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Missione per ansia o per invio?

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Parlando con la gente, e anche con i preti, si nota un senso di disagio nei confronti della società e della cultura che ci circonda. Le cose sono cambiate, i valori cristiani non sono riconosciuti, la gente non va in chiesa e gli oratori si sono svuotati. Anche leggendo i libri che parlano di teologia, ci si imbatte spesso in introduzioni che descrivono la cultura attuale in maniera molto negativa, quasi disperata. Il papa parla di un cambiamento di epoca, e in questa fase di transizione ci troviamo spiazzati, ansiosi, frustrati. La chiesa fatica a farsi ascoltare. Altre agenzie, come la rete, sembrano essere le vere fonti di informazione e di formazione, soprattutto delle giovani generazioni. La chiesa di colpo si trova emarginata, ridotta all’insignificanza. È come vedere un castello, un tempo possente nella sua magnificenza, che inizia a sgretolarsi inesorabilmente. Ne rimarranno solo macerie?

Naturalmente nascono anche i sensi di colpa: la chiesa è inadeguata, non fa la sua parte, non si occupa della situazione, è lontana dalla vita della gente, non sa testimoniare. Ha inoltre bisogno di una nuova creatività, di metodologie comunicative aggiornate, bisogna occupare di più il mondo digitale con i nostri posts, abbiamo bisogno di più visibilità mediatica, perché ci si rende conto che il vangelo non fa più presa sulle persone.

Come missionari, possiamo vivere questa sfida culturale in tanti modi. Uno, il più istintivo è quello di reagire. Davanti ai problemi ci si ingegna per risolverli. È naturale fare così. Allora si fa un’analisi della realtà, si vedono le questioni e le difficoltà, e si cerca di proporre in maniera nuova il vangelo ad un mondo che ne ha bisogno. Si programma, si organizza, si progetta. L'evangelizzazione diventa la ricerca di nuovi metodi di comunicazione affinché il messaggio della fede sia più comprensibile, attrattivo, appetibile.

Ma facendo così, succede qualcosa che tocca i motivi della missione. Essa assume i contorni di una reazione alla cultura ormai indifferente. La missione diventa una risposta metodologica aggiornata per comunicare i valori in cui crediamo e che appaiono inascoltati. È missione per reazione, per insoddisfazione. È missione per ansia.

È ovvio che per noi il vangelo è anche soluzione dei problemi personali e sociali, ma, mi chiedo se sia possibile ridurre la missione ad uno strumento per migliorare l'efficacia della comunicazione di valori non ascoltati. E, ancora, se essa serve solo a migliorare la recezione del messaggio evangelico in vista di una risposta ai problemi del mondo, alla fine chi è che manda il missionario in missione, Dio o… il mondo stesso? Non è che in questo modo la missione da carisma (dono dello Spirito), si trasforma in strumento, metodo, programma, strategia… ideologia soltanto umana?

A questo proposito, mi pare quindi molto bello ciò che ci dice papa Francesco nel suo messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale di quest’anno. Nella prima parte ci richiama al primo amore della missione. Essa non è motivata principalmente dall’impegno verso la società e dalla constatazione che il mondo va male e non ci ascolta, ma piuttosto dalla profonda esperienza d’amore che ha investito il missionario: «quando sperimentiamo la forza dell’amore di Dio, quando riconosciamo la sua presenza di Padre nella nostra vita personale e comunitaria, non possiamo fare a meno di annunciare e condividere ciò che abbiamo visto e ascoltato».

Sono parole semplici, ma autentiche e profonde. Esse sono un richiamo ad un forte cambiamento di mentalità. È Dio che ci invia, non il mondo coi suoi problemi. Non è l’ansia di essere finalmente ascoltati a spingerci, ma l'amore di Cristo (cf. 2 Cor 5,14). Il missionario è colui che per primo è stato investito dall’amore infinito del Padre (diventando prima degli altri il beneficiario della missione) e per questo si sente inviato a condividere questa esperienza.

