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In “difesa” del concetto (e della pratica) di missio ad gentes

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«Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno e nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni». (Lc. 24:46-48)

Scrivo in reazione ad alcune conferenze tenute durante il National Mission Congress delle Filippine (17-24 Aprile 2022).[1] In particolare, mi riferisco alla proposta di rivedere il concetto di missione da parte di alcuni missiologi che vedono la necessità di abbandonare il concetto ”antico” di missio ad gentes per adottare il nuovo “paradigma” della missio inter gentes.[2] Secondo questi missiologi, tale movimento, o “shift”, aiuterebbe a dismettere una missione di stile coloniale, caratterizzata dall’arroganza e dal senso di superiorità dell’annunciatore, dal disprezzo delle culture e religioni, dal disconoscimento dell’opera dello Spirito al di fuori dei confini della chiesa, dall’extra ecclesiam nulla salus, dalla visione gerarchica e non comunionale della chiesa… Il cambio di terminologia, dall’ad gentes all’inter gentes, aiuterebbe ad abbandonare una pratica missionaria obsoleta, per adottare uno stile più dialogico e rispettoso. Non è una trasformazione da poco quella che ci si aspetta dalla modifica di una preposizione!

Queste mie considerazioni riguardano anche gli istituti missionari come il mio (Saveriani) che, nella riflessione e nella praxis missionaria, si trovano a fare i conti con una serie di cambiamenti oggettivi che rischiano di travolgere i fondamenti dell’ispirazione carismatica ed evangelica dei loro vissuti apostolici.

Partiamo dal significato delle parole per vedere se questo cambio di paradigma è necessario e giustificato.

Pur non essendo latinista, mi pare che “missio” significhi semplicemente “invio”, l’atto di mandare. Il termine, combinato con la preposizione “ad” indica l’inviare a qualcuno. Esso non spiega pertanto quale possa essere l’attività connessa a questo essere mandati. Non significa per esempio “insegnare”, “catechizzare”, o addirittura “fare proselitismo” … Non si può quindi associare l’arroganza dei missionari nei confronti delle culture e delle religioni al concetto di “missio ad”, come se il termine giustifichi di per sé un atteggiamento arrogante che non includa l’imparare dalla controparte o non rispetti le culture e le tradizioni locali. L’invio non contiene nessuna indicazione riguardo alla qualità dell’incontro, il quale va arricchito dell’esperienza del vangelo e dallo stile di Gesù nell’incontrare l’altro da sé (la sua incarnazione), un incontro sempre sostanziato dall’amore che sa accogliere e rispettare per il fratello e la sorella incontrata, un amore kenotico, pronto a dare la vita.

Passiamo al termine “gentes” che viene spesso tradotto con “nazioni.” Questa traduzione, di per sé corretta, rappresenta il presupposto dei suddetti “paradigm shifts” della missio inter gentes (missione realizzata tra popoli diversi), o della missio cum gentibus (missione vissuta in comunione con altri popoli) o dell’aggiustamento dello “shiftare” il paradigma a seconda della situazione, ultimo (?) ritrovato dell’equilibrismo missiologico. Come dicevo, questi nuovi concetti in sostituzione della missione ad gentes, aiuterebbero ad assumere un atteggiamento più rispettoso e dialogico nei confronti di culture e religioni. Si eviterebbe così di esprimere la superiorità del cristianesimo sugli altri, per proporre dialogo di mutuo arricchimento.

A mio parere, però, questi “paradigm shifts”, basati sulla traduzione di gentes con il termine “nazioni” (o popoli), se da un lato evidenziano il dovere dell’amore e del rispetto per l’altro, hanno il grande limite di ridurre la missione ad gentes ad una semplice attività interculturale: la missione viene vista come una interazione tra gruppi umani diversi, ma non necessariamente tra cristiani e non-cristiani. La missione si limita ad un interscambio dei valori presenti nei vari popoli e culture. Quindi, per assurdo, la nostra comunità internazionale della teologia di Manila rappresenterebbe un’esperienza di missione inter gentes, in quanto interculturale. Una missione fatta senza la necessità di uscire dalla porta di casa…

Un’altra possibile riduzione del concetto di missio ad gentes è quello di considerare la missione un semplice movimento geografico (ad extra), dove il missionario entra in un nuovo contesto nazionale e culturale riducendo spesso il nostro essere missionari – come p. Francesco Marini giustamente ‘denunciava’ – a “fare i parroci all’estero”. Questo modus cogitandi fa sì che il pur apprezzabile lavoro con migranti filippini in un altro paese asiatico sia considerato un’esperienza di missio ad gentes, come si è sentito in una delle esperienze del sopracitato Congresso Missionario.

Ma gentes non significa soltanto popoli o nazioni. Gentes sono quei gruppi umani che un tempo si traducevano con “gentili”, “infedeli”, “pagani”, “non cristiani”, o anche semplicemente “altri da sé” (coloro che non sono parte visibile della chiesa, come i gentili erano i non circoncisi per gli Ebrei). Si tratta di una categoria non solo sociologica, ma soprattutto teologica. Arricchendo il termine gentes di questo carattere relativo alla fede, cambia tutta la prospettiva della missione. Missio ad gentes assume infatti i contorni dell’essere inviati ad una particolare tipo di persone: si è inviati agli altri-dai-cristiani, ai non-cristiani. Mantenendo questo assunto, siamo aiutati a concentrarci su una particolare categoria di destinatari del nostro servire e ad una particolare “povertà”, quella della fede in Cristo. Paradossalmente, il concetto apparentemente esclusivo “non-cristiano” sostanzia il carattere fortemente inclusivo della missione universale della chiesa, perché ci indirizza verso una categoria di uomini e donne che spesso dimentichiamo a favore di altri gruppi umani (poveri, stranieri, malati,…).[3] Inoltre, il concetto di ad gentes veicola molto bene il desiderio di papa Francesco di una chiesa in uscita, una chiesa che rivolge la sua cura a chi vive fuori dai propri “confini”, geografici, esistenziali e religiosi.

