalla Carta delle Nazioni Unite al diritto internazionale umanitario, ai diritti umani, passando per i processi di pace di Luanda e di Nairobi, il Rwanda ha dimostrato che le vostre dichiarazioni non gli importano. Il cessate il fuoco del 4 agosto 2024 non è stato che una chimera per lui, e ha continuato a ignorare i vostri avvertimenti del 26 gennaio, arrivando a bombardare ospedali e case nella città di Goma”.
L’inazione diventa ancora più grave di fronte all’evidente aggravarsi della situazione umanitaria a Goma, con la popolazione civile intrappolata e priva di beni essenziali. La comunità internazionale viene accusata di reagire con eccessiva lentezza, di ignorare la sofferenza finché la crisi non diventa ingestibile o di non saperla prevenire quando è ormai troppo tardi.
“Nelle ultime 24 ore, oltre 100 feriti sono stati accolti nei centri sanitari del Comitato Internazionale della Croce Rossa, e la situazione umanitaria continua a peggiorare con oltre 500.000 nuovi sfollati nelle province del Nord-Kivu e del Sud-Kivu, solo per il mese di gennaio”.
La guerra in Sudan è stata definita più volte negli ultimi giorni come la "crisi umanitaria più grave del pianeta", eppure, nonostante queste dichiarazioni, l'Africa non vede un impegno internazionale concreto per gestire questa emergenza. Anche di fronte alla devastazione di Gaza e alla morte di 70.000 palestinesi, il diritto umanitario è stato palesemente ignorato, senza che vi fosse un intervento decisivo. La ministra, però, non si rassegna e alza la voce per dire quello che tutti hanno a cuore:
“Le vite dei civili non devono essere appese alla macchina dei politici che osservano senza agire. Esigiamo azioni”.
E con coraggio afferma:
“Se questo Consiglio non sanziona, la storia segnerà questo periodo come l'epoca dell'impotenza e dell'indifferenza del Consiglio di Sicurezza. Il diritto di riscatto di questo Consiglio in questa crisi non risiede altrove se non in azioni immediate”.
Come spiegare l’attuale caos alle famiglie congolesi che, dal 1960 con l’arrivo dell’ONUC, poi nel 1999 con la MONUC, trasformata nel 2010 in MONUSCO, continuano a vivere tra attacchi, morti e il dramma dello sfollamento? Non spetta certo alla popolazione analizzare accordi, missioni o articoli di diritto internazionale. Ciò che conta per chi vive quotidianamente l’insicurezza è che questi interventi portino risultati concreti: almeno la possibilità di una vita senza la paura che un gruppo armato lo costringa (nella migliore delle ipotesi) ad abbandonare casa e villaggio. Ma fino ad oggi, questo non è accaduto.
- La marginalizzazione delle voci africane (e non solo): Il testo rivela un altro sentimento nei confronti degli organismi internazionali: il peso geopolitico determina l'attenzione ricevuta. La ministra ci fa capire che, forse, se le denunce provenissero da Stati più influenti a livello globale, la risposta sarebbe probabilmente più rapida e incisiva. Anche quando numerosi Paesi condividono la stessa posizione, se non hanno un peso geopolitico significativo, questo non porta automaticamente a decisioni concrete. È frustrante per qualunque Stato leggere nell'articolo 2, paragrafo 1, della Carta delle Nazioni Unite: 'L'Organizzazione è fondata sul principio della sovrana uguaglianza di tutti i suoi Membri'. Gli Stati non sono uguali: differiscono per dimensioni, popolazione, potere militare, politico ed economico. Ma, parafrasando un pensiero di Hannah Arendt sull'uomo, dovrebbe essere funzione del diritto renderli uguali. Tuttavia, la struttura giuridica dell'ONU smentisce questa aspirazione.
