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Le guerre dell’Africa

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La “guerra”, per come abbiamo imparato a conoscerla sui banchi di scuola, non esiste quasi più. Almeno in Africa. Due eserciti che si affrontano sul campo di battaglia sono ormai cosa rara. Nella stragrande maggioranza dei casi, invece, si assiste oggi a conflitti asimmetrici, spesso a bassa intensità o a intensità variabile, con fiammate improvvise, magari attentati, oppure guerriglie che colpiscono – il più delle volte – civili inermi.

SITUAZIONE DI VIOLENZA IN AUMENTO

Nell’anno della pandemia, con mezzo mondo in lockdown, anche i conflitti sono diminuiti. Ovunque, tranne che in Africa. Lo certifica l’Acled (Armed Conflict Location & Event Data Project), un data centre che analizza le situazioni di violenza nel mondo, secondo il quale “questo aumento è stato prodotto da una varietà di fattori. In molti paesi africani, le tendenze e la geografia della violenza politica sono rimasti relativamente stabili rispetto agli anni precedenti nonostante shock come la pandemia, mentre in altri – come Etiopia, Uganda e il Sahel – la violenza è cresciuta. Le cause dietro a questi aumenti variano da un’intensificata competizione subnazionale e una repressione statale a nuove linee del fronte nei conflitti jihadisti nell’Africa nordoccidentale”.

Le morti sono aumentate in tutte le categorie di violenza, dalle battaglie vere e proprie alle esplosioni a distanza, fino alla violenza contro i civili e alla violenza della folla. La geografia di questi fenomeni, invece, non è molto mutata rispetto agli anni precedenti. In termini statistici, la crescita maggiore dei fenomeni violenti si è registrata in Mali (+68 per cento), Nigeria (+63 per cento), Camerun (+53 per cento), Congo RD (+46 per cento).

INTERPRETAZIONI OBSOLETE

Secondo Acled, due classificazioni appaiono ormai obsolete. La prima è quella che vorrebbe i governi africani deboli e incapaci di prevenire la violenza, quando invece sono spesso brutali, onnipresenti e repressivi: in oltre un terzo dei paesi africani, nel 2020 le forze statali sono state l’agente più attivo negli atti violenti. La seconda riguarda il presunto predominio dei gruppi ribelli, che invece sono molti meno rispetto ad altri tipi di milizie armate non statali, come le milizie politiche o identitarie. In realtà, meno del 6 per cento di tutti i gruppi armati non statali sono effettivamente “ribelli” contro il governo nazionale, e fra questi i primi quattro sono organizzazioni islamiste – Al Shabaab, Boko Haram, lo Stato islamico nelle sue varie declinazioni e ama’at Nusrat al Islam wal Muslimeen (JNIM) – che da sole causano però quasi i due terzi di tutta violenza ribelle. Al di fuori di questi gruppi, le organizzazioni ribelli tendono ad essere piccole e deboli.

Piuttosto, la causa centrale delle violenze sono le milizie, in particolare quelle “di identità locale”, che registrano la maggior crescita tra i gruppi violenti. Solo tra 2019 e 2020, ne sono nate altre 270. Tre i paesi in cui questo aumento si è registrato con maggior forza: Nigeria, Sud Sudan e Congo RD. Le milizie più diffuse, quelle “politiche”, ben armate e finanziate, lavorano spesso per promuovere determinati partiti o uomini di potere e per garantire la loro autorità attraverso la violenza. Tali formazioni consentono ai politici di cedere ogni responsabilità rispetto alla violenza, garantendo in cambio impunità ai miliziani.

LE CRISI AMBIENTALI

Individuati gli attori, resta la domanda sulle cause alla radice di conflitti e scontri.

Un primo motivo può essere identificato nei cambiamenti climatici, particolarmente evidenti in alcune regioni del continente, come il Sahel. Si pensi al lago Ciad, irrimediabilmente compromesso dal surriscaldamento globale: il bacino d’acqua in cinquant’anni si è ridotto del 90 per cento. Una tragedia per i 40 milioni di persone che vivono grazie all’indotto del lago. Una spirale che provoca povertà, disoccupazione e quasi inevitabilmente spinge i giovani fra le braccia di Boko Haram e di altri gruppi armati che garantiscono un “lavoro”.