Al contrario, i nuovi “paradigmi” rendono la missione molto generica e vaga, soprattutto per quanto riguarda la tipologia di persone a cui ci si rivolge. Se non si fa una scelta chiara su questo punto, si è infatti “tragicamente” tentati di tornare a prendersi cura dei soli cattolici… come la realtà dimostra in tante nostre esperienze: una missione che non va oltre la cura pastorale (a questo riguardo è bene rileggersi cosa Conforti dice nella RF 8). Infine, se si assume che “gentes” significhi principalmente “non-cristiani,” diventano incomprensibili le espressioni “inter gentes” (missioni tra non-cristiani e non-cristiani?) o “cum gentibus” (evangelizzazione realizzata con la collaborazione di partners non-cristiani?), svelando tutta la fragilità concettuale dei nuovi “paradigmi”.

Va anche notato[4] che l’espressione ad gentes non è un’invenzione di una missiologia o il frutto di un contesto storico della missione. Ad gentes è una espressione che troviamo nel Nuovo Testamento. In particolare, essa descrive la vocazione di San Paolo che si sente inviato dallo Spirito ai gentili, lasciando che altri facciano il resto nel campo della evangelizzazione e della cura della comunità cristiana primitiva. Il primo passo dove troviamo questa espressione è quello di Rm 15:16, nel quale Paolo si sente investito della vocazione di essere ministro (leitourgos) di Gesù Cristo nei riguardi dei pagani (minister Christi Iesu ad gentes). Altri due passi sono At 13:46 e At 18,6, nei quali Paolo afferma che si rivolgerà ai pagani visto il rifiuto da parte dei Giudei di Antiochia di Pisidia e di Corinto di accogliere la predicazione. In tutti questi casi, gentes non è inteso in senso sociologico di “nazioni”, ma nel senso stretto di “gentili” o “altri dai circoncisi”.[5]

Per concludere, io insisterei sul fatto di non cedere alle lusinghe di chi propone di dismettere la terminologia “missio ad gentes” in vista di nuovi e “miracolosi” paradigmi. Non mi pare che si possa affermare che essa implichi la giustificazione di un atteggiamento arrogante e irrispettoso dell’altro, delle altre culture e delle religioni. Al contrario, il termine missio ad gentes aiuta a non distrarci dai destinatari del nostro dare la vita. Altri servono i poveri, i disabili, i migranti, gli anziani, i giovani… noi serviamo coloro che non conoscono Cristo e siamo mandati ad essi col sogno di condividere un dono che anche noi, come loro, abbiamo ricevuto dallo Spirito (cf. Rm 15:15, la benevolenza riservata da Dio a Paolo, che lo rende missionario ai pagani). Si tratta di un dono (la vita in Cristo) che trascende e converte entrambi, destinatario della missione e missionario. Non vi è posto per l’arroganza e senso di superiorità, ma solo per la conversione permanente, anzitutto del missionario! È la conversione accaduta a Cornelio… e a Pietro (cf. At 10,1-11,18).[6]

Come nota finale, direi che, da beneficiario della riflessione missiologica, desidererei ricevere stimoli ad uscire dalla mia comfort zone piuttosto che giustificazioni alla mia riluttanza nell’incontrare l’altro da me. La missione è una difficile sfida di per sé. Perché aggiungervi l’ostacolo di una speculazione intellettuale che ne mortifica lo spirito?

Manila, marzo 2023
Matteo Rebecchi, sx

 

[1] È possibile ascoltare le conferenze del Congresso nel canale Youtube. L’articolo di J. Y. Tan, Missio Inter Gentes. Towards a New Paradigm in the Mission Theology of the Federation of Asian Bishops’ Conferences (FABC), è disponibile nel Website della DG.

[2] Per una analisi critica dal punto di vista teologico del paradigma Inter Gentes, vedi R. Viviano, “In Vindication of Missio ad Gentes. The Permanent Value of a Fundamental Concept” in Quaderni del CSA 17/2: 69–80 2022. Centro Studi Asiatico.

[3] Questi altri gruppi umani non vengono dimenticati se manteniamo vivo il nostro spirito ad gentes. Il ripensarci missionari ad gentes fa crescere il senso dell’universalità e dell’inclusività di una chiesa che si prende cura di tutti e di tutto il mondo, anche tenendo conto che i missionari ad gentes non sono tutto nella chiesa, ma sono invece parte di una Famiglia che è arricchita da altri carismi (come Paolo contava sull’opera di Pietro, di Giacomo…). Non si tratta di creare un’ulteriore categorizzazione, di porre nuovi confini. Invece, altri paradigmi, a mio parere, rischiano di diventare esclusivi nei confronti di coloro che sono difficili da raggiungere. Quindi, dopo aver rimesso nel cuore questo amore della chiesa per tutti, ma davvero tutti, ogni categorizzazione della missione, anche quella teologica del ad gentes, in qualche modo può anche svanire: il missionario si sente mandato ad ogni singola persona bisognosa della comunione con Cristo che Dio gli mette davanti, prestandosi affinché anche in quel fratello e sorella cresca la coscienza di essere figlio o figlia di Dio. Un po’ come è successo a Gesù, missionario ad gentes anche in croce, che offre la salvezza a chi il Padre gli aveva posto a fianco: il Buon Ladrone.

[4] Su questo punto ringrazio p. Rocco Viviano per avermi ricordato come l’espressione ad gentes trova la sua origine nel Nuovo Testamento.

[5] Nel cap. 15 di Romani, poco dopo il versetto 15:16 sopracitato, Paolo affermerà il suo vanto di annunciare il nome di Cristo dove esso non è ancora arrivato (Rm 15:20), definendo in maniera ancora più chiara cosa lui intenda per “gentes”, una categoria teologica, non soltanto geografica o etnica.