“Non è una prova sufficiente per voi, che ogni volta che viene convocata una riunione di questo Consiglio, la lista degli oratori è piena di paesi africani e di altri luoghi che cercano di spingervi ad agire? Domenica, erano il Sudafrica, il Burundi, l'Uruguay. Oggi, siamo di nuovo raggiunti, in uno spirito di solidarietà, dai nostri fratelli e sorelle dell'Angola, del Sudafrica, dell'Uruguay, del Guatemala, dello Zimbabwe, del Senegal e del Burundi. Tutti hanno risposto. Perché l'umanità è in gioco. Tutti sono venuti a vedere cosa farete. A quale soglia di catastrofe umanitaria e di violazioni evidenti del nostro territorio dovrete finalmente agire per sanzionare i responsabili del M23, gli ufficiali rwandesi e i loro complici?”.
La ministra, per attirare l'attenzione sulla situazione del suo Paese, si sente nell'obbligo di citare le vittime internazionali, come se facendo ciò avrebbe ricevuto maggiore attenzione:
“Le vittime non sono più solo congolesi. Il Rwanda ha colpito l'Africa e l'America Latina uccidendo soldati sudafricani, malawiti e uruguaiani venuti a proteggere i civili. Ha colpito questo Consiglio uccidendo caschi blu della Monusco”.
Lo fa come se i più di 6 milioni di morti negli ultimi trent'anni non fossero sufficienti per svegliare qualsiasi potenza ad agire, a studiare il conflitto e a metterlo sotto la luce di una seria riflessione regionale e internazionale. Tantissimi Paesi si sentono emarginati dal sistema internazionale. Per usare un'immagine africana: sono ragazzi adolescenti che, senza l'iniziazione, non possono partecipare alle discussioni sotto l'albero delle “palabres”. Unico problema: non abbiamo nessun cambiamento previsto a breve termine.
- La guerra non ha frontiere: La ministra ci offre una profonda immagine della guerra quando dice: "Una guerra non conosce confini, è sporca, consuma tutto ciò che incontra, i forti come i deboli". Due volte la ministra ci ricorda che la guerra non rispetta le frontiere; all'inizio del testo aveva già detto: "(…) sappiamo quanto la guerra superi tutte le frontiere". Con tantissimi conflitti che vediamo intorno a noi, possiamo affermare con certezza che la guerra non è mai un problema di un solo Paese, ma tocca tutta l'umanità. "Un proiettile che colpisce il cuore non può lasciare indifferente il resto del corpo".
Il suo discorso è un richiamo che va oltre il semplice ricordo del principio di umanità che illumina tutto il diritto internazionale umanitario, ma sottolinea anche il principio solidaristico delle relazioni internazionali:
“Siamo un paese africano sotto attacco, ma questo attacco supera i nostri confini. È un attacco contro il multilateralismo, contro i principi stessi delle Nazioni Unite, contro ciascuno di noi. Lasciare che questa crisi si incancrenisca sotto il pretesto che si tratti di un problema africano, che necessita di una soluzione africana, equivale a tradire lo spirito di solidarietà internazionale che fonda questa organizzazione e lo spirito di responsabilità e di sicurezza collettiva che giustifica anche la vostra presenza come membri di questo Consiglio”.
Forse sarà questo il dono più grande che i Paesi del Sud del mondo offriranno a tutta l'umanità: una concezione nuova di relazioni internazionali che non vuole essere soltanto legata all'egoismo della condivisione dei beni e delle risorse o alla paura che mi fa vedere nell'altro sempre una minaccia. Un'idea di relazioni internazionali che parta dall'elemento Ubuntu dell'antropologia africana – "io sono perché noi siamo" – ahimè già quasi scomparso anche in Africa. Però la solidarietà della ministra congolese per le vittime ruandesi può essere un segno che non tutto sia perduto:
“Noi, la Repubblica Democratica del Congo, riconosciamo anche le perdite di vite umane tra i soldati rwandesi caduti durante gli scontri. (…) Questa posizione ha un costo per le famiglie delle centinaia di soldati rwandesi caduti in questa guerra insensata. Anche se il loro stesso paese si rifiuta di riconoscerli, di rendergli omaggio o di concedere alle loro famiglie il diritto di piangere le loro perdite, noi, la Repubblica Democratica del Congo, sappiamo quanto la guerra superi tutte le frontiere. Riconosciamo che la follia in cui Kigali ci ha trascinato fa vittime ovunque”.
