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Cordialmente vostro

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Il 24 maggio 2016, p. Francesco Marini, sx ci lasciava. È stato una delle figure più significative della Famiglia saveriana e non solo. Infaticabile ricercatore della verità, ha sempre inseguito il meglio, anche a costo di rimanere insoddisfatto e inquieto. Sobrio, acuto nel pensiero, schietto, e tanto e tanto umano. Una mescola di intelligenza e di umanità, fatta di umiltà e di disponibilità, che lo ha reso amico di tutti. Nella domanda d’ammissione alla prima professione religiosa, così scriveva a p. Giovanni Castelli, il 12 settembre 1957: 

… In quest’anno ho riflettuto, pregato e ho studiato la mia vocazione, insieme al Rev.mo Padre Maestro, e ora col suo beneplacito faccio la presente domanda. … Per quel che riguarda la Congregazione, io sento di amarla molto. Ho cercato di conoscerla in quest’anno e ho visto che è la famiglia, così come vuole il Ven. Fondatore e com’è di fatto, che più mi piace. Non essendoci alcun impedimento, nulla mi proibisce di pensare che la Famiglia Saveriana sia, fra poco, la mia Famiglia.

Carissimi fratelli,

come facevamo notare nella Lettera del 1990 (nn. 37s), quello della comunità è uno dei punti più urgenti per il rinnovamento della Congregazione. Vorrei tentare qui di individuare i punti che ci ostacolano ...

Le difficoltà che sperimentiamo sono di diversa natura. A volte si tratta semplicemente di caratteri di difficile relazione. Tipi piuttosto chiusi, introversi, o permalosi, o eccessivamente estroversi e che debbono sempre tenere il centro del palco, o testardi, o inaffidabili negli impegni presi, o sensibilissimi se vengono sfiorati con qualche parola un po' rude ma che usano la lingua come una sciabola ... insomma, tipi così rendono difficile la vita comunitaria. E può accadere allora di trovare dei saveriani così delicati e disponibili ad accogliere gli estranei (e specialmente le estranee) e così scorbutici con i confratelli.

A volte le difficoltà derivano dalla nostra mentalità. Ognuno naturalmente pensa che le proprie idee siano giuste (se fosse convinto del contrario le avrebbe già cambiate e penserebbe così di avere ora le idee giuste); ciò è normale. Ma non è normale che questa giustezza presunta di idee diventi rigidezza, incapacità a confrontarsi con gli altri, indisponibilità all'ascolto e alla riconsiderazione, incapacità a distinguere tra diversità di idee e opposizione personale, inabilità ad esporre con chiarezza e precisione il proprio punto di vista ... Se le nostre idee ci dividono tanto, non sarà forse perché mancano altri forti legami tra di noi?

Non ci si meravigli se a volte perfino la difesa dei propri interessi diventa ostacolo alla vita comunitaria. Certo non si tratta di interessi materiali; ma quante volte siamo bloccati dal timore di dover cambiare ambiente o lavoro o abitudini, o alcune comodità ormai familiari o stile di lavoro: le fonti cioè della propria sicurezza e della propria soddisfazione. Certo, queste motivazioni non appaiono così chiaramente alla superficie, ma con facilità esse soggiacciono alle nostre proclamate motivazioni di servizio (e ognuno di noi è bravissimo nello scoprirle negli altri, coperte sotto montagne di argomentazioni). Risultato di tutto ciò? A volte non si riesce a comporre "comunità viabili" come pure si desidererebbe; altre volte si riesce a stare insieme, ma "si vive separati": si dividono così i campi o i settori ed ognuno può avere il suo piccolo regno.

Pensando che queste difficoltà sono così frequenti, così estese e così profonde, non si può fare a meno di concludere alla sostanziale insufficienza della nostra educazione su questo punto. A cosa son serviti tanti discorsi sulla inculturazione, sul dialogo, sulla disponibilità ...? E il molto allenamento all'apostolato ci allena al superamento dei nostri errori o ci abitua piuttosto alla loro ripetizione? Se questa è la situazione, non sarà forse un segno che magari abbiamo lasciato molte cose per il Vangelo, ma forse non siamo ancora arrivati a lasciare noi stessi?

Ma l'urgenza dello sforzo nel creare comunione deriva anche dal fatto che l'individualismo è la via maestra per l'invecchiamento psichico: i meccanismi di adattamento e rinnovamento si arrugginiscono e l'incrostazione dello spirito consente solo la ripetizione di alcuni movimenti più facili. Sottratti alla limatura del confronto comunitario, i nostri difetti non trovano più argini e diventano semplicemente caratteristiche personali; il nostro modo di pensare e di fare diventa un dato al quale gli altri si debbono ovviamente adattare ... Diventiamo un peso per i confratelli e per la gente; possiamo addirittura diventare un ostacolo al rinnovamento della missione e della Congregazione e magari continuiamo a pensare di "fare il nostro servizio", mentre semplicemente stiamo gestendo il nostro imperio.

