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«Non perdere il gusto per le cose celesti»

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Alcune riflessioni sulla Lettera Testamento. 

A cento anni dalla pubblicazione della Lettera Testamento, ci si può chiedere se questa Lettera continui anche oggi a dire qualcosa di importante a coloro che hanno già abbracciato la Congregazione o intendono farlo in futuro. Io, sono sincero, dopo averla letta durante il Noviziato non l’ho più presa in mano se non in questi giorni e proprio perché sono stato invitato a fare qualche riflessione in proposito tenendo presente il contesto del Bangladesh in cui mi trovo.

Son convinto che qualcun altro avrebbe potuto scrivere qualcosa di meglio rispetto a quello che faccio io, proprio perché conosce questa lettera e l’ha letta più di me. Comunque devo dire che riprendendola in mano ho scoperto di apprezzare il suo contenuto e di averlo fatto da sempre anche senza essere cosciente che fosse il contenuto di questa Lettera. Forse ha anche inciso sul mio essere missionario più di quanto avessi mai immaginato.

Quello che ho notato subito rileggendola è che in questa Lettera il Fondatore parla ben poco della Missione in sé, e questo fatto sembra situarla un po’ fuori dal contesto attuale dove invece della missione si parla tanto a partire dal magistero stesso del Papa. Ma la cosa mi sembra anche di capirla in quanto ai tempi del Fondatore la missione era di sicuro meno problematica di oggi, ed era normale che il Conforti facendo propria la teologia del suo tempo ed essendo testimone di una tradizione solida di Congregazioni che venivano fondate in vista della missione ad gentes, non si interessasse molto all’argomento che dava piuttosto per scontato. La «dilatazione del Vangelo nelle terre infedeli» come fine della missione, l’accenno alle «opere dell’apostolato» portate avanti dai Saveriani, per lui sono richiami sufficienti per parlare della missione e invitare i Saveriani a procedere in questa linea.

Quello invece che nella Lettera è approfondito e diventa l’argomento centrale è l’atteggiamento di fondo del missionario che il Conforti lo fa derivare dalla consacrazione religiosa che fa dei Saveriani degli imitatori di Cristo. E in fondo è proprio la passione per il Cristo, e quindi per quello che a Lui sta a cuore e cioè l’umanità bisognosa di salvezza, ad essere per lui il fondamento della missione. Di fronte alle difficoltà della medesima, l’offerta di se stessi come Lui e in Lui, dice ancora, è la garanzia per rimanere fedeli alla «vocazione alla quale siamo stati chiamati» e quindi portare avanti il compito della evangelizzazione. Parlare come fa lui, di vocazione come «evento di Grazia» per me, qui in Bangladesh è importante perché soprattutto quando l’annunzio esplicito non è possibile, quello che fa la differenza tra le tante iniziative umanitarie e di sviluppo fatte dai missionari e quelle fatte da tante altre organizzazioni locali e internazionali è proprio il punto di riferimento di tutto quello che si fa. Di fatto facciamo spesso le stesse cose, ma il rapporto personale tra Colui che chiama a coinvolgerci in queste attività e colui che le porta avanti è ben diverso dal rapporto che può esistere tra gli operatori di queste organizzazioni e coloro che le programmano o le finanziano.

Inoltre questa relazione segnata dalla vocazione è ciò che, come dice il Conforti, aiuta a non far dipendere la missione dai successi apostolici che ci possono essere, ma anche non essere. È la mia esperienza in Bangladesh a confermarmi che di fatto sono molti di più gli insuccessi che i successi nelle mie attività e in fondo il pensare che dopo tutto il lavoro che faccio non è solo il mio lavoro, ma anche quello di Qualcun altro, questo mi aiuta a portare pazienza e a crederci anche se non vedo risultati.