Sappiamo di aver bisogno gli uni degli altri, anche da un punto di vista strettamente utilitaristico. I nostri telefonini e gli altri nostri gadget elettronici hanno bisogno del coltan congolese; sappiamo anche quanto del futuro del pianeta dipenda dalla vita delle foreste del Congo. Sarebbe fondamentale imparare a gestire queste risorse in modo equo, affinché i congolesi, che abitano queste terre, siano i primi beneficiari dei frutti di tale ricchezza. È tragico, però, che questo bisogno di risorse sia il motore di conflitti devastanti che mietono vite umane nella regione dei Grandi Laghi, così come il problema del gas, necessario per offrire calore e conforto, sta condannando a morte per il freddo bambini palestinesi e ucraini.
Il concetto di pace in Congo, come in gran parte del mondo, non è legato all’idea di patto o alleanza, come nella tradizione latino-romana della pax, spesso intesa come imposizione di un ordine. L'Africa sa bene che la pace non è solo l’assenza di conflitto e che non sarà garantita da un semplice accordo tra Kigali e Kinshasa. La pace non è assenza di guerra: è il contesto in cui l’uomo può realizzarsi pienamente come persona, in cui giustizia, verità, libertà e carità convivono e si alimentano reciprocamente. La guerra, invece, nasce dove non c’è pace, dove i bisogni essenziali vengono a mancare, dove la speranza svanisce e la paura genera violenza. Questa pace sarà il frutto di uno sforzo comune, altrimenti non potrà mai essere piena per nessuno.
“(…) è qui che il mondo deve affrontare le sue sfide”: Concludo con questa idea espressa nel discorso della ministra per dire che, pur riconoscendo le grandi difficoltà operative dei principali organismi internazionali (come l’ONU, il suo Consiglio di Sicurezza e l’Unione Africana), questi rimangono spazi cruciali di dibattito, luoghi in cui la voce di un paese in difficoltà reclama una risposta, e sarebbe ancora peggio senza di loro. In questi ultimi conflitti stiamo assistendo alla crescente contrapposizione tra gli interessi di alcuni governi, le loro decisioni politiche e le azioni, le parole e le misure adottate da alcuni organi internazionali come il Segretariato Generale delle Nazioni Unite e la Corte Penale Internazionale. Questi, insieme a Papa Francesco, sono state le voci internazionali più forti a difendere i civili palestinesi e a chiedere il rispetto del Diritto Internazionale Umanitario. L’auspicio della ministra è, infatti, quello di tutta l’umanità che vive sotto la violenza della guerra: “che questa Assemblea sia il baluardo della giustizia e della dignità umana”.
Le cri du Congo et la responsabilité internationale
Notre confrère Adriano Cunha Lima partage avec nous une lecture des événements qui secouent la République Démocratique du Congo. Adriano élargit le discours aux divers conflits qui affectent différentes régions du monde, en s’inspirant du discours de la Ministre Thérèse Kayikwamba Wagner, Ministre des Affaires étrangères de la République Démocratique du Congo (RDC), prononcé le 29 janvier dernier.
La situation tragique à l’Est de la République démocratique du Congo (RDC), que nous suivons avec une attention particulière, n’est malheureusement pas le seul conflit brutal et persistant qui, chaque jour, fait des victimes et génère un nombre croissant de déplacés sur le continent africain. Le Soudan, le Soudan du Sud, le Mozambique, la Somalie, l’Éthiopie, la Libye et d’autres pays sont également le théâtre de drames similaires. La plupart de ces conflits trouvent leurs racines dans des causes historiques et profondes qui se perpétuent, révélant l’incapacité de ces États et des acteurs internationaux à initier des processus de paix pouvant réellement changer le cours des événements.