La crisi climatica, poi, ha un impatto più pesante in paesi già fragili: è il caso del Corno d’Africa e in particolare della Somalia, preda di una recente ennesima drammatica crisi politica (il presidente Mohamed Farmajo si era auto-esteso il mandato di due anni,  senza elezioni, rinunciandovi solo dopo forti pressioni internazionali)

in cui il cambiamento climatico incalza e lo scorso anno ha infierito anche con enormi sciami di cavallette, che hanno flagellato tutto il Corno d’Africa.

IL CONTROLLO DELLE RISORSE IDRICHE E MINERARIE

Il controllo delle risorse idriche è alla base di un’altra crisi che rischia di esplodere: quella fra Etiopia da un lato e Sudan e Egitto dall’altro. Addis Abeba ha ormai ultimato la costruzione della grande diga della Reinassance, progetto faraonico che una volta a regime tratterrà in Etiopia una gran parte delle acque del Nilo Blu, lasciando i paesi a valle all’asciutto.

L’acqua è una risorsa preziosissima in Africa e sarà sempre più strategica. Il bacino del fiume Congo è il secondo polmone verde della terra, ma qui non sono accesi i riflettori come sull’Amazzonia. Eppure, anche qui enormi lotti di foresta vengono assegnati in concessione a multinazionali in cerca di legnami pregiati e senza scrupoli ambientali.

Oltre alle risorse del suolo, ci sono ovviamente quelle enormi del sottosuolo. Sono tanti i paesi in cui le miniere hanno scatenato e scatenano appetiti mondiali. Dal Sahel con l’oro e l’uranio, fino ai diamanti sudafricani. Ma l’emblema della dannazione delle risorse è il Congo RD, dove la concentrazione senza pari di metalli preziosi e minerali strategici (coltan e cobalto su tutti) è l’origine ultima di guerriglie e gruppi armati che si contendono il controllo del territorio. In più, si ingenera a volte un mix esplosivo con lotte di potere, anche locali, odio di matrice etnico-tribale e fondamentalismo religioso. È notizia recente che gli Stati Uniti abbiano incluso nell’elenco delle formazioni terroristiche di stampo jihadista le Allied Democratic Forces (Adf) congolesi, che compiono stragi efferate attorno alla città di Beni, nel Nord Kivu, e gli shabaab che infestano dal 2017 Cabo Delgado, nel nord del Mozambico.

I CONFLITTI POLITICI

Eppure, ridurre l’interpretazione dei conflitti a un risiko in base ai giacimenti è riduttivo e anche deformante. Non basterebbe a spiegare il nuovo, inedito conflitto nel Tigray, gli scontri nel Camerun anglofono, il dilagare di Boko Haram in Nigeria e dei gruppi jihadisti nel Sahel, l’indipendenza rivendicata e sempre negata dei Sahrawi, il conflitto mai sedato in Sud Sudan o il tarlo, latente come fuoco sotto la cenere, che corrode ancora Ruanda e Burundi. Se risulta inaccettabile la lettura semplicistica di un certo Occidente che liquida ogni crisi africana come conflitto etnico o religioso, va ugualmente rigettata la semplificazione che riduce tutto a milizie al soldo delle multinazionali.

La verità è sempre più complessa di come appare e va letta su più strati: un conflitto apparentemente religioso può avere radici altrove, come accade nel Sahel, dove il cambiamento climatico spinge più a Sud i pastori (in genere musulmani) in cerca di pascoli, fino a contendere le terre coltivate agli agricoltori, in maggioranza cristiani. Ma anche questa è una lettura semplicistica.

Spesso sono popolazioni stanche di tiranni e presidenti dinosauri, che si ribellano e scendono in piazza, con alterne fortune: se pochi anni fa manifestazioni oceaniche in Burkina Faso riuscirono a mettere in fuga Blaise Compaoré, che ora sarà addirittura processato in contumacia per l’omicidio di Thomas Sankara, in Uganda lo scorso autunno la folla al seguito di Bobi Wine nulla ha potuto contro le elezioni farsa che hanno riconfermato Yoweri Museveni, al potere da 35 anni.