In questo tipo di visione, non c’è molto spazio per strategie, programmi e organizzazione. La missione diventa invece la risposta ad un invio che è deciso nei modi e nei tempi, da un Altro, e fa riferimento ad un piano d’amore che non è scritto in terra, ma in cielo. Se ci sarà da programmare e decidere, e magari da lavorare sodo, lo sarà in termini di discernimento dei piani dello Spirito; il capire cioè, insieme, ciò che Lui (che ha a cuore le persone molto più di noi) ci chiede di fare. Paolo va in Macedonia sicuro di essere mandato da Dio che gli ha parlato attraverso un sogno: “subito cercammo di partire per la Macedonia, ritenendo che Dio ci avesse chiamati ad annunciare loro il Vangelo.” (Act 16:10)

Riconoscere che è Lui a mandarci, ci dà più serenità. Aiuta a ridurre l’ansia del fare, del creare nuove cose, del risolvere, del cercare di persuadere… È Lui che ci manda ed è Lui che opera e convince. A noi il compito di esserci, come trasparenza di Cristo, come popolo del Vangelo: “il Signore [non l’apostolo] ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati” (Act 2:47 CEI).

Nel suo messaggio il papa dice che le difficoltà vissute dai primi cristiani non erano inferiori a ciò che viviamo noi oggi: “i tempi non erano facili; i primi cristiani incominciarono la loro vita di fede in un ambiente ostile e arduo. Storie di emarginazione e di prigionia si intrecciavano a resistenze interne ed esterne… ma questo, anziché essere una difficoltà o un ostacolo…. Li spinse a trasformare ogni inconveniente, contrarietà e difficoltà in opportunità per la missione.” Allora, in questi tempi difficili ci troviamo in compagnia dei primi cristiani. Essi erano stati investiti dall’esperienza folgorante dell’amore di Dio che li ha trasformati in missionari, non per progetto umano o per strategia comunicativa, ma per… impossibilità di fare diversamente. Non erano specialisti, non erano strateghi, non erano esperti, ma avevano incontrato Lui. Erano testimoni di un qualcosa che a loro era successo per davvero, l’incontro con Cristo. E il testimone in tribunale non è necessariamente un esperto, ma è colui la cui autorità si fonda nel semplice aver visto un fatto con i propri occhi.

Inoltre, solo Cristo può dare consistenza ed efficacia alla missione, perché solo Lui è in grado di trasformare la nostra opera a favore dei fratelli nella comunicazione dell’amore del Padre. Ce lo ricorda il vangelo: ­“nessuno conosce il Padre se non il Figlio” (Mt 11,26). Non si tratta quindi semplicemente di migliorare la metodologia comunicativa, ma di mettere Lui al centro.

Infine, Cristo è anche colui che il missionario incontra nei fratelli a cui egli è mandato. Cristo rimane al centro della missione, sia nell’esperienza originante come pure nell’esperienza dell’annuncio. Infatti, evangelizzare è aiutare a prendere coscienza della presenza di Cristo nella vita di chi ancora non lo conosce. E la conversione a Cristo è accorgersi di una realtà che antecede l’annuncio stesso, il fatto, cioè, che tutti siamo già di Cristo, consapevoli o no: “Cristo è tutto e in tutti” (Col 3:11).

A questo proposito, quando venivano dei visitatori alle Mentawai notavano la povertà dei bambini. Toccati da questa visione dicevano spontaneamente: “bisogna fare qualcosa, magari mandare dei soldi, o trovare i vestiti, o le medicine, o l’acqua potabile…” Dopo un po’ di tempo passato in queste isole, a sentire queste proposte reagivo in cuor mio dicendo: “ma non vedi che bello che è questo bambino? Non vedi che bella che è questa ragazza? Noti solo il vestito sporco, ma non vedi che dignità che ha? Non ci vedi… Gesù?” Vedere solo il problema e non la persona (Gesù) mi pareva offensivo.

Il papa ci invita a rimettere Cristo al centro della missione. Facendo così, perderemo l’ansia del risolvere ciò che non va, ma di sicuro incontreremo meglio le persone e affineremo la nostra capacità di contemplare la presenza di Dio dovunque andiamo. La nostra fede si purificherà; conosceremo meglio Dio (cfr. l’incontro di Pietro con Cornelio, Atti 10) e vorremo bene alla realtà e alle persone così come sono. Saremo più sereni e consapevoli di una vocazione bellissima. E sarà così che anche le difficoltà ed il negativo incontrati nel nostro cammino potranno essere affidati a Colui che, anche attraverso la nostra opera, i problemi li sa risolvere davvero.

