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Vivere le prove con sincerità di cuore

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Educatori al lavoro

Ogni prova e difficoltà della vita è accompagnata da forti connotazioni affettive. C’è il tormento del celibato o verginità promessa ma trasgredita (nella propria interiorità o nel coinvolgimento con altre persone, in area etero-sessuale che omosessuale), il pianto del lutto (per un distacco, una partenza, la perdita di un’amicizia, la morte di una figura significativa …), la delusione d’amore (nelle crisi di coppia o nelle forme di tradimento agito o subìto). Non tutte queste e altre connotazioni affettive aiutano ad attraversare bene la prova. Alcune reazioni induriscono il cuore, altre lo rendono più magnanimo. Alcune sono reazioni spontanee e automatiche (di solito quelle meno in favore di una soluzione positiva della prova). Altre sono il frutto di una presa di coscienza della prova in atto e favorite da chi, nella prova, ci accompagna con rispetto e amore.

Le dieci regole che seguono le ho imparate da chi mi ha guidato, da chi mi ha fatto supervisione, dai colleghi e amici con cui mi sono confrontato, ma soprattutto dagli errori fatti, visto che aiutare le persone a vivere le difficoltà con sentimenti positivi non è proprio facile, ma mette seriamente in questione anche chi aiuta.

1. Non censurare la prova

Visibile o silenziosa, ogni prova è sempre inevitabile e trasformante. Perché non si traduca in pietra d’inciampo, chi accompagna dovrebbe evitare due approcci sbagliati: legalizzare la crisi («scelte definitive non sono possibili», «l’instabilità è la regola», «nella vita si cambia» …) e demonizzare la crisi (la crisi come l’inizio della fine). Tutte e due le mentalità soffocano l’esperienza della crisi come occasione di dilatazione del desiderio.

2. Accogliere senza colludere

Significa ascoltare e accogliere senza scandalizzarsi né essere complici, assorbire i sentimenti che emergono ma non esserne succubi. Comprendere non significa giustificare, prendere il partito di una persona o scagliarsi contro l’altra, contestare la morale cristiana su un punto o su un altro, o confidare ingenuamente che si ha lo stesso problema...

3. Accettare la propria inutilità

Accompagnare la crisi significa entrare in un contesto dove le forze affettive anche più fondamentali e primitive della storia di una persona si riattivano, per cui è come lavorare controcorrente in un torrente. L’accompagnatore deve accettare la propria inefficacia, disporsi alla pazienza e liberarsi dalla rischiosissima sindrome del salvatore tanto presente in guide religiose.

4. Dare il tempo per attraversare la prova

Ci vuole tempo anche se c’è fretta di concludere e ci si illude di avere già capito tutto come se si avesse ricevuto una nuova rivelazione (si pensi alle illusioni ottiche di un innamoramento). Nei suoi messaggi verbali e non verbali chi accompagna dovrà dare l’idea che ci vorrà del tempo anche se al cuore di chi soffre sembrerà quasi sempre infinito, così come dovrà dare un ritmo regolare agli incontri, offrendo del suo tempo per portare a coscienza la prova. Rimanere a fianco e la fedeltà ai colloqui vale più di tante dichiarazioni di solidarietà.

5. Favorire l’emergere della verità dei fatti

E questo, sia nella loro concretezza che nei loro riflessi emotivi e fantastici. Anche qui ci sarà una notevole resistenza non solo nell’accompagnato, ma anche nella guida, quando, ad esempio, scivola subito via nel terreno più rassicurante della soluzione e dei consigli. L’emergere della verità dei fatti chiederà tempo, pazienza e, a volte, la furbizia di usare anche qualche tecnica paradossale come, ad esempio, quella di supporre che un problema sia già superato e risolto per ottenere una più chiara dichiarazione dei fatti e di una certa condizione esistenziale. Non riuscire a dire alla guida è un modo per non dire neanche a se stessi il peso di ciò che è successo e saltare subito verso la soluzione difende dalla comprensione di ciò che è accaduto. Anche quando la soluzione non ci sarà, essere riusciti a dirsi finalmente nella verità aiuta a sopportare con più maturità la crisi stessa e a riequilibrare l’innato narcisismo dell’io.

6. Approfondire una maggiore intimità con se stessi e consapevolezza dei vissuti

Questo risultato è decisivo per riprendere la signoria della propria vita e l’accompagnatore lo può favorire con alcune richieste: quando sarà necessario creare uno spazio di responsabilità personale maggiore e una minore dipendenza dal partner, chiedere di non parlare con altri di ciò che emerge nei colloqui (cosa che invece, di solito, si fa con lo scopo inconscio di evitare o scaricare la tensione della elaborazione meditativa del problema); quando le due persone coinvolte in una relazione si nascondessero reciprocamente la profondità e la portata realistica di ciò che sta avvenendo tra loro, chiedere di affrontare apertamente la questione con il partner; quando si sarà in presenza di atti compulsivi che sembrano incontrollabili e immodificabili, chiedere di prendere consapevolezza di ciò che si prova, si desidera veramente, impegnandosi a pensare a ciò che si sta facendo, piuttosto che proibire, perché questa operazione libererà progressivamente la persona dalla passività e dal determinismo.