C’è anche un altro punto da sottolineare ed è quello che, in Bangladesh dove le attività dei missionari da sempre sono molto diversificate, se fondate nel cristocentrismo del Conforti trovano tutte una loro giustificazione ed anche una certa unità. Ancora è il cristocentrismo del Conforti, che ci viene in aiuto qui in Bangladesh nel dialogo con i mussulmani, perché’ ci possiamo presentare di fatto come i seguaci di quel Gesù di Nazareth che è anche per loro un profeta e addirittura per alcuni il «sigillo di santità». È la sequela di Cristo che può giustificare ai loro occhi, almeno in un certo modo, la nostra scelta di dedicarci ai poveri e agli emarginati, senza avere una propria famiglia contraddicendo così il comando del Creatore di moltiplicarsi, comando al quale, come tutti sanno, sono molto attaccati.

Non ho a che fare con la formazione, ma mi chiedo se per caso oggi non ci sia bisogno di parlare di più di questo rapporto Cristo-missionario proprio per non ridurre la nostra scelta ad una semplice partecipazione ad un progetto per il quale ci si sente attratti, oppure perché si sta bene in una comunità, o addirittura appare come un modo di innalzarsi nella scala sociale. A me tutto questo non sembra per nulla sufficiente. Penso che, come dice la Lettera, la nostra scelta della missione ad vitam abbia bisogno di un coinvolgimento personale, profondo con Colui che chiama a fare questa scelta. Non è possibile coinvolgerci in una scelta che ha qualcosa di «eterno» se non lo facciamo per Colui che è eterno. La sostituzione della consacrazione dedizione a Dio e al suo piano di salvezza con la consacrazione dedizione all’umanità povera e bisognosa di aiuto e di liberazione è una tentazione invitante anche qui in Bangladesh, dove è facile venire sommersi dai problemi di una umanità povera ed emarginata. Ma in fondo darei ragione al Conforti che dà l’assoluta precedenza alla consacrazione a Dio come condizione necessaria per vivere la dedizione alla umanità come ha fatto Gesù stesso. Mi sembra importante anche essere coscienti, come lo è il Conforti, che il nostro contributo alla missione è un «povero contributo». Non siamo né gli artefici della missione, sostituendoci allo Spirito Santo, né tanto meno quelli che debbono necessariamente lasciare un segno di quello che han fatto costruendo chissà che cosa. Conforti scrivendo del «nostro povero contributo» ci invita ad essere umili, senza pretese, a non considerarci troppo i salvatori del mondo. Essendo la Chiesa il primo soggetto della missione, noi siamo in essa come una sua parte che fa qualcosa e niente di più. La Congregazione può finire anche domani e così la sua missione, ma la Chiesa e la missione, continueranno!

Concludo riferendomi al n. 8 della Lettera in cui ci vien detto di «non perdere il gusto per le cose celesti». Mi sembra questo un richiamo che definirei semplicemente «bello!». Mi ricordo bene che p. Dagnino durante la formazione lo ripeteva spesso, e in Bangladesh il tentare di viverlo, non può che farci sentire più vicini alle grandi religioni qui presenti perché esse stesse lo condividono. Si può forse dire che con questo richiamo, la Lettera il Conforti invita ad una «spiritualizzazione» della missione? Non lo credo. Piuttosto a me sembra che quello del Conforti sia un invito a far sì che il processo verso la piena umanizzazione del mondo, al quale l’evangelizzazione collabora, si fondi, come dice la Gaudium et Spes, «nel mistero di Cristo che solo illumina il mistero dell’uomo». Se con il mistero di Cristo non siamo coinvolti in modo profondo, non capiremo neppure bene quello che possiamo offrire all’uomo per illuminare il suo mistero.

Lorenzo Valoti
Satkhira - Bangladesh


Not to diminish our interest in things eternal

Some thoughts on the Testament Letter. 

One hundred years after the publication of the Testament Letter, we can ask ourselves whether today, this Letter continues to say something important to those who have already embraced the Congregation or intend to do so in the future. After reading it during Novitiate, I sincerely say that I have not picked it up again except in these days when I was invited to reflect on it, bearing in mind the context of Bangladesh in which I find myself.

I am convinced that someone else could have written something better than me,  precisely because he knows this Letter and has read it more often than me. However, I must say that taking it up again, I discovered that I appreciate its content, and I have always put it into practice even without being aware that this was the essence of this Letter. Perhaps it also affected my being a missionary more than I ever imagined.