Pizzighettone, (CR) 7 ottobre 2021
Matteo Rebecchi, sx


Out of Anxiety or Because We Are Sent? – On The Reasons Behind Mission

When talking with people, and even with priests, one spots a sense of dismay at the society and culture that surround us. Things have changed; Christian values do not find recognition anymore; people do not go to church and catholic youth organizations are left with very few followers. Also, when reading books of theology, one often comes across introductions that describe contemporary culture in very negative, if not hopeless, terms. The Pope speaks of an epochal change, and in this phase of transition we find ourselves crowded out, anxious, frustrated. The Church struggles to get her message across. Other agencies, such as the web, seem to be the true sources of information and formation, especially as far as new generations are concerned. All of a sudden, the Church finds herself marginalised and having become irrelevant. It is like looking at a once magnificent and massive castle while it inexorably begins to crumble. Will only debris remain of it?

Obviously, qualms also arise: the Church is inadequate; she does not do her part; she is not taking care of the situation; she is far remote from people’s life and incapable to bear witness. Moreover, she needs new creativity; she needs to upgrade her communication methodologies. We need to expand the church’s presence in the digital domain with our own posts; we need more media coverage, because we realise that the Gospel no longer appeals to people.

As missionaries, we can face this cultural challenge in many ways. One, the most instinctive, is to react. In facing problems, one tries his best to find solutions. This is a natural conduct. Thus, one analyses reality, finds out the issues and the difficulties, and then tries, in a new manner, to propose the Gospel to a world in need of it. One prepares, organises, plans. Evangelisation becomes a search for new methods of communication in order to render the Christian message more comprehensible, attractive, desirable.

However, by so doing, something occurs which undermines the motivations behind mission. Mission takes the shape of a reaction to a by-now indifferent culture. Mission becomes an updated methodological response that aims at communicating values which we believe in, but appear to be falling on deaf ears. This is mission as ‘reaction to’, mission resulting from discontent. It is mission out of anxiety.

Obviously, for us the Gospel is a solution to personal and social problems, but I question whether reducing mission to an instrument for improving the efficacy of the communication of snubbed values may be right. Moreover, if mission, in the final analysis, is only meant to improve acceptance of the Gospel message with a view to providing an answer to world problems, who then is sending the missionary to the mission? Is it God or rather the world? If it were the latter, wouldn’t the mission be transforming from a charism (a gift from the Holy Spirit) into an instrument, a method, a plan, a strategy, or a merely human ideology?

In this regard, I find quite beautiful what Pope Francis says in his message for this year World Mission Day. In the first part, he reminds us of the first love of mission. The mission is not motivated principally by commitment towards society or by the realisation that the world is going from bad to worse and is not listening to us; rather, the mission is motivated by a deep experience of love that has seized the missionary: “Once we experience the power of God’s love, and recognize his fatherly presence in our personal and community life, we cannot help but proclaim and share what we have seen and heard.”

These are simple yet authentic and deep words. They call to an overall change of mentality. It is God who sends us, not the world with its problems. What drives us is not the anxiety over being eventually paid attention to, but the love of Christ (see 2 Corinthians 5: 14). The missionary is the one who first has been enveloped in the infinite love of the Father (thus becoming before anyone else a recipient of mission) and, because of this, is sent to share such experience.

Within a similar vision there is no space for strategies, plans and organization. Instead, mission becomes an answer to Someone Else who decides when and how to send and who acts according to a plan of love which is not written on earth but in heaven. If there will be planning and decisions to make, and perhaps much toil too, it will be in terms of discernment about the plans of the Spirit; that is, understanding together what He (who cares about people much more than we do) asks us to do. Paul goes to Macedonia with the certainty that God, who spoke to him in a dream, is sending him: “we lost no time in arranging a passage to Macedonia, convinced that God had called us to bring them the good news.” (Acts 16: 10).

To recognise that it is He who sends us gives us more serenity. It helps reduce the anxiety about doing, creating new things, solving problems, trying to persuade and so on. It is He who sends, and it is He who works and convinces. We have the task of being available, as disciples through whom Christ reveals himself, as people of the Gospel: “Day by day the Lord [not the apostle] added to their community those destined to be saved.” (Acts 2: 47).