[6] Le espressioni inter gentes (Rom 2,24; 1 Cor, 5:1; Gal 2,8; 1 Pt 2; 12) e cum gentibus (At 4,27, Gal 2, 42), sono anch’esse presenti nel NT, ma anche in questi casi le genti rappresentano una categoria religiosa più che etnico-geografica. Le genti sono inoltre spesso associate ad abitudini e comportamenti che chiedono conversione. Infine, i termini non si riferiscono all’attività evangelizzatrice in senso stretto. L’unica eccezione è Gal 2,8 dove inter gentes viene usato da Paolo per descrivere la sua opera missionaria che si svolge “tra” i gentili a differenza di Pietro che opera tra i circoncisi. Anche in questo caso, mi pare, non si possa dire che si perda il senso del movimento di “essere mandato a” della missione di Paolo.


In "defense" of the concept (and practice) of missio ad gentes

«This is what is written: The Messiah will suffer and rise from the dead on the third day, and repentance for the forgiveness of sins will be preached in his name to all nations, beginning at Jerusalem. You are witnesses of these things». (Lk. 24:46-48)

I am writing in response to some of the lectures given at the National Mission Congress of the Philippines (17-24 April 2022)[1]. In particular, I am referring to the proposed revision of the concept of mission by some missiologists who see the need to abandon the "old" concept of missio ad gentes and adopt the new "paradigm" of missio inter gentes[2]. According to these missiologists, this movement, or "shift", would contribute to the abandonment of a colonial type of mission, characterized by the arrogance and sense of superiority of the one who of the work of the Spirit beyond the limits of the Church, of the extra ecclesiam nulla salus, of the hierarchical and non-communitarian vision of the Church... The change of terminology, from ad gentes to inter gentes, would help to abandon an obsolete missionary practice, to adopt a more dialogical and respectful style. It is not a small transformation that is expected from the change of a preposition!

My considerations also concern missionary Institutes like mine (the Xaverians) which, in their missionary reflection and practice, are confronted with a series of objective changes which risk upsetting the foundations of the charismatic and evangelical inspiration of their apostolic experiences.

Let us start from the meaning of the words to see if this paradigm shift is necessary and justified. Although I am not a Latinist, it seems to me that "missio" simply means "to send", the act of sending. The term, combined with the preposition "ad" indicates sending to someone. It does not therefore explain what the activity of sending might be. It does not mean, for example, "teaching", "catechizing", or even "proselytizing"... Thus, the arrogance of missionaries towards cultures and religions cannot be associated with the concept of "missio ad", as if the term justifies, in itself, an arrogant attitude which does not include learning from the other party or disrespecting local cultures and traditions. The sending does not contain any indication as to the quality of the encounter, which must be enriched by the experience of the Gospel and by the style of Jesus in meeting the other with himself (his incarnation), an encounter always enriched by the love that knows how to welcome and respect the brother and sister encountered, a kenotic love, ready to give its life.

Let us turn to the term 'gentes' which is often translated as 'nations'. This translation, is correct in itself, represents the presupposition of the aforementioned "paradigm shifts" of missio inter gentes (mission among different peoples), or missio cum gentibus (mission lived in communion with other peoples), or the adjustment of the paradigm "shift" according to situations, as the last (?) discovery of the missiological balancer. As I said, these new concepts replacing mission ad gentes would help to assume a more respectful and dialogical attitude towards cultures and religions. This would avoid expressing the superiority of Christianity over others, and instead propose a dialogue of mutual enrichment.

In my opinion, however, these "paradigm shifts", based on the translation of gentes by the term "nations" (or peoples), while on the one hand they emphasize the duty of love and respect for the other, have the great limitation of reducing mission ad gentes to a mere intercultural activity: mission is seen as an interaction between different human groups, but not necessarily between Christians and non-Christians. Mission is limited to an exchange of values present in different peoples and cultures. So, paradoxically, our international theological community in Manila would represent an experience of mission inter gentes, as in intercultural. A mission accomplished without having to leave the front door of our house...

Another possible reduction of the concept of missio ad gentes is to consider mission as a mere geographical movement (ad extra), where the missionary enters a new national and cultural context often reducing our being missionaries - as Fr Francesco Marini rightly "denounced" while he was still living - to "being parish priests abroad". This modus cogitandi means that the work with Filipino migrants in another Asian country, although appreciable, is considered an experience of missio ad gentes, as was heard in one of the experiences of the above-mentioned Missionary Congress.

But gentes does not only mean peoples or nations. The gentes are those human groups that used to be translated as 'gentiles', 'infidels', 'pagans', 'non-Christians' or even simply 'other than oneself' (those who are not a visible part of the Church, as the gentiles were the uncircumcised for the Jews). It is not only a sociological category, but above all a theological one. By enriching the term gentes with this faith-related character, the whole perspective of mission changes. In fact, the Missio ad gentes takes on the contours of being sent to a particular type of person: one is sent to others-than-Christians, to non-Christians. By maintaining this postulate, we are helped to focus on a particular category of recipients of our service and on a particular 'poverty', that of faith in Christ. Paradoxically, the apparently exclusive notion of "non-Christians" justifies the very inclusive character of the Church's universal mission, because it directs us towards a category of men and women whom we often forget in favour of other human groups (poor, foreigners, sick...)[3].

Moreover, the concept of ad gentes translates very well Pope Francis' desire for a Church that goes out, a Church that cares for those who live outside their own geographical, existential and religious "borders".

On the contrary, the new "paradigms" make the mission very generic and unclear, especially as regards the type of people it addresses. If one does not make a clear choice on this point, one is indeed "tragically" tempted to go back to caring only for Catholics... as the reality in so many of our experiences shows: a mission that does not go beyond pastoral care (in this regard it is good to re-read what Conforti says in RF 8). Finally, if we assume that "gentes" means mainly "non-Christians", the expressions "inter gentes" (missions between non-Christians and non-Christians?) or "cum gentibus" (evangelization carried out with the collaboration of non-Christians), reveal the conceptual fragility of the new "paradigms".