What I immediately noticed while re-reading it is that, in this Letter, the Founder speaks very little about Mission itself. And this fact seems to situate it a little outside the current context where on the other hand, there is a lot of talk about mission starting from the Pope's magisterium. But I feel I can understand it since, at the Founder's time, mission was undoubtedly less problematic than today. It was typical that Conforti, making the theology of his time his own and witnessing a solid tradition of Congregations founded for the mission ad gentes, was not very interested in a subject that he instead took for granted. The "spreading of the Gospel among the infidels" as the goal of mission and the reference to the "apostolic works" carried out by the Xaverians, are for him sufficient reminders when he speaks about mission and when he sends the Xaverians to continue in this line.

Instead, what is deepened in the Letter and becomes the central topic is the missionary's essential attitude, Conforti draws from the religious consecration which makes the Xaverians imitators of Christ. It is precisely the passion for Christ and what is dear to Him, namely humanity in need of salvation, that is for Confori the foundation of mission. For Conforti, the offering of oneself like Him and in Him is, amid difficulties we may encounter, the guarantee to faithfulness to the "vocation to which we have been called," and enables us to carry on the task of evangelization. For me, here in Bangladesh, speaking as he does of vocation as an "event of Grace," it is essential, especially when it is not possible to openly proclaim the Gospel. This is the point of reference for everything we do and distinguishes the many humanitarian and development initiatives carried out by the missionaries and those carried out by many other local and international organizations. We often do the same things, but the personal relationship between the One who calls us to be involved in these activities and the one who carries them out is very different from the relationship between these organizations' personnel and those who plan or finance them.

Furthermore, this relationship that sustains the vocation is what, as Conforti says, helps not to make the mission dependent on apostolic successes, which may or may not happen. My experience in Bangladesh which confirms that. In my activities, there are many more failures than successes. Thinking that after all the work I do, it is not only my job, but more so the work of Someone else helps me to be patient and believe in it even if I don't see results.

There is also another point that needs to be considered: In Bangladesh, where missionaries' activities have always been very diversified, if rooted in the Christocentrism of Conforti, they all find their justification and a certain unity as well. It is the Christocentrism of Conforti which comes to our aid vis a vis the dialogue with the Muslims in Bangladesh. For, we can present ourselves as the followers of that Jesus of Nazareth who, for them, is also a prophet and for some even the "Seal of holiness." It is in the following of Christ that can justify in their eyes, at least in a certain way, our choice to dedicate ourselves to the poor and marginalized, without our own family, thus contradicting the Creator's command to multiply, a command to which, as everyone knows, they are very attached.

I am not involved with formation, but I wonder if today, the time has come to speak more about the relationship between Christ and the missionary. Precisely in order that we do not  reduce our call to a simple participation in a project to which we feel attracted, or because we feel good in a community, or even as a way to rise on the social ladder. To me, all this is not enough. I think that, as the Letter says, our choice of mission ad vitam needs a personal, profound relationship with the One who calls us to choose this life. It is impossible to engage ourselves in a choice that has something "of eternity" if we do not do it for the One who is eternal. Replacing the consecration-dedication to God and His plan of salvation with the consecration dedication to humanity’s poor in need of help and liberation is an attractive temptation even here in Bangladesh, where it is easy to be overwhelmed by the problems of a poor and marginalized humanity. In the end, I would agree with Conforti, who gives absolute priority to one's consecration to God as a necessary condition for living one's commitment to humanity as Jesus himself did. It also seems important to me to be aware, as Conforti did, that our contribution to the mission is a "modest contribution." We are neither the architects of mission, replacing the Holy Spirit, nor those who must necessarily leave a sign of what they have done by building who knows what. By writing about "our modest contribution," Conforti invites us to be humble, unassuming, and not to consider ourselves too much as the saviors of the world. Since the Church is the first subject of the mission, we are in it as a part that does something, and nothing more. The Congregation can come to an end tomorrow, and so its mission, but the Church and its mission will continue!