Qualifier fréquemment ces conflits de « guerres civiles », limitées aux frontières nationales et non entre États, facilite l’inaction des organismes internationaux. Le principe de non-ingérence dans les affaires relevant de la compétence interne d’un État (article 2.7 de la Charte des Nations Unies) est parfois (abusivement) invoqué comme justification pour éviter un engagement direct. C’est peut-être aussi une manière de ne pas révéler l’existence d’États tiers qui, d’une manière ou d’une autre, pourraient tirer profit du cours de ces conflits.
Le discours de la Ministre Thérèse Kayikwamba Wagner, Ministre des Affaires Étrangères de la République démocratique du Congo (RDC), prononcé le 29 janvier dernier lors d’une séance du Conseil de sécurité de l’ONU, exprime une certaine déception à l’égard de la communauté internationale et du fonctionnement des organismes internationaux. Sans entrer dans le fond de ses déclarations (je ne disposerais pas des éléments nécessaires pour une analyse approfondie de ses affirmations et accusations), les provocations adressées au système de l’ONU et au Conseil de sécurité offrent des pistes de réflexion intéressantes sur la manière dont l’ordre international aborde ces conflits (les citations entre guillemets sont extraites du discours de la ministre).
Pour répondre à une nécessité didactico-méthodologique, j’en choisis trois :
- L’inertie du Conseil de sécurité :
Dans cette période, un sentiment général de méfiance quant à l’efficacité de l’ONU et d’autres organisations similaires semble se répandre. La situation en RDC nous impose une réflexion. La ministre souligne dans son discours que, malgré la reconnaissance internationale de l’agression rwandaise, le Conseil de sécurité continue de rester inactif, sans adopter de mesures concrètes pour stopper le conflit. La difficulté à prendre des décisions incisives est presque toujours liée à la nécessité de concilier des intérêts géopolitiques contradictoires entre les membres permanents.
« Jusqu’à quand le Rwanda continuera-t-il à abuser de votre respect et de votre autorité ? Quel instrument international doit-il encore violer pour que ce Conseil prenne enfin les mesures nécessaires contre Kigali ? De la Chartre des Nations Unies au droit international humanitaire, aux droits de l'homme, en passant par les processus de paix de Luanda et de Nairobi, le Rwanda a prouvé que vos déclarations ne lui importent guère. Le cessez-le-feu du 4 aout 2024 n'a été pour lui qu'une chimère, et il s’est pris d’ignorer vos avertissements du 26 janvier, allant jusqu'à bombarder des hôpitaux et des maisons dans la ville de Goma ».
L’inaction devient encore plus grave face à l’aggravation évidente de la situation humanitaire à Goma, avec une population civile piégée et dépourvue des biens essentiels. La communauté internationale est accusée de réagir avec une lenteur excessive, d’ignorer la souffrance jusqu’à ce que la crise devienne ingérable ou de ne pas savoir la prévenir lorsqu’il est déjà trop tard.
« Ces dernières 24 heures, plus de 100 blessés ont été accueillis dans les centres de santé du Comité international de la Croix-Rouge, et la situation humanitaire continue à se dégrader avec plus de 500 000 nouveaux déplacés dans la province du Nord-Kivu et du Sud-Kivu, pour le mois de janvier uniquement ».
La guerre au Soudan a été qualifiée à plusieurs reprises ces derniers jours de « crise humanitaire la plus grave de la planète » et pourtant, malgré ces déclarations, l’Afrique ne voit pas d’engagement international concret pour gérer cette urgence. Même face à la dévastation de Gaza et à la mort de 70 000 Palestiniens, le droit humanitaire a été manifestement ignoré, sans qu’une intervention décisive n’ait lieu. La ministre, cependant, ne se résigne pas et élève la voix pour dire ce que tout le monde a à cœur :
« Les vies des civiles ne doivent pas être pendues à la machinerie des politiciens qu’observe sans agir. Nous exigeons des actions ».