In his message, the Pope says that the difficulties experienced by early Christians were not inferior to the ones we are experiencing today: “things were not always easy. The first Christians began the life of faith amid hostility and hardship. Experiences of marginalization and imprisonment combined with internal and external struggles (…) Yet, rather than [being] a difficulty or an obstacle (…), those experiences impelled them to turn problems, conflicts and difficulties into opportunities for mission.” Therefore, in this challenging age of ours, we discover we are in the company of the early Christians. They had been enveloped by the extraordinary experience of God’s Love that transformed them into missionaries. They did so, not because of a human project or a communication strategy, but simply because they couldn’t do differently. They were not specialists, nor strategists, nor experts, but they had met Him. They were witnesses of something which had really happened to them: the encounter with Christ. And a witness in a court of law is not necessarily an expert, but one whose authority is based on the simple fact of having seen an event with his own eyes.

Furthermore, only Christ can give consistence and effectiveness to the mission, for only He is able to transform our works for the benefit of our brothers and sisters in a communication of the Father’s love. This is precisely what the Gospel reminds us: “no one knows the Father, except the Son” (Mathew 11:27). Hence, the issue is not about improving our methodology of communication, but about placing Him at the centre.

Lastly, Christ is also the one whom the missionary meets in the brothers to whom he is sent. Christ remains at the centre of the mission, both in the experience that originates it, and in the experience of proclaiming the Gospel. In fact, to evangelise means helping those that still do not know Him to become aware of Christ’s presence in their lives. Hence, conversion to Christ is discovering a reality that precedes the proclamation of the Gospel itself, that is, the fact that all of us already belong to Christ, no matter whether we are conscious of it or not: “Christ is everything and is in everything.” (Colossians 3: 11).

In this connection, I remember that when visitors were coming in Mentawai, they used to notice the poverty of local children. Moved by that vision, they would spontaneously say: “We’ve got to do something. Maybe, we must send money, or find cloths, or medicines, or provide clean water…” After I had spent some time in those islands, whenever I heard similar proposals, I would react in my heart and think: “Why can’t you see how beautiful this kid is? Don’t you see how pretty this girl is? You only notice dirty clothing but cannot see his and her dignity? Don’t you see… Jesus?” To me, seeing only the problems while neglecting the person (Jesus) seemed very offensive.

The Pope invites us to place again Christ at the centre of the mission. By doing so, we will probably rid ourselves of the anxiety over solving problems, but will certainly meet people in a better manner. We will also refine our ability to contemplate God’s presence everywhere we go. Our faith will be purified; we will know God better (see the encounter of Peter with Cornelius in Acts 10) and will love the reality and the people as they are. We will be much more serene and aware of a very beautiful vocation. This is how it will be possible to entrust to Him even the difficulties and negative circumstances that we encounter along our path, to Him who alone can really solve problems through our actions.

Matteo Rebecchi s.x.
Pizzighettone (Cremona), October 7th, 2021


¿Misión por ansiedad o por envío?

Al hablar con la gente, e incluso con los sacerdotes, se nota una sensación de malestar con respecto a la sociedad y la cultura que nos rodea. Las cosas han cambiado, los valores cristianos no se reconocen, la gente no va a la iglesia y los oratorios se han vaciado. Incluso leyendo los libros que hablan de teología, a menudo uno se encuentra con introducciones que describen la cultura actual de una manera muy negativa, casi desesperada. El Papa habla de un cambio de época, y en esta fase de transición nos encontramos desplazados, ansiosos, frustrados. La Iglesia fatiga para hacerse escuchar. Otras agencias, como las redes, parecen ser las verdaderas fuentes de información y formación, especialmente para las generaciones más jóvenes. Repentinamente, la Iglesia se ha encontrado marginada, reducida a la insignificancia. Es como ver un castillo, que una vez fue poderoso en su magnificencia, pero que comienza a desmoronarse inexorablemente. ¿Quedarán solo los escombros?

Naturalmente, surgen también sentimientos de culpa: la Iglesia es incongruente, no hace su parte, no se ocupa de la situación, está lejos de la vida de la gente, no sabe testimoniar. Asimismo, hay necesidad de una nueva creatividad, metodologías de comunicación actualizadas, necesitamos ocupar más el mundo digital con nuestras publicaciones, necesitamos más visibilidad en los medios, porque nos damos cuenta de que el evangelio ya no tiene cabida en las personas.