It should also be noted[4] that the expression ad gentes is not an invention of missiology or the fruit of a historical context of mission. Ad gentes is an expression found in the New Testament. In particular, it describes the vocation of St. Paul, who feels sent by the Spirit to the Gentiles, leaving the rest to others in the field of evangelization and care of the early Christian community. The first passage where this expression is found is Rom 15:16, where Paul feels called to be a minister (leitourgos) of Jesus Christ to the Gentiles (minister Christi Iesu ad gentes). Two other passages are Acts 13:46 and Acts 18:6, in which Paul states that he will address the Gentiles given the refusal of the Jews in Antioch of Pisidia and Corinth to accept the preaching. In all these cases, gentes is not understood in the sociological sense of 'nations', but in the strict sense of 'Gentiles' or 'other than the circumcised'[5].

In conclusion, I would insist on not giving in to the flattery of those who propose to abandon the terminology "missio ad gentes" in the face of new and "miraculous" paradigms. It does not seem to me that it can be said to imply the justification of an arrogant and disrespectful attitude towards the other, towards other cultures and religions. On the contrary, the term missio ad gentes helps us not to distract ourselves from the recipients of our gift of life. Others serve the poor, the handicapped, migrants, the elderly, the young... we serve those who do not know Christ and we are sent to them with the dream of sharing a gift that we too, like them, have received from the Holy Spirit (cf. Rom 15:15, the benevolence reserved by God for Paul, which makes him a missionary to the Gentiles). It is a gift (life in Christ) that transcends and converts at the same time, recipient of the mission and missionary. There is no room for arrogance and superiority, but only for permanent conversion, especially of the missionary! This is the conversion that happened to Cornelius... and to Peter (cf. Acts 10:1-11, 18).[6]

To conclude, I would like to say that as a beneficiary of missiological reflection, I would like to receive suggestions for stepping out of my comfort zone rather than justifications for my reluctance to meet the other, who is different from myself. Mission is a difficult challenge in itself. Why add the obstacle of an ‘inordinate’ intellectual speculation that would demean its spirit?

Matteo Rebecchi, sx
Manila, March 2023 

 

[1]You can listen to the Congress lectures on the Youtube J. Y. Tan's paper, Missio Inter Gentes, towards a new paradigm in the mission theology of the Federation of Asian Bishops' Conferences (FABC), is available on the DG website.

[2] For a critical analysis from a theological point of view of the Inter Gentes paradigm, see R. Viviano, "In Vindication of Missio ad Gentes. The Permanent Value of a Fundamental Concept" in Quaderni del CSA 17/2: 69-80 2022 Centro Studi Asiatico.

[3]These other human groups are not forgotten if we keep our ad gentes spirit alive. Rethinking missionaries ad gentes increases the sense of universality and inclusiveness of a Church that cares for all and for the whole world, even taking into account that missionaries ad gentes are not everything in the Church, but rather are part of a family that is enriched by other charisms (as Paul counted on the work of Peter, James...). It is not a question of creating another categorization, of setting new boundaries. Instead, other paradigms, in my opinion, risk becoming exclusive to those who are difficult to reach. Thus, having put this love of the Church for all, truly all, back at the heart, any categorisation of mission, even the theological one of ad gentes, can somehow also fade away: the missionary feels sent to each person in need of communion with Christ that God places before him, lending himself to the fact that even in this brother or sister the awareness of being a son or daughter of God can grow, a bit like what happened to Jesus, missionary ad gentes even on the cross, who offers salvation to whom the Father he had placed beside him: the Good Thief.

[4] On that point I am grateful to Rocco Viviano for reminding me how the expression ad gentes originated in the New Testament.

[5] In chap. 15 of the Letter to the Romans, shortly after the aforementioned verse 15,16, Paul will affirm his boast of proclaiming the name of Christ where it has not yet arrived (Rom 15,20), defining even more clearly what he means by "gentes", a theological category, not only geographical or ethnic.

[6] The expressions inter gentes (Rom 2:24; 1 Cor, 5:1; Gal 2:8; 1 Pet 2:12) and cum gentibus (Acts 4:27, Gal 2:42), are also found in the NT, but even in these cases the Gentiles represent a religious rather than an ethnic-geographical category. Gentiles are also often associated with habits and behaviors that call for conversion. Finally, the terms do not refer to evangelizing activity in the strict sense. The only exception is Gal 2:8 where inter gentes is used by Paul to describe his missionary work taking place "among" the Gentiles unlike Peter's work among the circumcised. Again, it seems to me, we cannot say that we lose the sense of the "being sent to" movement of Paul's mission.


En “defensa” del concepto (y la práctica) de missio ad gentes

«Así está escrito, y así fue necesario que el Cristo padeciese, y resucitase de los muertos al tercer día; y que se predicase en su nombre el arrepentimiento y el perdón de pecados en todas las naciones, comenzando desde Jerusalén. Y vosotros sois testigos de estas cosas». (Lc. 24:46-48)

Escribo como reacción a algunas conferencias pronunciadas durante el Congreso Misionero Nacional de Filipinas (17-24 de abril de 2022)[1]. En particular, me refiero a la propuesta de revisar el concepto de misión por parte de algunos misionólogos que ven la necesidad de abandonar el “antiguo” concepto de missio ad gentes y adoptar el nuevo “paradigma” de missio inter gentes[2]. Según estos misionólogos, tal movimiento, o “cambio”, ayudaría a despojarse de una misión de estilo colonial, caracterizada por la arrogancia y el sentido de superioridad del anunciador, el desprecio de culturas y religiones, el desconocimiento de la obra del Espíritu fuera de los confines de la Iglesia, del extra ecclesiam nulla salus, de una visión jerárquica y no comunitaria de la Iglesia El cambio de terminología, del ad gentes al inter gentes, ayudaría a abandonar una práctica misionera obsoleta, para adoptar un estilo más dialogante y respetuoso. ¡No es poca la transformación que cabe esperar del cambio de una preposición!