INGERENZE STRANIERE E MINORANZE OPPRESSE

La “variante” dell’odio antioccidentale è molto forte in alcuni paesi, in particolare nell’Africa occidentale, dove assume le sembianze di risentimento antifrancese, oppure nel Congo RD, dove – in particolare all’Est – cresce periodicamente il rigetto nei confronti della United Nations Organization Stabilization Mission in the DR Congo (Monusco), la pavida Missione Onu che si è troppo spesso rivelata impotente davanti alle atroci violenze subite dalla popolazione. Le ingerenze straniere non sono però solo francesi: la presenza cinese è sottile ma pervasiva; gli Stati Uniti di Joe Biden sono tornati con forza a svolgere un ruolo di primo piano, dopo il disinteresse di Donald Trump; i mercenari russi proteggono il presidente centrafricano Faustin-Archange Touadéra dagli assalti ribelli. Si deve poi considerare anche la volontà di affermare l’identità di minoranze oppresse o non riconosciute nei loro diritti di autodeterminazione, come nel Sahara Occidentale, o nel Camerun anglofono, dove l’autoproclamazione della Repubblica di Ambazonia ha riacceso un conflitto che covava da anni sotto la cenere. L’opposto di quanto accade in questi mesi nel Tigray, dove la minoranza che ha guidato l’Etiopia per anni con pugno di ferro, messa ora all’angolo, ha opposto resistenza e ha ottenuto in cambio una guerra devastante in cui le ipotetiche ragioni paiono mescolarsi a rancori di vecchia data e, forse, a vendette.

IDENTITÀ E TRIBALISMO

Torti e ragioni che si intrecciano in un connubio quasi inestricabile, come nel Sud Sudan di dinka e nuer, o nella regione dei Grandi Laghi, dove i “gemelli diversi” Ruanda e Burundi faticano a uscire dalla logica di un’appartenenza divisiva: un’appartenenza di sangue difficilmente comprensibile nella sua radicata profondità. Nulla a che vedere con i nostri regionalismi. In un continente dove i confini sono tutto sommato recenti e sono stati decisi a tavolino, l’identificazione della propria identità sociale con quella statale in alcuni contesti fatica a prendere piede e resta molto indietro rispetto all’identità clanica, radicata nella storia e nella coscienza della comunità. In molti casi, tale appartenenza è vissuta in modo positivo, come eredità storico-culturale arricchente, ma in alcuni contesti il senso di appartenenza clanico-tribale può degenerare fino a soverchiare qualunque legge religiosa e morale. Accade soprattutto dove due etnie sono state poste una contro l’altra, magari fomentando ad arte le rivalità, come fecero nell’Urundi prima i tedeschi e poi i belgi. Se dunque la superficiale classificazione di “guerre etniche” continua a fare orrore, nella sua banalità e comodità pilatesca, cionondimeno, se c’è un cancro vero che corrode il tessuto sociale africano, non è la malapolitica né la corruzione, ma proprio il tribalismo: questo senso distorto di appartenenza che spinge a votare non per un’idea, ma per un’etnia, che assegna posti non in base al merito, ma per familismo, che – nelle situazioni peggiori – può portare a scontri feroci, in cui l’altro è un nemico da schiacciare.

In fondo, dinamiche non dissimili hanno scatenato l’inferno nell’ex Jugoslavia, non molti anni fa. E al di là di tutte le letture socioeconomiche o geopolitiche che si possono fare, resta in fondo il grande mistero dell’abisso in cui il cuore dell’uomo è capace di cadere: che il movente sia sete di potere, avidità rapace oppure odio feroce per un’alterità non accettata, è nel cuore dei singoli, degli individui, e poi nelle loro comunità di appartenenza che si decide se piegarsi alla violenza o rischiare l’azzardo di una faticosa via per la pace.

Giusy Baioni
09 Luglio 2021
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