7. Riattivare la responsabilità nella gradualità

Quando si considerano le responsabilità obbiettive e i valori trasgrediti e da recuperare, sarà importante chiedere e osservare che cosa la persona, giovane o adulta che sia, si sente responsabilmente in grado di proporsi e non proporsi (tranne nei casi che abbiano un rilievo lesivo di sé e o di altri nei quali occorre proibire nettamente l’azione per poi, in seconda battuta, capirne le ragioni). Al fine di riattivare la responsabilità di ciò che si fa l’accompagnatore decide con quale scadenza risentire (anche telefonicamente) l’interessato, se e in quale contesto è utile che quello riveda la persona con cui ha una relazione problematica, quali passi fare verso una persona con cui si è in conflitto, quali ritmi della vita spirituale si possono comunque rispettare, come riuscire ancora a pregare nonostante le forze delle emozioni che spesso la oscurano…

8. Aprire una lotta più profonda

Ciò vuol dire dare voce a quelle parti del conflitto interiore che non emergono immediatamente ad una prima lettura. Spesso si tratta di frustrazioni affettive connesse a ideali desiderati e coltivati come decisivi per la propria identità: la frustrazione (problema psicologico) è sentita e conscia, la problematica circa gli ideali (problema spirituale) è sentita ma resta fuori dalla consapevolezza. La stessa operazione di allargamento sarà da fare quando una prova affettiva si chiudesse troppo facilmente sotto il segno degli ideali o di una richiesta esterna di superamento della crisi. Ci sarà, anche in questi casi, da riattivare una lotta più profonda che non si può certo tamponare a basso prezzo, altrimenti prima o poi si risveglierà improvvisamente e impulsivamente.

9. Passare dalla crisi alla prova

Abbiamo usato il vocabolario della prova e della crisi in modo indifferente, ma sappiamo bene che ci muoviamo su due orizzonti di significato differenti. Sarà compito dell’accompagnamento passare dalla crisi (problema esistenziale o psicologico) alla prova (problematica spirituale o religiosa). Non è scontato che una crisi affettiva sia vissuta come prova. C’è chi vive fin dall’inizio la crisi come prova, ma forse accade più frequentemente il contrario. Vivere una crisi come prova, trasformando (ma non camuffando!) una lotta psicologica in una lotta spirituale, vorrà dire tenere presente non solo i due elementi in tensione (le capacità del soggetto e la problematicità della situazione), ma anche il terzo elemento che è la rivelazione: «che senso ha ciò che sto vivendo nella logica dell’affidamento al Signore?», «quali significati di vita la situazione di crisi sta mettendo alla prova?». In questo contesto può maturare un senso di colpa che dispone a un pentimento vero, alla contrizione e all’umiltà

10. Imparare dalla prova

Attraversare la prova può veramente cambiare la persona anche perché la persona entra in contatto più profondo con se stessa, con l’altro e con Dio. Non per sentito dire, ma perché in lei qualcosa si è rotto e qualcosa è nato: è cambiato e cambia la qualità delle relazioni, la capacità di empatia e la disposizione a quella compassione che è un dono dello Spirito di Gesù. In effetti nella prova s’impara qualcosa di nuovo: «Che cosa ho appreso?». Anche il Figlio dell’uomo ha imparato l’obbedienza dalle cose che ha patito (Ebr 5,7-10): forse anche lui ha compreso più radicalmente chi era il Padre e quale era il suo servizio di salvezza e la propria identità! Alla fine, rimarrà qualche ferita, qualche debolezza o vulnerabilità da portare come memoria della lotta e della grazia (Gen 32, 23-33).

La prova mette alla prova anche chi accompagna. Anche lui si vede obbligato a rielaborare i suoi vissuti personali e a tenere sotto controllo la qualità del suo aiutare e mettersi in relazione (transfert e controtransfert). Per un credente significa anche pregare mettendo ciò che sta avvenendo sotto lo sguardo del Signore. Uno dei miei maestri mi ha insegnato che la forza del transfert e controtransfert va certamente riconosciuta, ma in alcuni casi più difficili si può vincere solo con le ginocchia, nello spazio di un affetto veramente forte e tante volte non detto.

Enrico Parolari
Prete e psicoterapeuta.
Seminario Arcivescovile di Milano.