Estas consideraciones se aplican también a los institutos misioneros como el mío (Javerianos) que, en su reflexión y praxis misioneras, se ven obligados a afrontar una serie de cambios objetivos que corren el riesgo de ofuscar los fundamentos de la inspiración carismática y evangélica de su vida apostólica.

Partamos del significado de las palabras para ver si este cambio de paradigma es necesario y está justificado.

Aunque no soy latinista, me parece que “misio” significa simplemente “envío”, el acto de enviar. El término, combinado con la preposición “ad”, indica el envío a alguien. Por tanto, el término no explica cuál puede ser la actividad relacionada con este envío. No significa, por ejemplo, “enseñar”, "catequizar", ni siquiera "hacer proselitismo"... Por tanto, no se puede asociar la arrogancia de los misioneros hacia las culturas y las religiones con el concepto de “missio ad”, como si el término justificara por sí mismo una actitud arrogante que no incluye el aprender de la otra parte o no respeta las culturas y tradiciones locales. El envío no contiene ninguna indicación sobre la calidad del encuentro, que ha de enriquecerse con la experiencia del Evangelio y el estilo de Jesús de encontrar al otro desde sí mismo (su encarnación), un encuentro siempre sustanciado por un amor que sabe acoger y respetar al hermano y a la hermana en el encuentro, un amor kenótico, dispuesto a dar la vida.

Pasemos al término “gentes”, que a menudo se traduce como “naciones”. Esta traducción, en sí misma correcta, representa el presupuesto de los ya mencionados “cambios de paradigma” de la missio inter gentes (misión realizada en medio de pueblos diferentes), o de la missio cum gentibus (misión vivida en comunión con otros pueblos) o del ajuste de “cambiar” el paradigma según la situación, última (?) invención del equilibrismo misionológico. Como decía, estos nuevos conceptos en sustitución de la misión ad gentes, ayudarían a asumir una actitud más respetuosa y dialogante hacia las culturas y las religiones. Se evitaría así expresar la superioridad del cristianismo sobre los demás, para proponer un diálogo de enriquecimiento mutuo.

En mi opinión, sin embargo, estos “cambios de paradigma”, basados en la traducción de gentes con el término “naciones” (o pueblos), aunque si por un lado ponen de relieve el deber del amor y del respeto al otro, tienen la gran limitación de reducir la misión ad gentes a una simple actividad intercultural: la misión es vista como una interacción entre grupos humanos diferentes, pero no necesariamente entre cristianos y no cristianos. La misión se limita a un intercambio de valores presentes en los diferentes pueblos y culturas. De ahí que, absurdamente, nuestra comunidad internacional de teología en Manila representaría una experiencia de misión inter gentes, ya que es intercultural. Una misión realizada sin necesidad de salir de casa...

Otra posible reducción del concepto de missio ad gentes es considerar la misión como un mero desplazamiento geográfico (ad extra), en el que el misionero entra en un nuevo contexto nacional y cultural, reduciendo a menudo nuestro ser misioneros – como acertadamente “denunciaba” el P. Francesco Marini – a “ser párrocos en el extranjero”. Este modus cogitandi hace que, aunque sea algo apreciable, el trabajo con migrantes filipinos en otro país asiático sea considerado como una experiencia de missio ad gentes, como escuchamos en una de las experiencias del mencionado Congreso Misionero.

Pero gentes no significa sólo pueblos o naciones. Gentes son esos grupos humanos que solían traducirse como “gentiles”, “infieles”, “paganos”, “no cristianos”, o incluso “otros que son simplemente sí mismos” (los que no forman parte visible de la Iglesia, como los gentiles que eran los incircuncisos para los judíos). Se trata de una categoría no sólo sociológica, sino sobre todo teológica. Al enriquecer el término gentes con este carácter relacionado con la fe, cambia toda la perspectiva de la misión. La Missio ad gentes adquiere de hecho los contornos de ser enviados a un particular tipo de personas: se es enviado a los otros-de parte-de los cristianos, a los no cristianos. Manteniendo esto asumido, somos ayudados a concentrarnos en una categoría particular de destinatarios de nuestro servicio y en una particular “pobreza”, la de la fe en Cristo. Paradójicamente, el concepto aparentemente restringido de “no cristianos” corrobora el carácter altamente inclusivo de la misión universal de la Iglesia, porque nos orienta hacia una categoría de hombres y mujeres que a menudo olvidamos en favor de otros grupos humanos (los pobres, los extranjeros, los enfermos...)[3]. Además, el concepto de ad gentes transmite muy bien el deseo del Papa Francisco de una Iglesia en salida, una Iglesia que dirija su atención a quienes viven fuera de sus ‘fronteras’, geográficas, existenciales y religiosas.

Por el contrario, los nuevos “paradigmas” hacen que la misión sea muy genérica y vaga, sobre todo en cuanto al tipo de personas a las que uno se dirige. Si no se hace una opción clara sobre este punto, se está de hecho “trágicamente” tentado de volver a ocuparse sólo de los católicos... como la realidad muestra en tantas de nuestras experiencias: una misión que no va más allá de la pastoral (a este respecto es bueno releer lo que dice Conforti en RF 8). Por último, si se asume que “gentes” significa principalmente “no cristianos”, las expresiones “inter gentes” (¿misiones entre no cristianos y no cristianos?) o “cum gentibus” (¿evangelización realizada con la colaboración de socios no cristianos?) resultan incomprensibles, revelando toda la fragilidad conceptual de los nuevos “paradigmas”.

También hay que señalar[4] que la expresión ad gentes no es una invención de la misionología, ni fruto de un contexto histórico de misión. Ad gentes es una expresión que encontramos en el Nuevo Testamento. En concreto, describe la vocación de San Pablo, que se siente enviado por el Espíritu a los gentiles, dejando que otros hagan el resto en el campo de la evangelización y el cuidado de la primitiva comunidad cristiana. El primer pasaje donde encontramos esta expresión es Rom 15,16, en el que Pablo se siente investido de la vocación de ser ministro (leitourgos) de Jesucristo con respecto a los paganos (minister Christi Iesu ad gentes). Otros dos pasajes son Hch 13,46 y Hch 18,6, en los que Pablo afirma que se dirigirá a los paganos ante la negativa de los Judíos de Antioquía de Pisidia y Corinto a aceptar la predicación. En todos estos casos, gentes no es entendido en el sentido sociológico de “naciones”, sino en el sentido estricto de “gentiles” o “distintos de los circuncidados”[5].