Et avec courage, elle affirme :
« Si ce Conseil ne sanctionne pas, l'histoire marquera ce temps come l’époque de l'impuissance et de l'indifférence du Conseil de sécurité. Le droit de rachat de ce Conseil sur cette crise n'est nulle part ailleurs que dans des actions immédiates ».
Comment expliquer le chaos actuel aux familles congolaises qui, depuis 1960 avec l’arrivée de l’ONUC, puis en 1999 avec la MONUC, transformée en 2010 en MONUSCO, continuent de vivre entre attaques, morts et le drame des déplacements ? Il n’appartient certainement pas à la population d’analyser des accords, des missions ou des articles de droit international. Ce qui importe pour ceux qui vivent quotidiennement dans l’insécurité, c’est que ces interventions produisent des résultats concrets : au moins la possibilité d’une vie sans la peur qu’un groupe armé ne les contraigne (dans le meilleur des cas) à abandonner leur maison et leur village. Mais jusqu’à aujourd’hui, cela ne s’est pas produit.
- La marginalisation des voix africaines (et pas seulement) :
Le texte révèle un autre sentiment à l’égard des organismes internationaux : le poids géopolitique détermine l’attention reçue. La ministre nous fait comprendre que, peut-être, si les dénonciations provenaient d’États plus influents à l’échelle mondiale, la réponse serait probablement plus rapide et incisive. Même lorsque de nombreux pays partagent la même position, s’ils n’ont pas un poids géopolitique significatif, cela ne conduit pas automatiquement à des décisions concrètes. Il est frustrant pour n’importe quel État de lire dans l’article 2, paragraphe 1, de la Charte des Nations Unies : « L’Organisation est fondée sur le principe de l’égalité souveraine de tous ses Membres. » Les États ne sont pas égaux : ils diffèrent par leur taille, leur population, leur puissance militaire, politique et économique. Mais, paraphrasant une pensée d’Hannah Arendt sur l’homme, il devrait être du ressort du droit de les rendre égaux. Cependant, la structure juridique de l’ONU contredit cette aspiration.
« N’est-ce pas une preuve suffisante pour vous, que lorsque à chaque réunion convoquée par ce Conseil, la liste des orateurs regorge de pays d'Afrique et d'ailleurs cherchant à vous pousser à agir ? Dimanche, c'était l'Afrique du Sud, le Burundi, l'Uruguay. Aujourd'hui encore, nous sommes rejoints, dans un esprit de solidarité, par nos frères et sœurs d'Angola, d'Afrique du Sud, d'Uruguay, de Guatemala, de Zimbabwe, de Sénégal et du Burundi. Tous ont répondu. Car l’humanité est en jeu. Tous sont venus voir ce que vous allez faire. À quel seuil de catastrophe humanitaire et de violations flagrantes de notre territoire devrez-vous enfin agir enfin, pour sanctionner les responsables du M23, les officiers rwandais et leurs complices ? ».
La ministre, pour attirer l’attention sur la situation de son pays, se sent obligée de citer les victimes internationales, comme si, en le faisant, elle espérait recevoir une attention accrue :
« Les victimes ne sont plus seulement congolaises. Le Rwanda a frappé l’Afrique et l’Amérique Latine en tuant des militaires sudafricains, malawites et uruguayens venus protéger les civils. Il a frappé ce Conseil en tuant des casques bleus de la Monusco ».
Elle le fait comme si les plus de 6 millions de morts au cours des trente dernières années ne suffisaient pas à éveiller les puissances à agir, à étudier le conflit et à le soumettre à une réflexion sérieuse, tant régionale qu’internationale. De très nombreux pays se sentent marginalisés par le système international. Pour reprendre une image africaine : ce sont des adolescents qui, sans initiation, ne peuvent participer aux discussions sous l’arbre des « palabres ». Le seul problème : aucun changement n’est prévu à court terme.