I conclude by recalling n. 8 of the Letter in which we are reminded not to "diminish our interest in things eternal." It is a reminder that I would define "beautiful!" I remember well how Fr. Dagnino, during our formation, repeated it often. In Bangladesh, trying to live this can only make us feel closer to the great religions present here because they themselves share this as well. Can it be said that with this invitation, the Letter of Conforti calls us to a "spiritualization" of the mission? I don't think so. Instead, it seems to me that what Conforti says is an invitation to ensure that the process towards the full humanization of the world, towards which evangelization collaborates, is based on, as Gaudium et Spes says, "only in the mystery of the incarnate Word does the mystery of man take on light!” If we are not deeply involved with the mystery of Christ, we will never understand what we can offer to man to illuminate his mystery.

Lorenzo Valoti
Satkhira - Bangladesh


«No perder el gusto por las cosas espirituales»

Algunas reflexiones sobre la Carta Testamento. 

A cien años de la publicación de la Carta Testamento, podemos preguntarnos si esta Carta sigue diciendo algo importante hoy a los que han abrazado ya la Congregación o quisieran hacerlo en el futuro. Yo, siendo sincero, después de haberla leído durante el Noviciado, no la he tomado más en cuenta sino hasta estos días en que he sido invitado a hacer alguna reflexión al respecto, a partir del contexto en que me encuentro, Bangladesh.

Estoy convencido de que otro podría escribir algo mejor de lo que yo hago ahora, por el hecho mismo de que conoce esta carta y la ha leído más que yo. De cualquier manera, debo decir que, retomándola en mano, he descubierto que aprecio su contenido y que lo he hecho desde siempre, aun sin ser consciente de que fuera el contenido de esta Carta. Quizás ha incidido también en mi ser misionero más de lo que hubiese nunca imaginado.

Lo que he notado enseguida al releerla, es que el Fundador habla muy poco en esta Carta de la Misión en cuanto tal, y esto parece situarla un poco fuera del contexto actual en el que, por el contrario, de la misión se habla mucho, empezando con el magisterio mismo del Papa. Pero creo entenderlo por el hecho de que en los tiempos del Fundador, la misión era seguramente menos problemática que hoy, y era normal que Conforti, haciendo propia la teología de su tiempo, y siendo testigo de una tradición sólida de Congregaciones que eran fundadas en vista de la misión ad gentes, no se interesara mucho del argumento que daba por descontado. La «dilatación del Evangelio en las tierras infieles» como fin de la misión, el señalamiento de las «obras de apostolado» llevadas adelante por los Xaverianos, son para él reclamos suficientes para hablar de la misión e invitar a los Xaverianos a proceder en esta línea.

Lo que más bien se profundiza en la Carta, convirtiéndose en su argumento central, es la actitud de fondo del misionero, la cual se deriva, según Conforti, de la consagración religiosa que hace de los Xaverianos unos imitadores de Cristo. Y en el fondo es justamente la pasión por Cristo y, por lo tanto, por lo que está en su corazón, es decir, la humanidad necesitada de salvación, lo que es para Conforti el fundamento de la misión. Ante las dificultades de la misma, el ofrecimiento de sí como Él y en Él, dice Conforti, es la garantía para permanecer fieles a la «vocación a la cual hemos sido llamados» y, por consiguiente, llevar adelante la tarea de la evangelización.

Hablar como hace él, de vocación como «acontecimiento de Gracia», es para mí, aquí en Bangladesh, algo importante, sobre todo cuando el anuncio explícito no es posible. Lo que hace la diferencia entre las muchas iniciativas humanitarias y de desarrollo realizadas por los misioneros y aquellas cumplidas por tantas otras organizaciones locales e internacionales es, precisamente, el punto de referencia de todo lo que se hace. De hecho, a menudo hacemos las mismas cosas, pero la relación personal entre Aquel que llama a involucrarnos en estas actividades y el que las lleva adelante, es bien distinta de la relación que puede existir entre los operadores de estas organizaciones y los que las programan o las financian.