Para concluir, insistiría en no ceder a los halagos de quienes proponen descartar la terminología “missio ad gentes” en vista de nuevos y “milagrosos” paradigmas. No me parece que se pueda afirmar que esa implique la justificación de una actitud arrogante e irrespetuosa hacia el otro, de otras culturas y religiones. Al contrario, el término missio ad gentes ayuda a no distraernos de los destinatarios de nuestro dar la vida. Otros sirven a los pobres, a los discapacitados, a los migrantes, a los ancianos, a los jóvenes... nosotros servimos a los que no conocen a Cristo y somos enviados a ellos con el sueño de compartir un don que también nosotros, como ellos, hemos recibido del Espíritu (cfr. Rm 15,15, la bondad reservada por Dios hacia Pablo, que le convierte en misionero de los paganos). Se trata de un don (la vida en Cristo) que trasciende y convierte tanto al destinatario de la misión como al misionero. No hay lugar para la arrogancia ni para el sentido de superioridad, sino sólo para la conversión permanente, ¡sobre todo del misionero! Es la conversión que le ocurrió a Cornelio... y a Pedro (cfr. Hch 10,1-11,18)[6].  

Como nota final, diría que, como beneficiario de la reflexión misionológica, me gustaría recibir estímulos para salir de mi zona de confort en lugar de justificaciones de mi reticencia a encontrarme con el otro a partir de mí mismo. La misión es un desafío difícil de por sí. ¿Por qué añadirle el obstáculo de una especulación intelectual que debilita su espíritu?

Matteo Rebecchi, sx
Manila, marzo 2023

 

[1] Es posible escuchar las conferencias del Congreso en el canal de YouTube El artículo de J. Y. Tan, Missio Inter Gentes.

Towards a New Paradigm in the Mission Theology of the Federation of Asian Bishops’ Conferences (FABC), está disponible en el sitio web de la DG.

[2] Para un análisis crítico desde una perspectiva teológica del paradigma Inter Gentes, véase R. Viviano, “In Vindication of Missio ad Gentes. The Permanent Value of a Fundamental Concept” en Quaderni del CSA 17/2: 69-80 2022 Centro Studi Asiatico.

[3] Estos otros grupos humanos no serán olvidados si mantenemos vivo nuestro espíritu ad gentes. Repensarnos como misioneros ad gentes hace crecer el sentido de universalidad e inclusividad de una Iglesia que se preocupa por todos y por todo el mundo, teniendo en cuenta también que los misioneros ad gentes no lo son todo en la Iglesia, sino que forman parte de una Familia que se enriquece con otros carismas (como Pablo contaba con el trabajo de Pedro, Santiago...). No se trata de crear otra categorización, de establecer nuevas fronteras. Por el contrario, los otros paradigmas, en mi opinión, corren el riesgo de convertirse en excluyentes hacia aquellos a los que es difícil llegar. Por eso, una vez que se vuelve a poner en el corazón este amor de la Iglesia por todos, pero realmente por todos, toda categorización de la misión, incluso la categorización teológica del ad gentes, puede también de alguna manera desvanecerse: el misionero se siente enviado a toda persona necesitada de la comunión con Cristo que Dios le pone delante, prestándose para que también en ese hermano o hermana crezca la conciencia de ser hijo o hija de Dios. Un poco como le sucedió a Jesús, misionero ad gentes incluso en la cruz, que ofreció la salvación a quien el Padre le había puesto a su lado: el Buen Ladrón.

[4] Sobre este punto agradezco al P. Rocco Viviano que me haya recordado cómo la expresión ad gentes encuentra su origen en el Nuevo Testamento

[5] En el capítulo 15 de Romanos, poco después del apenas citado versículo 15:16, Pablo afirma su jactancia de proclamar el nombre de Cristo donde éste aún no ha llegado (Rom 15:20), definiendo aún más claramente lo que él entiende por “gentes”, una categoría teológica, no sólo geográfica o étnica.

[6] Las expresiones inter gentes (Rom 2:24; 1Cor 5:1; Gal 2:8; 1 Pe 2:12) y cum gentibus (Hch 4:27, Gal 2:42) se encuentran también en el NT, pero incluso en estos casos las gentes representan una categoría religiosa más que étnico-geográfica. Las gentes también se asocian a menudo con hábitos y comportamientos que piden la conversión. Por último, los términos no se refieren a la actividad evangelizadora en sentido estricto. La única excepción es Gál 2,8, donde inter gentes es utilizado por Pablo para describir su labor misionera que tiene lugar “entre” los gentiles, a diferencia de Pedro, que trabaja entre los circuncisos. También en este caso, me parece que no podemos decir que se pierda el sentido del movimiento de “ser enviado a” de la misión de Pablo.


En « défense » du concept (et la pratique) de missio ad gentes

J'écris en réaction à certaines conférences données lors du Congrès national de la mission des Philippines (17-24 avril 2022)[1]. En particulier, je fais référence à la proposition de révision du concept de mission par certains missiologues qui voient la nécessité d'abandonner le concept "ancien" de missio ad gentes pour adopter le nouveau "paradigme" de la missio inter gentes[2]. Selon ces missiologues, ce mouvement, ou « basculement », contribuerait à abandonner une mission de type colonial, caractérisée par l'arrogance et le sentiment de supériorité de l'annonceur, par le mépris des cultures et des religions, par la méconnaissance de l'œuvre de l'Esprit au-delà des limites de l'Église, de l'extra ecclesiam nulla salus, de la vision hiérarchique et non communautaire de l'Église… Le changement de terminologie, d'ad gentes à inter gentes, aiderait à abandonner une pratique missionnaire obsolète, à adopter un style plus dialogique et respectueux. Ce n'est pas une petite transformation que l'on attend de la modification d'une préposition !