- La guerre n’a pas de frontières :
La ministre nous offre une image forte de la guerre lorsqu’elle déclare : « Une guerre ne connaît pas de frontières, elle est sale, elle consume tout sur son passage, les forts comme les faibles ». Deux fois, la ministre nous rappelle que la guerre ne respecte pas les frontières ; dès le début du texte, elle avait déjà affirmé : « (…) nous savons combien la guerre dépasse toutes les frontières ». Avec tant de conflits que nous voyons autour de nous, nous pouvons affirmer avec certitude que la guerre n’est jamais l’affaire d’un seul pays, mais touche toute l’humanité. « Une balle qui frappe dans le cœur ne saurait laisser le reste du corps indifférent ».
Son discours est un appel qui va au-delà du simple rappel du principe d’humanité qui illumine l’ensemble du droit international humanitaire, mais qui souligne également le principe de solidarité dans les relations internationales :
« Nous sommes un pays africain sous attaque, mais cette attaque dépasse nos frontières. Elle est une attaque contre le multilatéralisme, contre les principes mêmes des Nations Unies, contre chacun de nous. Laisser cette crise s'enliser sous prétexte qu'il s'agirait d'un problème africain, nécessitant une solution africaine, revient à trahir l'esprit de solidarité internationale qui fonde cette organisation et l'esprit de responsabilité et de sécurité collective qui justifie même votre présence en tant que membre de ce Conseil ».
Peut-être sera-ce le plus beau cadeau que les pays du Sud offriront à toute l’humanité : une conception nouvelle des relations internationales qui ne veut pas être uniquement liée à l’égoïsme du partage des biens et des ressources ou à la peur qui nous fait toujours voir en l’autre une menace. Une idée des relations internationales qui part de l’élément Ubuntu de l’anthropologie africaine – « je suis parce que nous sommes » – hélas déjà presque disparu, même en Afrique. Cependant, la solidarité de la ministre congolaise pour les victimes rwandaises peut être un signe que tout n’est pas perdu :
« Nous, la République démocratique du Congo, reconnaissante également, les pertes en vies humaines parmi les soldats rwandais tombés au cours des affrontements (…). Cette position coûte cher aux familles des centaines de soldats rwandais tombés dans cette guerre insensée. Même si leur propre pays refuse de les reconnaître, de leur rendre hommage ou d'accorder à leurs familles le droit de pleurer leurs pertes, nous, la République démocratique du Congo, savons combien la guerre dépasse toutes les frontières. Nous reconnaissons que la folie dans laquelle Kigali nous a entraînés fait des victimes partout ».
Nous savons que nous avons besoin les uns des autres, même d’un point de vue strictement utilitariste. Nos téléphones portables et nos autres gadgets électroniques ont besoin du coltan congolais ; nous savons aussi combien l’avenir de la planète dépend de la vie des forêts du Congo. Il serait fondamental d’apprendre à gérer ces ressources de manière équitable, afin que les Congolais, qui habitent ces terres, soient les premiers bénéficiaires des fruits de cette richesse. Il est tragique, cependant, que ce besoin en ressources soit le moteur de conflits dévastateurs qui font des victimes humaines dans la région des Grands Lacs, tout comme le problème du gaz, nécessaire pour offrir chaleur et confort, condamne à mort par le froid les enfants palestiniens et ukrainiens.