Como misioneros, podemos vivir este desafío cultural de muchas maneras. Uno, el más instintivo es reaccionar. Ante los problemas, nos esforzamos por resolverlos. Es natural hacer de este modo. Así que se hace un análisis de la realidad, se ven los problemas y dificultades, y se intenta proponer el Evangelio de una manera nueva a un mundo que lo necesita. Se programa, se organiza, se planifica. La evangelización se convierte en la búsqueda de nuevos métodos de comunicación para que el mensaje de fe sea más comprensible, atractivo, apetecible.

Pero al hacer así, ocurre algo que afecta los motivos de la misión; ésta toma la forma de una reacción a la cultura que, de por sí, es ya indiferente. La misión se convierte en una respuesta metodológica actualizada para comunicar los valores en los que creemos y que parecen no escuchados. Es una misión por reacción, por insatisfacción. Es misión por ansiedad.

Es obvio que para nosotros el Evangelio es también la solución de problemas personales y sociales, pero me pregunto si es posible reducir la misión a un instrumento para mejorar la eficacia de la comunicación de valores no escuchados. Y, de nuevo, si la misión sirve solamente para mejorar la recepción del mensaje evangélico de cara a una respuesta a los problemas del mundo; al final, ¿quién es el que envía al misionero en misión, Dios o ... el mundo mismo? Actuando así, ¿no sucede que la misión se convierte de carisma que es (don del Espíritu), en instrumento, método, programa, estrategia… ideología meramente humana?  

En este sentido, me parece muy hermoso lo que nos dice el Papa Francisco en su mensaje para el Domingo Mundial de las Misiones de este año. En la primera parte nos recuerda el primer amor a la misión. Ésta no está motivada principalmente por un compromiso hacia la sociedad o por la constatación de que el mundo va mal y no nos escucha, sino más bien por la profunda experiencia de amor que ha marcado al misionero: «cuando experimentamos la fuerza del amor de Dios, cuando reconocemos su presencia como Padre en nuestra vida personal y comunitaria, no podemos dejar de anunciar y compartir lo que hemos visto y oído».

Son palabras sencillas, pero auténticas y profundas. Son un llamado a un fuerte cambio de mentalidad. Es Dios quien nos envía, no el mundo con sus problemas. No es la ansiedad de ser finalmente escuchados lo que nos impulsa, sino el amor de Cristo (cfr. 2Co 5, 14). El misionero es el primero que ha sido tocado por el amor infinito del Padre (antes que los demás, él es el primer beneficiario de la misión) y por eso se siente enviado a compartir esta experiencia.

En este tipo de visión, no hay mucho espacio para estrategias, programas y organización. Por el contrario, la misión es la respuesta a un envío que se decide en sus modos y tiempos, por Otro, y hace referencia a un plan de amor que no está escrito en la tierra, sino en el cielo. Si hay que planificar y decidir, y quizás trabajar duro, será en términos de discernimiento de los planes del Espíritu; es decir, entender juntos lo que Él (que se preocupa por las personas mucho más que nosotros) nos pide que hagamos. Pablo va a Macedonia seguro de ser enviado por Dios, quien le ha hablado en sueños: “inmediatamente intentamos pasar a Macedonia, persuadidos de que Dios nos había llamado para para anunciarles el Evangelio”. (Hechos 16:10)

Reconocer que es Él quien nos envía, nos da más serenidad. Ayuda a reducir la ansiedad del hacer, del crear cosas nuevas, del resolver, del buscar persuadir... Es Él quien nos envía y es Él quien obra y convence. Nosotros tenemos la tarea de estar allí, como transparencia de Cristo, como pueblo del Evangelio: “el Señor [no el apóstol] agregaba cada día a la comunidad a los que se habían de salvar” (Hechos 2,47).