Ma non ci sono aspetti positivi nella nostra vita comunitaria? Certo! Ci sono comunità dove la condivisione e la comunione sono realtà e cammino comune e soprattutto c'è in molti la tensione della ricerca della comunione secondo le possibilità personali e comunitarie. Nonostante questo impegno diffuso, mi pare che la situazione sia quella descritta sopra, specie nell'attività missionaria diretta. Per raggiungere gli obiettivi che ci proponiamo, occorre che quella tensione diventi generale e che usiamo correttamente gli strumenti che possono concretizzarla.

Cordialmente vostro

Francesco Marini sx
(Commix 28. Maggio 1992)


On 24 May 2016, Fr. Francesco Marini, sx passed away. He was one of the most significant figures of the Xaverian Family and beyond. Tireless seeker of truth, he has always pursued the best, even at the cost of remaining dissatisfied and restless. Sober, sharp in thought, straightforward, and very, very human. A mix of intelligence and humanity, made up of humility and availability, which made him a friend of all. In the application for admission to the first religious profession, he wrote to Fr. Giovanni Castelli, on 12 September 1957:

«… In this year I have reflected, prayed and studied my vocation, together with the Most Reverend Father Master, and now, with his approval, I am making this request. … As far as the Congregation is concerned, I feel that I love it very much. I have tried to get to know it this year and I have seen that it is the family, as the Venerable Founder wants and as it is in fact, that I like the most. There being no impediment, nothing prevents me from thinking that the Xaverian Family will soon be my Family».

Dear Brothers

as we pointed out in our Letter of 1990 (n. 37s), that the community is one of the most urgent points for the renewal of the Congregation. I would like to attempt here to identify the points that hinder us ...

The difficulties we experience are of a different nature.

Sometimes it is simply a matter of characters who are difficult to relate to. Rather closed, introverted, or touchy, or excessively extroverted types who always have to take centre stage, or stubborn, or unreliable in their commitments, or very sensitive if they are touched with a few rough words but who use their tongue like a sabre ... in short, guys like that make community life difficult. And it can happen, then, to find Xaverians who are so delicate and willing to welcome strangers (and especially female strangers) and so grumpy with the confreres.

Sometimes the difficulties arise from our mentality. Everyone naturally thinks his ideas are right (if he was convinced otherwise he would have already changed them and thus think he now has the right ideas); this is normal. But it is not normal for this presumed rightness of ideas to become rigidity, an inability to engage with others, an unwillingness to listen and reconsider, an inability to distinguish between diversity of ideas and personal opposition, an inability to set out one's own point of view clearly and precisely ... If our ideas divide us so much, is it not because we lack other strong ties between us?

It is no wonder that sometimes even the defence of one's own interests becomes an obstacle to community life. Of course it is not a matter of material interests; but how often are we blocked by the fear of having to change environment or job or habits, or some now-familiar comfort or style of work: the sources of our own security and satisfaction, that is. Of course, these motivations do not appear so clearly on the surface, but they easily undercut our proclaimed service motivations (and each of us is very good at discovering them in others, covered under mountains of arguments). And the result of all this? Sometimes we do not succeed in composing 'viable communities' as we would wish; at other times we manage to stay together, but 'live apart': thus we divide fields or sectors and each can have his own little kingdom.

Thinking that these difficulties are so frequent, so extensive and so profound, one cannot help but conclude the substantial inadequacy of our education on this point. What is the point of so much talk about inculturation, dialogue, availability...? And does much training in the apostolate train us to overcome our mistakes, or rather accustom us to their repetition? If this is the situation, is it not a sign that perhaps we have left a lot behind for the Gospel, but perhaps we have not yet come to leave ourselves behind?

But the urgency of the effort to create communion also stems from the fact that individualism is the main road to psychic ageing: the mechanisms of adaptation and renewal become rusty and the encrustation of the spirit only allows the repetition of a few easier movements. Subtracted from the liming of community confrontation, our faults are no longer contained and become simply personal characteristics; our way of thinking and doing becomes a given style to which others must obviously adapt ... We become a burden for the confreres and for the people; we can even become an obstacle to the renewal of the mission and of the Congregation, and perhaps we continue to think that we are "doing our service", while we are simply managing our empire.