Le concept de paix au Congo, comme dans une grande partie du monde, n’est pas lié à l’idée de pacte ou d’alliance, comme dans la tradition latino-romane de la pax, souvent entendue comme l’imposition d’un ordre. L’Afrique sait bien que la paix n’est pas seulement l’absence de conflit et qu’elle ne sera pas garantie par un simple accord entre Kigali et Kinshasa. La paix n’est pas l’absence de guerre : c’est le contexte dans lequel l’homme peut s’épanouir pleinement en tant que personne, dans lequel justice, vérité, liberté et charité coexistent et s’alimentent mutuellement. La guerre, en revanche, naît là où il n’y a pas de paix, où les besoins essentiels font défaut, où l’espoir s’évapore et où la peur engendre la violence. Cette paix sera le fruit d’un effort commun, sinon elle ne pourra jamais être pleinement acquise par quiconque.
« (…) c’est ici que le monde doit relever ses défis. » Je conclus par cette idée exprimée dans le discours de la ministre pour dire qu’en dépit de la reconnaissance des grandes difficultés opérationnelles des principaux organismes internationaux (comme l’ONU, son Conseil de sécurité et l’Union africaine), ceux-ci restent des espaces cruciaux de débat, des lieux où la voix d’un pays en difficulté réclame une réponse, et qui seraient encore moins efficaces sans leur présence. Dans ces derniers conflits, nous assistons à la montée de la contradiction entre les intérêts de certains gouvernements, leurs décisions politiques et les actions, paroles et mesures adoptées par certains organes internationaux tels que le Secrétariat général des Nations Unies et la Cour pénale internationale. Ces derniers, aux côtés du Pape François, ont été les voix internationales les plus fortes pour défendre les civils palestiniens et pour demander le respect du Droit international humanitaire. L’espoir de la ministre est, en effet, celui de toute l’humanité vivant sous la violence de la guerre : « que cette Assemblée soit le rempart de la justice et de la dignité humaine. »
The Cry of Congo and International Responsibility
Our confrere Adriano Cunha Lima shares with us an analysis of the events shaking the Democratic Republic of the Congo. Adriano expands the discussion to the various conflicts affecting different regions of the world, drawing inspiration from the speech delivered by Minister Thérèse Kayikwamba Wagner, Minister of Foreign Affairs of the Democratic Republic of the Congo (DRC), on January 29.
The tragic situation in the East of the Democratic Republic of the Congo (DRC), which we are following with particular attention, is unfortunately not the only brutal and persistent conflict that daily causes victims and generates an increasing mass of displaced persons on the African continent. Sudan, South Sudan, Mozambique, Somalia, Ethiopia, Libya, and other countries are also scenes of similar tragedies. Most of these conflicts have deep historical roots that continue to perpetuate, revealing the inability of these states and international actors to initiate peace processes that could genuinely change the course of events.
Frequently defining these conflicts as "civil wars," confined within national borders and not between states, facilitates the inaction of international bodies. The principle of non-intervention in matters falling within the internal competence of a state (Article 2.7 of the United Nations Charter) is sometimes (abusively) invoked as justification for avoiding direct involvement. Perhaps it is also a way of not revealing the existence of third states that, in one way or another, could benefit from the course of these conflicts.
The speech by Minister Thérèse Kayikwamba Wagner, Minister of Foreign Affairs of the Democratic Republic of the Congo (DRC), delivered on January 29 during a session of the UN Security Council, expresses a certain disappointment with the international community and the functioning of international organizations. Without delving into the substance of her statements (as I do not have the necessary elements for a deep analysis of her claims and accusations), the provocations directed at the UN system and the Security Council offer interesting points for reflection on how the international order addresses these conflicts (The quoted passages are excerpts from the Minister's speech). To address a didactic-methodological need, I choose three:
1. The Inertia of the Security Council: A general feeling of distrust in the effectiveness of the UN and similar organizations seems to be spreading during this period. The situation in the DRC compels us to reflect. The minister, in her speech, emphasizes how, despite international recognition of Rwandan aggression, the Security Council continues to remain inert, without adopting concrete measures to stop the conflict. The difficulty in making decisive decisions is almost always linked to the need to reconcile conflicting geopolitical interests among the permanent members.