En su mensaje, el Papa dice que las dificultades que vivieron los primeros cristianos no eran inferiores a las que vivimos hoy: “los tiempos no eran fáciles; los primeros cristianos comenzaron su vida de fe en un ambiente hostil y difícil. Historias de marginación y encarcelamientos se entrelazaban con resistencias internas y externas… pero esto, en lugar de ser una dificultad o un obstáculo…. Los impulsó a transformar cada inconveniente, contratiempo y dificultad en oportunidad para la misión”. Así pues, en estos tiempos difíciles nos encontramos en compañía de los primeros cristianos. Habían sido agraciados por la deslumbrante experiencia del amor de Dios que los transformó en misioneros, no por un proyecto humano o por una estrategia de comunicación, sino por... la imposibilidad de hacer diversamente. No eran especialistas, no eran estrategas, no eran expertos, pero lo habían encontrado a Él. Fueron testigos de algo que realmente les había sucedido, el encuentro con Cristo. Y el testigo en el tribunal no es necesariamente un experto, sino alguien cuya autoridad se basa simplemente en haber visto un hecho con sus propios ojos.

Además, sólo Cristo puede dar consistencia y eficacia a la misión, porque sólo Él es capaz de transformar nuestro trabajo a favor de los hermanos en la comunicación del amor del Padre. Nos lo recuerda el Evangelio: “Nadie conoce al Padre sino el Hijo” (Mt 11,26). Por tanto, no se trata simplemente de mejorar la metodología comunicativa, sino de ponerlo a Él en el centro.

Por último, Cristo es también aquel que el misionero encuentra en los hermanos a los que ha sido enviado. Cristo sigue siendo el centro de la misión, tanto en la experiencia que la origina, como en la experiencia del anuncio. De hecho, evangelizar es ayudar a tomar conciencia de la presencia de Cristo en la vida de quienes aún no lo conocen. Y la conversión a Cristo, es tomar conciencia de una realidad que precede al mismo anuncio, es decir, que todos somos ya de Cristo, conscientes o no: “Cristo es todo y en todos” (Col 3,11).

A este propósito, podemos comentar que cuando los visitantes a las islas Mentawai notaban la pobreza de los niños, y conmovidos por lo que veían, espontáneamente decían: “hay que hacer algo, tal vez enviar algo de dinero, o buscar ropa, o medicinas, o agua potable ...”. pero, después de haber pasado un tiempo en esas islas, al escuchar estas propuestas reaccionaba en mi corazón diciendo: “¿pero no ves lo hermoso que es ese niño? ¿No ves lo hermosa que es esa chica? Te fijas sólo en el vestido sucio, pero ¿no ves la dignidad que hay en ellos? ¿No puedes ver... a Jesús?”. Ver sólo el problema y no la persona (Jesús) me parecía ofensivo.

El Papa nos invita a volver a poner a Cristo al centro de la misión. Al hacerlo, dejaremos de lado la ansiedad de resolver lo que está mal, y seguramente conoceremos mejor a las personas y afinaremos nuestra capacidad para contemplar la presencia de Dios dondequiera que vayamos. Nuestra fe se purificará; conoceremos mejor a Dios (cfr. el encuentro de Pedro con Cornelio, Hechos 10) y amaremos la realidad y las personas tal como son. Estaremos más serenos y más conscientes de nuestra hermosa vocación. Y de esta manera, también las dificultades y lo negativo que encontremos en nuestro camino podrá ser confiado a Aquel que, también a través de nuestro trabajo, sabe realmente cómo resolver los problemas.

Pizzighettone, (CR) 7 de octubre de 2021
Matteo Rebecchi, sx


Mission d’angoisse ou d’envoi ?

En parlant avec les gens, et même avec les prêtres, je remarque un sentiment de malaise avec la société et la culture qui nous entourent. Les choses ont changé, les valeurs chrétiennes ne sont pas reconnues, les gens ne vont pas à l’église et les oratoires se sont vidés. Même en lisant les livres qui parlent de théologie, je tombe souvent sur des introductions qui décrivent la culture actuelle d’une manière très négative, presque désespérée. Le pape parle d’un changement d’époque, et dans cette phase de transition nous nous trouvons déplacés, anxieux, frustrés. L’Église peine à se faire entendre. D’autres agences, comme le réseau, semblent être les véritables sources d’information et de formation, notamment pour les jeunes générations. L’Église s’est soudainement retrouvée marginalisée, réduite à l’insignifiance. C’est comme voir un château, autrefois puissant dans sa magnificence, qui commence à s’effondrer inexorablement. Ne restera-t-il que des décombres ?