But are there not positive aspects in our community life? Of course! There are communities where sharing and communion are a reality and a common path, and above all there is in many the tension of seeking communion according to personal and community possibilities. Despite this widespread commitment, it seems to me that the situation is as described above, especially in direct missionary activity. In order to achieve the objectives that we propose, it is necessary the striving becomes general and that we correctly use the instruments that can concretise it.

Cordially yours

Francesco Marini, sx
(Commix 28. May 1992)


Queridísimos hermanos,

como señalábamos en nuestra Carta de 1990 (nn. 37s), el de la comunidad es uno de los puntos más urgentes para la renovación de la Congregación. Quisiera intentar identificar aquí los puntos que nos obstaculizan...

Las dificultades que experimentamos son de distinta naturaleza. A veces se trata simplemente de caracteres que encuentran difícil relacionarse. Tipos más bien cerrados, introvertidos, o susceptibles, o excesivamente extrovertidos que siempre tienen que ser el centro de atención, o testarudos, o poco fiables en los compromisos asumidos, o muy sensibles si se les toca con alguna palabra un poco áspera pero que utilizan la lengua como un sable... En breve, tipos así dificultan la vida en comunidad. Y puede ocurrir, entonces, que se encuentren javerianos muy atentos y dispuestos a acoger a los extraños (y sobre todo a las extrañas) y excesivamente irascibles con los hermanos.

A veces las dificultades surgen de nuestra mentalidad. Cada uno piensa naturalmente que sus ideas son correctas (si estuvieran convencidos de lo contrario, ya las habrían cambiado y, por tanto, pensarían que ahora tienen las ideas justas); esto es normal. Pero no es normal que esta presunción de exactitud en las ideas se convierta en rigidez, incapacidad para confrontarse con los demás, falta de voluntad para escuchar y recapacitar, incapacidad para distinguir entre diversidad de ideas y oposición personal, incapacidad para exponer el propio punto de vista de forma clara y precisa... Si nuestras ideas nos dividen tanto, ¿no será porque carecemos de otros lazos fuertes entre nosotros?

No es de extrañar que a veces incluso la defensa de los propios intereses se convierta en un obstáculo para la vida comunitaria. Por supuesto, no se trata de intereses materiales; pero cuántas veces nos bloquea el miedo a tener que cambiar de entorno o de trabajo o de hábitos, o de alguna comodidad o estilo de trabajo ya conocidos: es decir, las fuentes de nuestra propia seguridad y satisfacción. Por supuesto, estas motivaciones no aparecen tan claramente en la superficie, pero socavan fácilmente nuestras proclamadas motivaciones de servicio (y cada uno de nosotros es muy bueno descubriéndolas en los demás, cubiertas bajo montañas de argumentos). ¿El resultado de todo esto? A veces no se consigue componer “comunidades viables” como desearíamos; otras veces logramos permanecer juntos, pero “vivimos separados”: se dividen campos o sectores y cada uno puede tener su pequeño reino.

Pensando que estas dificultades son tan frecuentes, tan extensas y tan profundas, uno no puede dejar de concluir que se da una insuficiencia sustancial en nuestra educación sobre este punto. ¿A qué ha servido tanto hablar de inculturación, de diálogo, de disponibilidad...? Y tanta formación en el apostolado, ¿nos capacita para superar nuestros errores, o más bien nos acostumbra a su repetición? Si esta es la situación, ¿no es un signo de que quizás hemos dejado mucho por el Evangelio, pero quizás no hemos llegado todavía a dejarnos a nosotros mismos?

Pero la urgencia del esfuerzo por crear comunión se deriva también del hecho de que el individualismo es la vía principal del envejecimiento psíquico: los mecanismos de adaptación y renovación se oxidan, y el encostrarse del espíritu sólo permite la repetición de algunos movimientos más fáciles. Sustraídos a la corrección de la confrontación comunitaria, nuestros defectos no encuentran contenciones y se convierten simplemente en características personales; nuestra manera de pensar y de actuar se convierte en algo dado a lo que, evidentemente, los demás deben adaptarse... Nos convertimos en una carga para los hermanos y para el pueblo; incluso podemos llegar a ser un obstáculo para la renovación de la misión y de la Congregación, y tal vez sigamos pensando que estamos “haciendo nuestro servicio”, cuando simplemente estamos gestionando nuestro imperio.

Pero, ¿no hay aspectos positivos en nuestra vida comunitaria?

¡Por supuesto! Hay comunidades donde el compartir y la comunión son una realidad y un camino común, y sobre todo hay en muchas la tensión de buscar la comunión según las posibilidades personales y comunitarias. Sin embargo, a pesar de este compromiso generalizado, me parece que la situación es la descrita anteriormente, especialmente en la actividad misionera directa.

Para alcanzar los objetivos que nos proponemos, es necesario que esa tensión se generalice y que utilicemos correctamente los instrumentos que pueden concretizarla.