Mes considérations concernent aussi des Instituts missionnaires comme le mien (les Xavériens) qui, dans la réflexion et la pratique missionnaires, se trouvent confrontés à une série de changements objectifs qui risquent de bouleverser les fondements de l'inspiration charismatique et évangélique de leurs expériences apostoliques.

Partons du sens des mots pour voir si ce changement de paradigme est nécessaire et justifié.

Bien que je ne sois pas latiniste, il me semble que "missio" signifie simplement "envoyer", l'acte d'envoyer. Le terme, combiné avec la préposition "ad" indique l'envoi à quelqu'un. Il n'explique donc pas quelle pourrait être l'activité liée à cet envoi. Cela ne signifie pas, par exemple, "enseigner", "catéchiser", ou même "faire du prosélytisme"... Ainsi, l'arrogance des missionnaires envers les cultures et les religions ne peut être associée au concept de "missio ad", comme si le terme justifie, en soi, une attitude arrogante qui n'inclut pas d'apprendre de l'autre partie ou de manquer de respect aux cultures et traditions locales. L'envoi ne contient aucune indication quant à la qualité de la rencontre, qui doit être enrichie par l'expérience de l'Évangile et par le style de Jésus dans la rencontre de l'autre de lui-même (son incarnation), une rencontre toujours enrichie par l'amour qui sait comment accueillir et respecter le frère et la sœur rencontrés, un amour kénotique, prêt à donner sa vie.

Passons au terme « gentes » qui est souvent traduit par « nations ». Cette traduction, correcte en elle-même, représente le présupposé des « changements de paradigme » précités de la missio inter gentes (mission accomplie parmi des peuples différents), ou de la missio cum gentibus (mission vécue en communion avec d'autres peuples) ou de l'ajustement du « basculement » du paradigme en fonction des situations, comme dernière (?) découverte de l'équilibriste missiologique. Comme je l'ai dit, ces nouveaux concepts remplaçant la mission ad gentes aideraient à assumer une attitude plus respectueuse et dialogique envers les cultures et les religions. On éviterait ainsi d'exprimer la supériorité du christianisme sur les autres, pour proposer un dialogue d'enrichissement mutuel.

À mon avis, cependant, ces "changements de paradigme", fondés sur la traduction de gentes par le terme "nations" (ou peuples), alors que d'une part ils mettent en avant le devoir d'amour et de respect de l'autre, ont la grande limitation de réduire la mission ad gentes à une simple activité interculturelle : la mission est vue comme une interaction entre différents groupes humains, mais pas nécessairement entre chrétiens et non-chrétiens. La mission se limite à un échange de valeurs présentes chez les différents peuples et cultures. Donc, paradoxalement, notre communauté internationale de théologie à Manille représenterait une expérience de mission inter gentes, comme interculturelle. Une mission accomplie sans avoir besoin de quitter la porte d'entrée de notre maison…

Une autre réduction possible du concept de missio ad gentes est de considérer la mission comme un simple mouvement géographique (ad extra), où le missionnaire entre dans un nouveau contexte national et culturel réduisant souvent notre être missionnaire - comme le p. Francesco Marini à juste titre "dénoncé" - pour "être curé à l'étranger". Ce modus cogitandi signifie que le travail avec les migrants philippins dans un autre pays asiatique, bien qu'appréciable, est considéré comme une expérience de missio ad gentes, comme on l'a entendu dans l'une des expériences du Congrès missionnaire susmentionné.

Mais gentes ne signifie pas seulement peuples ou nations. Les gentes sont ces groupes humains qui se traduisaient autrefois par « gentils », « infidèles », « païens », « non-chrétiens » ou même simplement « autres que soi-même » (ceux qui ne sont pas une partie visible de l'Église, comme les Gentils étaient les incirconcis pour les Juifs). C'est une catégorie non seulement sociologique, mais surtout théologique. En enrichissant le terme gentes de ce caractère relatif à la foi, toute la perspective de la mission change. En effet, la Missio ad gentes prend les contours de l'envoi à un type particulier de personne : on est envoyé aux autres par-des-chrétiens, à des non-chrétiens. En maintenant ce postulat, nous sommes aidés à nous concentrer sur une catégorie particulière de destinataires de notre service et sur une « pauvreté » particulière, celle de la foi au Christ. Paradoxalement, la notion apparemment exclusive de « non-chrétiens » justifie le caractère très inclusif de la mission universelle de l'Église, car elle nous oriente vers une catégorie d'hommes et de femmes que nous oublions souvent au profit d'autres groupes humains (pauvres, étrangers, malade, ...)[3]. De plus, le concept d'ad gentes traduit très bien le désir du pape François d'une Église en sortie, une Église qui adresse ses soins à ceux qui vivent en dehors de leurs propres « frontières » géographiques, existentielles et religieuses.

Au contraire, les nouveaux « paradigmes » rendent la mission très générique et floue, notamment en ce qui concerne le type de personnes auxquelles elle s'adresse. Si l'on ne fait pas un choix clair sur ce point, on est en effet "tragiquement" tenté de se remettre à s'occuper des seuls catholiques... comme le montre la réalité dans tant de nos expériences : une mission qui ne va pas au-delà de la pastorale (à cet égard il est bon de relire ce que dit Conforti dans RF 8). Enfin, si l'on suppose que « gentes » signifie principalement « non-chrétiens », les expressions « inter gentes » (missions entre non-chrétiens et non-chrétiens ?) ou « cum gentibus » (évangélisation réalisée avec la collaboration de non-chrétiens), révélant toute la fragilité conceptuelle des nouveaux « paradigmes ».