Bien sûr, des sentiments de culpabilité surgissent également : l’Église est inadéquate, elle ne fait pas sa part, elle ne s’occupe pas de la situation, elle est loin de la vie des gens, elle ne sait pas témoigner. Il faut aussi une nouvelle créativité, des méthodologies de communication mises à jour, nous devons occuper davantage le monde numérique avec nos messages, nous avons besoin de plus de visibilité médiatique, car nous nous rendons compte que l’Évangile n’a plus d’emprise sur les gens.

En tant que missionnaires, nous pouvons vivre ce défi culturel de plusieurs manières. L’un, le plus instinctif, c’est de réagir. Face à des problèmes, nous nous efforçons de les résoudre. Il est naturel de le faire. Ensuite, une analyse de la réalité est faite, les enjeux et les difficultés sont vus, et une tentative est faite pour proposer l’Évangile d’une manière nouvelle à un monde qui en a besoin. Nous programmons, nous organisons, nous planifions. L’évangélisation devient la recherche de nouveaux modes de communication pour que le message de la foi soit plus compréhensible, attrayant, agréable au goût. Mais ce faisant, il se passe quelque chose qui affecte les raisons de la mission. Il prend la forme d’une réaction à la culture désormais indifférente. La mission devient une réponse méthodologique actualisée pour communiquer les valeurs auxquelles nous croyons et qui paraissent inouïes. C’est une mission par réaction, par insatisfaction. C’est une mission par anxiété.

Il est évident que pour nous l’Évangile est aussi la solution de problèmes personnels et sociaux, mais, je me demande, s’il est possible de réduire la mission à un instrument pour améliorer l’efficacité de la communication de valeurs inouïes. Et, encore, s’il ne sert qu’à améliorer la réception du message évangélique en vue d’une réponse aux problèmes du monde, au final qui est-ce qui envoie le missionnaire en mission, Dieu ou... le monde lui-même ? N’est-ce pas ainsi que la mission chargée d’un charisme (don de l’Esprit) se transforme en instrument, méthode, programme, stratégie… bref en une idéologie seulement humaine ?

À cet égard, ce que nous dit le Pape François dans son message pour la Journée Mondiale des Missions cette année me paraît très beau. Dans la première partie, il nous rappelle le premier amour de la mission. Elle n’est pas motivée principalement par l’engagement dans la société et la prise de conscience que le monde va mal et ne nous écoute pas, mais plutôt par l’expérience profonde d’amour qu’il a investie dans le missionnaire : « quand nous expérimentons la puissance de l’amour de Dieu, lorsque nous reconnaissons sa présence comme Père dans notre vie personnelle et communautaire, nous ne pouvons qu’annoncer et partager ce que nous avons vu et entendu ».

Ce sont des mots simples, mais authentiques et profonds. Ils rappellent un fort changement de mentalité. C’est Dieu qui nous envoie, pas le monde avec ses problèmes. Ce n’est pas le souci d’être enfin écouté qui nous anime, mais l’amour du Christ (cf. 2 Co 5,14). Le missionnaire est celui qui s’est d’abord investi de l’amour infini du Père (devenir bénéficiaire de la mission avant les autres) et pour cette raison il se sent envoyé pour partager cette expérience.

Dans ce type de vision, il n’y a pas beaucoup de place pour les stratégies, les programmes et l’organisation. La mission, quant à elle, devient la réponse à un envoi décidé dans les voies et les temps, par un Autre, et renvoie à un projet d’amour qui n’est pas écrit sur terre, mais au ciel. S’il faut planifier et décider, et peut-être travailler dur, ce sera en termes de discernement des plans de l’Esprit ; c’est-à-dire comprendre, ensemble, ce qu’il nous demande de faire. Au fait, il se soucie des gens bien plus que nous. Paul se rend en Macédoine sûr d’être envoyé par Dieu qui lui parle en songe : « nous avons tout de suite essayé de partir pour la Macédoine, croyant que Dieu nous avait appelés à leur annoncer l’Évangile » (Ac 16,10).