Cordialmente

Francesco Marini sx
(Commix 28 de Mayo 1992)


Très chers frères,

Comme nous le faisions remarquer dans la Lettre de 1990 (nn. 37s), la question sur communauté est l’un des points les plus urgents pour le renouvellement de la Congrégation. Je voudrais tenter ici d’identifier les points qui nous posent problème ...

Les difficultés que nous rencontrons sont de nature différente. Parfois, il s’agit simplement de caractères de relation difficile. Des gens plutôt fermés, introvertis, ou susceptibles, ou trop extravertis et qui doivent toujours au centre de la scène, ou têtus, ou peu fiables dans leurs engagements, ou très sensibles s’ils sont effleurés avec quelques mots un peu rudes mais qui utilisent la langue comme une épée ... bref, ces types rendent la vie communautaire difficile. Et il peut arriver alors de trouver des xavériens si délicats et disponibles pour accueillir les étrangers (et spécialement les étrangères) mais peu aimables à l’égard de leurs confrères.

Parfois, les difficultés viennent de notre mentalité. Chacun pense naturellement que ses idées sont justes (s’il était convaincu du contraire, il les aurait déjà changées et penserait ainsi qu’il a maintenant les bonnes idées); c’est normal. Mais il n’est pas normal que cette justesse supposée d’idées devienne rigidité, incapacité à se confronter aux autres, réticence à écouter et à reconsidérer, incapacité à distinguer entre diversité d’idées et opposition personnelle, incapacité à exposer clairement et précisément son point de vue ... Si nos idées nous divisent autant, n’est-ce pas parce qu’il nous manque d’autres liens forts entre nous ?

Il n’est pas étonnant que même la défense de ses propres intérêts devienne parfois un obstacle à la vie communautaire. Bien sûr, il ne s’agit pas d’intérêts matériels; mais combien de fois sommes-nous bloqués par la crainte de devoir changer d’environnement, d’habitudes ou certains conforts désormais familiers ou style de travail : qui sont sources de sa propre sécurité et de sa propre satisfaction. Certes, ces motivations n’apparaissent pas si clairement à la surface, mais elles sous-tendent facilement nos motivations proclamées de service (et chacun de nous est très doué pour les découvrir chez les autres, couverts sous des montagnes d’arguments). Résultat de tout cela? Parfois on ne réussit pas à composer des "communautés viables" comme on le souhaiterait; d’autres fois on réussit à être ensemble, mais on "vit séparés" : on divise ainsi les champs ou les secteurs et chacun peut avoir son petit royaume.

En pensant que ces difficultés sont si fréquentes, si étendues et si profondes, on ne peut que conclure à l’insuffisance substantielle de notre éducation sur ce point. A quoi ont servi tant de discours sur l’inculturation, sur le dialogue, sur la disponibilité ...? Et la grande formation à l’apostolat nous entraîne-t-elle à surmonter nos erreurs ou nous habitue-t-elle plutôt à les répéter? Si telle est la situation, ne serait-ce pas un signe que nous avons peut-être laissé beaucoup de choses pour la cause de l’Évangile, mais peut-être que nous ne sommes pas encore arrivés à nous quitter nous-mêmes?

Mais l’urgence de l’effort pour créer la communion vient aussi du fait que l’individualisme est la voie royale pour le vieillissement psychique : les mécanismes d’adaptation et de renouvellement rouillent et l’incrustation de l’esprit ne permet que la répétition de certains mouvements plus faciles. Soustraits à la limaille de la confrontation communautaire, nos défauts ne trouvent plus de limites et deviennent simplement des caractéristiques personnelles; notre façon de penser et de faire devient une donnée à laquelle les autres doivent évidemment s’adapter ... Nous devenons un poids pour les confrères et pour les personnes; nous pouvons même devenir un obstacle au renouvellement de la mission et de la Congrégation et peut-être continuons-nous à penser que nous "faisons notre service", alors que nous gérons simplement notre empire.

Mais n’y a-t-il pas des aspects positifs dans notre vie communautaire ? Bien sûr ! Il y a des communautés où le partage et la communion sont réalité et chemin commun et surtout il y a chez beaucoup la tension de la recherche de la communion selon les possibilités personnelles et communautaires. Malgré cet engagement généralisé, il me semble que la situation est celle décrite ci-dessus, en particulier dans l’activité missionnaire directe. Pour atteindre les objectifs que nous nous proposons, il faut que cette tension devienne générale et que nous utilisions correctement les instruments qui peuvent la concrétiser.

Cordialement votre

Francesco Marini sx
(Commix 28. Mai 1992)

Francesco Marini sx
24 maio 2023
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