Il convient également de noter[4] que l'expression ad gentes n'est pas une invention d'une missiologie ou le fruit d'un contexte historique de mission. Ad gentes est une expression que l'on retrouve dans le Nouveau Testament. En particulier, il décrit la vocation de saint Paul qui se sent envoyé par l'Esprit aux Gentils, laissant aux autres le soin de faire le reste dans le domaine de l'évangélisation et de la prise en charge de la communauté chrétienne primitive. Le premier passage où l'on retrouve cette expression est celui de Rm 15,16, dans lequel Paul se sent investi de la vocation d'être ministre (leitourgos) de Jésus-Christ envers les païens (minister Christi Iesu ad gentes). Deux autres passages sont Actes 13,46 et Actes 18,6, dans lesquels Paul déclare qu'il s'adressera aux païens étant donné le refus des Juifs d'Antioche de Pisidie ​​et de Corinthe d'accepter la prédication. Dans tous ces cas, gentes ne s'entend pas au sens sociologique de « nations », mais au sens strict de « gentils » ou « autres que les circoncis »[5].

En conclusion, j'insisterai pour ne pas céder à la flatterie de ceux qui proposent d'abandonner la terminologie « missio ad gentes » face à des paradigmes nouveaux et « miraculeux ». Il ne me semble pas qu'on puisse dire qu'elle implique la justification d'une attitude arrogante et irrespectueuse envers l'autre, envers les autres cultures et religions. Au contraire, le terme missio ad gentes aide à ne pas nous distraire des destinataires de notre don de vie. D'autres servent les pauvres, les handicapés, les migrants, les personnes âgées, les jeunes... nous servons ceux qui ne connaissent pas le Christ et nous sommes envoyés vers eux avec le rêve de partager un don que nous aussi, comme eux, avons reçu du Saint Esprit (cf. Rm 15,15, la bienveillance réservée par Dieu à Paul, qui fait de lui un missionnaire auprès des païens). C'est un don (la vie en Christ) qui transcende et convertit à la fois, destinataire de la mission et missionnaire. Il n'y a pas de place pour l'arrogance et le sentiment de supériorité, mais seulement pour la conversion permanente, surtout du missionnaire ! C'est la conversion qui est arrivée à Corneille… et à Pierre (cf. Ac 10, 1-11, 18)[6].

Pour terminer, je dirais qu'en tant que bénéficiaire de la réflexion missiologique, j'aimerais recevoir des suggestions pour sortir de ma zone de confort plutôt que des justifications de ma réticence à rencontrer l'autre, différent de moi-même. La mission est un défi difficile en soi. Pourquoi ajouter l'obstacle d'une spéculation intellectuelle qui mortifie l'esprit ?

Matteo Rebecchi, sx
Manille, Mars 2023

 

[1] Vous pouvez écouter les conférences du Congrès sur la chaîne Youtube L'article de J. Y. Tan, Missio Inter Gentes, vers un nouveau paradigme dans la théologie de la mission de la Fédération des conférences épiscopales d'Asie (FABC), est disponible sur le site Web du DG.

[2] Per una analisi critica dal punto di vista teologico del paradigma Inter Gentes, vedi R. Viviano, “In Vindication of Missio ad Gentes. The Permanent Value of a Fundamental Concept” in Quaderni del CSA 17/2: 69–80 2022 Centro Studi Asiatico.

[3] Ces autres groupes humains ne sont pas oubliés si nous gardons vivant notre esprit ad gentes. Repenser les missionnaires ad gentes augmente le sens d'universalité et d'inclusivité d'une Église qui se soucie de tous et du monde entier, même en tenant compte du fait que les missionnaires ad gentes ne sont pas tout dans l'Église, mais font plutôt partie d'une famille qui s'enrichit de d'autres charismes (comme Paul comptait sur l'œuvre de Pierre, de Jacques…). Il ne s'agit pas de créer une autre catégorisation, de fixer de nouvelles frontières. Au lieu de cela, d'autres paradigmes, à mon avis, risquent de devenir exclusifs à ceux qui sont difficiles à atteindre. Ainsi, après avoir remis au cœur cet amour de l'Église pour tous, vraiment tous, toute catégorisation de la mission, même celle théologique d'ad gentes, peut en quelque sorte s'évanouir aussi : le missionnaire se sent envoyé à chaque personne dans besoin de communion avec le Christ que Dieu place devant lui, se prêtant à ce que même chez ce frère et cette sœur puisse grandir la conscience d'être fils ou fille de Dieu, un peu comme ce qui est arrivé à Jésus, missionnaire ad gentes jusque sur la croix , qui offre le salut à qui le Père qu'il avait placé à côté de lui : le Bon Larron.

[4] Sur ce point, je remercie le P. Rocco Viviano pour m'avoir rappelé comment l'expression ad gentes trouve son origine dans le Nouveau Testament.

[5] Au chap. 15 de l’épitre aux Romains, peu après le verset 15,16 précité, Paul affirmera sa vantardise d'annoncer le nom du Christ là où il n'est pas encore arrivé (Rom 15,20), définissant encore plus clairement ce qu'il entend par « gentes », un catégorie théologique, pas seulement géographique ou ethnique.

[6] Les expressions inter gentes (Rm 2,24 ; 1 Cor, 5:1 ; Gal 2,8 ; 1 Pt 2 ; 12) et cum gentibus (Ac 4,27, Gal 2, 42), sont également présentes dans le NT , mais même dans ces cas, les peuples représentent une catégorie religieuse plutôt qu'ethno-géographique. Les gens sont aussi souvent associés à des habitudes et des comportements qui appellent à la conversion. Enfin, les termes ne se réfèrent pas à l'activité évangélisatrice au sens strict. La seule exception est Gal 2.8 où inter gentes est utilisé par Paul pour décrire son travail missionnaire qui se déroule "parmi" les Gentils contrairement à Pierre qui travaille parmi les circoncis. Dans ce cas aussi, me semble-t-il, on ne peut pas dire que le sens du mouvement « d'envoi vers » de la mission de Paul soit perdu.

Matteo Rebecchi
19 maio 2023
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