Además, este tipo de relación, marcada por la vocación, es eso que, según Conforti, ayuda a no hacer depender la misión de los éxitos apostólicos que pueden darse, como también no darse. Mi experiencia en Bangladesh me confirma que, de hecho, son mucho más los fracasos que los éxitos en mis actividades y, en el fondo, me queda el pensar que después de todo el trabajo que hago no es sólo mi trabajo, sino también el de Alguien más, y esto me ayuda a tener paciencia y a creer, aunque no vea resultados.

Hay también otro punto que ha de ser subrayado desde un Bangladesh donde las actividades de los misioneros son desde siempre muy variadas, y es el punto de que, si fundadas en el cristocentrismo de Conforti, todas esas actividades encuentran una justificación y también cierta unidad. Aún más, el cristocentrismo de Conforti, viene en nuestra ayuda aquí en Bangladesh en el diálogo con los musulmanes, pues, podemos presentarnos de hecho como seguidores de Jesús de Nazareth, el cual también es para ellos un profeta y para algunos, incluso, el «sello de santidad». El seguimiento de Cristo es lo que puede justificar a sus ojos, al menos en cierto modo, nuestra opción de dedicarnos a los pobres y a los marginados, sin tener una familia propia, contradiciendo el mandato del Creador de multiplicarse, mandato al que, como todos saben, ellos están muy apegados.  

No tengo nada que ver con la formación, pero me pregunto si por casualidad hoy no habría necesidad de hablar más de la relación Cristo-misionero, precisamente para no reducir nuestra opción a una simple participación a un proyecto por el que se es atraídos, o porque se está bien en una comunidad, o hasta porque parece tomarse como un modo para elevarse en la escala social. A mí todo esto no me parece para nada suficiente. Pienso que, como dice la Carta, nuestra opción por la misión ad vitam tiene necesidad de una participación personal profunda con Aquel que llama a hacer esta opción. No es posible involucrarnos en una opción que tiene algo de «eterno», si no lo hacemos por Aquel que es eterno.

La sustitución de una consagración como dedicación a Dios y a su plan de salvación por otra entendida como dedicación a la humanidad pobre y necesitada de ayuda y liberación, es una tentación atrayente también aquí en Bangladesh, donde es fácil ser sumergidos por los problemas de una humanidad pobre y marginada. En el fondo, daría razón a Conforti que da la absoluta primacía a la consagración a Dios como la condición necesaria para vivir la dedicación a la humanidad tal como lo ha hecho el mismo Jesús.

También me parece importante ser conscientes, como lo es Conforti, de que nuestra aportación a la misión es una «pobre aportación». No somos ni los artífices de la misión, reemplazando al Espíritu Santo, ni mucho menos aquellos que deben dejar necesariamente una huella de lo que han hecho construyendo quién sabe qué cosa. Conforti, escribiendo sobre «nuestra pobre aportación», nos invita a ser humildes, sin pretensiones, a no considerarnos en demasía los salvadores del mundo. Siendo la Iglesia el primer sujeto de la misión, nosotros estamos en ella como una parte que hace algo y nada más. La Congregación puede, incluso, desaparecer mañana e igual su misión, pero ¡la Iglesia y la misión, continuarán!

Concluyo refiriéndome al n. 8 de la Carta en el que se nos indica de no «perder el gusto por las cosas espirituales». Este es un llamamiento que yo definiría sencillamente «¡bello!». Recuerdo muy bien que el P. Dagnino durante la formación repetía esto muy a menudo y, en Bangladesh, intentar vivirlo, no puede sino hacernos sentir más cercanos a las grandes religiones aquí presentes porque ellas mismas lo comparten. Con este llamamiento de la Carta, ¿es posible pensar que Conforti invita a un «espiritualización» de la misión? No lo creo. Mas bien, me parece que Conforti invita a hacer que el proceso hacia la plena humanización del mundo, al cual colabora la evangelización, se fundamenta, como dice Gaudium et Spes, «en el misterio de Cristo que, en sí mismo, ilumina el misterio del hombre». Si no estamos involucrados con el misterio de Cristo de manera profunda, tampoco entenderemos bien lo que podemos ofrecer al hombre para iluminar su misterio.