Reconnaître que c’est Lui qui nous envoie nous donne plus de sérénité. Elle aide à réduire l’angoisse de faire, de créer de nouvelles choses, de résoudre, d’essayer de persuader... C’est Lui qui nous envoie et c’est Lui qui travaille et convainc. Nous avons la tâche d’être là, comme transparence du Christ, comme peuple de l’Évangile : « le Seigneur [pas l’apôtre] ajoutait chaque jour à la communauté ceux qui étaient sauvés » (Ac 2,47 CEI).

Dans son message, le pape dit que les difficultés vécues par les premiers chrétiens n’étaient pas moindres que ce que nous vivons aujourd’hui : « les temps n’étaient pas faciles ; les premiers chrétiens ont commencé leur vie de foi dans un environnement hostile et ardu. Des histoires de marginalisation et d’emprisonnement se sont mêlées à des résistances internes et externes… mais cela, au lieu d’être une difficulté ou un obstacle…. Ils les ont poussés à transformer chaque inconvénient, échec et difficulté en opportunités pour la mission ».

Ainsi, en ces temps difficiles, nous nous retrouvons en compagnie des premiers chrétiens. Ils avaient été investis par l’expérience fulgurante de l’amour de Dieu qui les a transformés en missionnaires, non pas pour un projet humain ou pour une stratégie de communication, mais pour... l’impossibilité de faire autrement. Ce n’étaient pas des spécialistes, ce n’étaient pas des stratèges, ce n’étaient pas des experts, mais ils l’avaient rencontré, ils étaient témoins de quelque chose qui leur était vraiment arrivé, la rencontre avec le Christ. Et le témoin au tribunal n’est pas nécessairement un expert, mais celui dont l’autorité repose sur le simple fait d’avoir vu un événement de ses propres yeux.

De plus, seul le Christ peut donner consistance et efficacité à la mission, car lui seul est capable de transformer notre travail en faveur des frères dans la communication de l’amour du Père. L’Évangile nous le rappelle : « Personne ne connaît le Père si ce n’est que le Fils » (Mt 11,26). Il ne s’agit donc pas simplement d’améliorer la méthodologie communicative, mais de Le mettre au centre.

Enfin, le Christ est aussi celui que le missionnaire rencontre dans les frères auxquels il est envoyé. Le Christ reste au centre de la mission, tant dans l’expérience originaire que dans l’expérience de l’annonce. En effet, évangéliser, c’est aider à prendre conscience de la présence du Christ dans la vie de ceux qui ne le connaissent pas encore. Et se convertir au Christ, c’est prendre conscience d’une réalité qui précède l’annonce elle-même, c’est-à-dire que nous sommes tous déjà du Christ, conscients ou non : « Le Christ est tout et en tous » (Col 3,11).

Je me souviens que, lorsque des visiteurs venaient aux îles Mentawaï, ils remarquaient la pauvreté des enfants. Touchés par cette vision, ils disaient spontanément : "il faut faire quelque chose, peut-être envoyer de l’argent, ou trouver des vêtements, ou des médicaments, ou de l’eau potable..." Après un certain temps passé dans ces îles, en entendant ces propositions j’ai réagi dans mon cœur en disant : « mais ne vois-tu pas à quel point cet enfant est beau ? Ne vois-tu pas à quel point cette fille est belle ? Vous ne remarquez que la robe sale, mais ne voyez-vous pas quelle dignité elle a ? Ne vois-tu pas... Jésus ? » Ne voir que le problème et non la personne (Jésus) me paraissait offensant.

Le pape nous invite à remettre le Christ au centre de la mission. Ce faisant, nous perdrons l’anxiété de résoudre ce qui ne va pas, mais nous rencontrerons certainement mieux les gens et affinerons notre capacité à contempler la présence de Dieu partout où nous allons. Notre foi se purifiera ; nous connaîtrons mieux Dieu (voir la rencontre de Pierre avec Corneille, Actes 10) et nous aimerons la réalité et les gens tels qu’ils sont. Nous serons plus sereins et conscients d’une belle vocation. Et c’est ainsi que même les difficultés et le négatif rencontrés sur notre chemin pourront être confiés à Celui qui, même à travers notre travail, sait vraiment résoudre les problèmes.

Pizzighettone, (CR) 7 octobre 2021
Matteo Rebecchi, sx

Matteo Rebecchi sx
18 Ottobre 2021
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