"How long will Rwanda continue to abuse your respect and authority? What international instrument must it violate before this Council finally takes the necessary measures against Kigali? From the UN Charter to international humanitarian law, to human rights, through the peace processes of Luanda and Nairobi, Rwanda has demonstrated that your statements do not matter to it. The ceasefire of August 4, 2024, was nothing but a mirage for them, and they continued to ignore your warnings from January 26, even bombing hospitals and homes in the city of Goma."
Inaction becomes even graver in the face of the evident worsening of the humanitarian situation in Goma, with the civilian population trapped and deprived of essential goods. The international community is accused of reacting too slowly, ignoring suffering until the crisis becomes unmanageable or failing to prevent it when it is already too late.
"In the last 24 hours, over 100 wounded have been received in the health centers of the International Committee of the Red Cross, and the humanitarian situation continues to worsen with over 500,000 new displaced persons in the provinces of North Kivu and South Kivu, just in the month of January."
The war in Sudan has been repeatedly described in recent days as the "most serious humanitarian crisis on the planet," yet, despite these declarations, Africa does not see a concrete international commitment to managing this emergency. Even in the face of the devastation of Gaza and the deaths of 70,000 Palestinians, humanitarian law has been blatantly ignored, without a decisive intervention. However, the minister does not resign herself and raises her voice to say what everyone holds dear:
"The lives of civilians must not be left in the hands of politicians who watch without acting. We demand action."
And courageously states:
"If this Council does not impose sanctions, history will mark this period as the era of the Security Council's impotence and indifference. The redemption of this Council in this crisis lies nowhere else but in immediate actions."
How can we explain the current chaos to Congolese families who, since 1960 with the arrival of ONUC, then in 1999 with MONUC, transformed in 2010 into MONUSCO, continue to live between attacks, deaths, and the tragedy of displacement? It is certainly not up to the population to analyze agreements, missions, or articles of international law. What matters to those who live daily in insecurity is that these interventions yield concrete results: at least the possibility of a life without fear that an armed group will force them (in the best case) to abandon their home and village. But to this day, this has not happened.
2. The Marginalization of African Voices (and Beyond): The text reveals another sentiment towards international organizations: geopolitical weight determines the attention received. The minister makes us understand that perhaps, if the denunciations came from more globally influential states, the response would likely be faster and more decisive. Even when many countries share the same position, if they do not have significant geopolitical weight, this does not automatically lead to concrete decisions. It is frustrating for any state to read in Article 2, paragraph 1, of the UN Charter: "The Organization is founded on the principle of the sovereign equality of all its Members." States are not equal: they differ in size, population, military, political, and economic power. But, paraphrasing a thought of Hannah Arendt on man, it should be the function of law to make them equal. However, the legal structure of the UN contradicts this aspiration.
The minister, to draw attention to the situation in her country, feels compelled to cite international victims, as if doing so would garner greater attention:
"The victims are no longer just Congolese. Rwanda has struck Africa and Latin America by killing South African, Malawian, and Uruguayan soldiers who came to protect civilians. It has struck this Council by killing MONUSCO peacekeepers."
3. War Knows No Borders: The minister offers us a profound image of war when she says: "A war knows no borders, it is dirty, it consumes everything it encounters, the strong as well as the weak." With so many conflicts around us, we can affirm with certainty that war is never just a problem for one country, but affects all of humanity. "A bullet that strikes the heart cannot leave the rest of the body indifferent."
Perhaps this will be the greatest gift that the countries of the Global South will offer to all of humanity: a new conception of international relations that is not solely tied to the selfishness of sharing goods and resources or the fear that makes one always see the other as a threat. A concept of international relations that starts from the Ubuntu element of African anthropology – "I am because we are" – unfortunately almost disappearing even in Africa.
The hope of the minister is, in fact, the hope of all humanity living under the violence of war: "that this Assembly may be the stronghold of justice and human dignity."
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