Lorenzo Valoti
Satkhira - Bangladesh


« Ne pas perdre le goût pour les choses célestes »

Quelques réflexions sur la Lettre Testament. 

Cent ans après la publication de la Lettre Testament, on peut se demander si celle-ci continue encore aujourd’hui à dire quelque chose d’important à ceux qui se sont déjà engagés dans la Congrégation ou pensent de le faire dans l’avenir. Pour être honnête, après l’avoir lue pendant le Noviciat, je ne l’ai prise en main que ces jours-ci et c’est précisément parce que j’ai été invité à faire quelques réflexions à son sujet en tenant compte du contexte du Bangladesh où je me trouve. 

Je suis convaincu que quelqu’un d’autre aurait pu écrire quelque chose de mieux que ce que je fais, tout simplement parce qu’il connaît cette lettre et l’a lue plus que moi. Mais je dois dire qu’en la reprenant en main, j’ai découvert avec appréciation son contenu et que je l’avais toujours mis en pratique, même sans en être conscient. Cette lettre a certainement eu d’impact sur mon être missionnaire plus que je ne l’aurais imaginé.

Ce que j’ai remarqué tout de suite pendant que relisais cette Lettre, c’est que le Fondateur y parle très peu de la Mission en soi, et ce fait semble la situer un peu en dehors du contexte actuel où, au lieu de la mission, on parle beaucoup à partir du magistère même du Pape. Mais il me semble aussi de bien comprendre car à l’époque du Fondateur la mission était certainement moins problématique qu’aujourd’hui, et il était normal que Conforti, en faisant sienne la théologie de son temps et en étant témoin d’une solide tradition de Congrégations qui venaient d’être fondées en vue de la mission ad gentes, ne s’intéresse pas beaucoup à un argument qu’il considérait plutôt comme acquis. La « dilatation de l’Evangile dans les terres infidèles » comme fin de la mission, l’allusion aux « œuvres de l’apostolat » menées par les Xavériens, sont pour lui des éléments suffisants pour parler de la mission et inviter les Xavériens à continuer sur cette voie.

Ce qui par contre, dans la Lettre, est approfondi et devient l’argument central, c’est l’attitude de fond du missionnaire que Conforti fait dériver de la consécration religieuse qui fait des Xavériens des imitateurs du Christ. Au fond, il s’agit de la passion pour le Christ, et donc pour ce qui lui tient à cœur, c’est-à-dire l’humanité qui a besoin de salut. C’est ceci qui est pour lui le fondement de la mission. Face aux difficultés de la mission, le don de soi comme Lui et en Lui, dit-il encore, est la garantie pour demeurer fidèles à la « vocation à laquelle nous avons été appelés » et donc poursuivre la tâche de l’évangélisation. Parler comme il le fait, de vocation comme « événement de grâce » pour moi, ici au Bangladesh est important parce que, et surtout, quand l’annonce explicite n’est pas possible, l’élément qui fait la différence entre les nombreuses initiatives humanitaires et de développement faites par les missionnaires et celles faites par tant d’autres organisations locales et internationales est précisément le point de référence de tout ce qu’on fait. En fait, nous faisons souvent les mêmes choses, mais le rapport personnel entre Celui qui appelle à nous impliquer dans ces activités et celui qui les mène est bien différent du rapport qui peut exister entre les opérateurs de ces organisations et ceux qui les programment et/ou les financent.

En outre, ce rapport marqué par la vocation est ce qui, comme le dit Conforti, aide à ne pas faire dépendre la mission des succès apostoliques qui peuvent exister, mais qui peuvent aussi ne pas exister. Mon expérience au Bangladesh me confirme qu’en fait, il y a beaucoup plus d’échecs que de succès dans mes activités et, au fond, penser qu’après tout le travail que je fais, ce n’est pas seulement mon travail, mais aussi celui de Quelqu’un d’autre, cela m’aide à être patient et à continuer à croire même si je ne vois pas des résultats.

Il y a aussi un autre point à souligner. Ici au Bangladesh les activités des missionnaires sont très diversifiées depuis toujours. Dans la mesure où elles sont fondées sur le christocentrisme de Conforti, elles trouvent leur justification et même une certaine unité. C’est le christocentrisme de Conforti qui nous vient en aide ici au Bangladesh dans le dialogue avec les musulmans, car nous pouvons nous présenter de fait comme des disciples de ce Jésus de Nazareth qui est pour eux aussi un prophète et même pour certains le « sceau de sainteté ». C’est la sequela du Christ qui peut justifier à leurs yeux, au moins d’une certaine manière, notre choix de nous consacrer aux pauvres et aux marginaux, sans avoir sa propre famille, contredisant ainsi le commandement du Créateur de se multiplier, commandement auquel, comme nous le savons, ils sont très attachés.

Je n’ai rien à voir avec la formation, mais je me demande s’il n’est pas nécessaire aujourd’hui de parler davantage de ce rapport Christ-missionnaire précisément pour ne pas réduire notre choix à une simple participation à un projet pour lequel on se sent attiré, soit parce qu’on se sent bien dans une communauté, ou même parce que c’est une mode pour se faire une place sur l’échelle sociale. Pour moi tout ceci n’est vraiment pas suffisant. Je pense que, comme le dit la Lettre Testament, notre choix de la mission ad vitam a besoin d’une implication personnelle et profonde avec Celui qui appelle à faire ce choix. Il n’est pas possible de nous impliquer dans un choix qui a quelque chose d'« éternel » si nous ne le faisons pas pour Celui qui est éternel. La substitution de la consécration-don à Dieu et à son plan de salut par la consécration-dévouement à l’humanité pauvre et qui a besoin d’aide et de libération est une tentation même ici au Bangladesh, où il est facile d’être submergé par des problèmes d’une humanité pauvre et marginalisée. Mais, au fond, je donnerais raison à Conforti qui donne la priorité absolue à la consécration à Dieu comme condition nécessaire pour vivre dévoué à l’humanité comme l’a fait Jésus lui-même. Il me semble également important d’être conscient, comme l’est Conforti, que notre contribution à la mission est une « pauvre contribution ». Nous ne sommes ni les artisans de la mission, pour prétendre substituer l’Esprit Saint, ni encore moins ceux qui doivent nécessairement laisser une trace de ce qu’ils ont fait en construisant je ne sais quoi. En parlant de « notre pauvre contribution » Conforti nous invite à être humbles, sans prétentions, à ne pas nous considérer trop comme les sauveurs du monde. L’Eglise étant le premier sujet de la mission, nous sommes en elle comme une de ses parties, qui ne fait que quelque chose et rien de plus. La Congrégation peut finir demain et avec elle sa mission aussi, mais l’Eglise et la mission continueront !

Je conclus en me référant au n. 8 de la Lettre Testament où il nous est demandé de « ne pas perdre le goût pour les choses célestes ». Cela me semble un appel que je qualifierais simplement de « beau ». Je me souviens bien que le P. Dagnino le répétait souvent aux temps de la formation, et au Bangladesh la tentative de le vivre ne peut que nous faire sentir plus proches des grandes religions présentes ici parce qu’elles le partagent. Peut-on dire qu’avec cet appel, la Lettre Testament de Conforti invite à une « spiritualisation » de la mission ? Je ne le crois pas. Il me semble plutôt que Conforti lance une invitation à faire en sorte que le processus vers la pleine humanisation du monde, auquel l’évangélisation collabore, se fonde, comme le dit Gaudium et Spes, « sur le mystère du Christ qui seul illumine le mystère de l’homme ». Si nous ne sommes pas profondément impliqués dans mystère du Christ, nous ne serons pas à mesure de bien comprendre ce que nous pouvons offrir à l’homme pour éclairer son mystère.

Lorenzo Valoti
Satkhira - Bangladesh

Lorenzo Valoti sx
5 Mai 2021
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