Vivre les épreuves avec sincérité de cœur

Éducateurs au travail

Chaque épreuve et difficulté de la vie s’accompagne de fortes connotations affectives. Il y a le tourment du célibat ou de la virginité promise mais transgressée (dans sa propre intériorité ou avec implication d’autres personnes, dans le contexte hétéro-sexuel ou homosexuel), le pleur du deuil (pour un détachement, un départ, la perte d’une amitié, la mort d’une figure significative ...), la déception d’amour (dans les crises de couple ou dans les formes de trahison faite ou subie). Toutes ces connotations affectives et d’autres n’aident pas à bien traverser l’épreuve. Certaines réactions durcissent le cœur, d’autres le rendent plus magnanime. Certaines sont des réactions spontanées et automatiques (généralement celles qui sont le moins en faveur d’une solution positive de l’épreuve). D’autres sont le fruit d’une prise de conscience de l’épreuve en acte et favorisées par celui qui, dans l’épreuve, nous accompagne avec respect et amour.

Les dix règles suivantes, je les ai apprises de ceux qui m’ont guidé, de ceux qui m’ont supervisé, de mes collègues et amis avec qui j’ai été confronté, mais surtout des erreurs faites, car aider les gens à vivre les difficultés avec des sentiments positifs n’est pas vraiment facile, au contraire ceci remet aussi sérieusement en question ceux qui aident.

1. Ne pas censurer l’épreuve

Visible ou silencieuse, toute épreuve est toujours inévitable et transformante. Pour qu’il ne se traduise pas en pierre d’achoppement, celui qui accompagne devrait éviter deux approches erronées : légaliser la crise (« les choix définitifs ne sont pas possibles », « l’instabilité est la règle », « dans la vie on change » ...) et diaboliser la crise (la crise comme le début de la fin). Les deux mentalités étouffent l’expérience de la crise comme occasion de dilatation du désir.

2. Accueillir sans comploter

Cela signifie écouter et accueillir sans se scandaliser ni être complices, absorber les sentiments qui émergent mais ne pas en être succubes. Comprendre ne signifie pas justifier, prendre le parti d’une personne ou se lancer contre l’autre, contester la morale chrétienne sur un point ou sur un autre, ou croire naïvement qu’on a le même problème...

3. Accepter sa propre inutilité

Accompagner la crise signifie entrer dans un contexte où les forces affectives encore plus fondamentales et primitives de l’histoire d’une personne se réactivent, c’est pourquoi c’est comme travailler à contre-courant dans un torrent. L’accompagnateur doit accepter son inefficacité, se préparer à la patience et se libérer du syndrome très dangereux du sauveur si présent dans les guides religieux.

4. Donner le temps de passer l’épreuve

Il faut du temps même si on est pressé de conclure et qu’on se fait l’illusion d’avoir déjà tout compris comme si on avait reçu une nouvelle révélation (on peut penser aux illusions d’optique d’un amoureux). Dans ses messages verbaux et non verbaux, celui qui accompagne devra donner l’idée que cela prendra du temps, même si le cœur de celui qui souffre semblera presque toujours infini, de même qu’il devra donner un rythme régulier aux rencontres, offrant de son temps pour porter à conscience l’épreuve. Rester à côté et être fidèle aux pourparlers vaut plus que de nombreuses déclarations de solidarité.

5. Favoriser l’émergence de la vérité des faits

Et cela, tant dans leur caractère concret que dans leurs réflexes émotifs et fantastiques. Ici aussi, il y aura une résistance considérable non seulement chez l’accompagné, mais aussi chez l’accompagnateur, quand, par exemple, il glisse immédiatement dans le terrain plus rassurant de la solution et des conseils. L’émergence de la vérité des faits demandera du temps, de la patience et, parfois, la ruse d’utiliser aussi quelques techniques paradoxales comme, par exemple, celle de supposer qu’un problème est déjà surmonté et résolu pour obtenir une déclaration plus claire des faits et d’une certaine condition existentielle. Ne pas pouvoir s’exprimer devant l’accompagnateur est une façon de ne pas se dire à soi-même le poids de ce qui s’est passé et de sauter immédiatement vers la solution qui défend contre la compréhension de ce qui s’est passé. Même si la solution n’existe pas, le fait d’avoir enfin réussi à se dire la vérité aide à supporter avec plus de maturité la crise elle-même et à rééquilibrer le narcissisme inné du moi.

6. Approfondir l’intimité avec soi-même et la conscience des vécus

Ce résultat est décisif pour reprendre la seigneurie de sa propre vie et l’accompagnateur peut le favoriser avec quelques questions : quand il sera nécessaire de créer un espace de responsabilité personnelle plus grand et une moindre dépendance du partenaire, demander de ne pas parler à d’autres de ce qui émerge dans les entretiens (ce qui se fait habituellement dans le but inconscient d’éviter ou de décharger la tension de l’élaboration méditative du problème); lorsque les deux personnes impliquées dans une relation se cachent mutuellement la profondeur et la portée réaliste de ce qui se passe entre elles, demander d’aborder ouvertement la question avec le partenaire; quand vous serez en présence d’actes compulsifs qui semblent incontrôlables et non modifiables, demander de prendre conscience de ce que l’on ressent, de ce que l’on veut vraiment, en s’engageant à penser à ce que l’on fait, plutôt que d’interdire, car cette opération libérera progressivement la personne de la passivité et du déterminisme.

7. Réactiver la responsabilité dans la gradualité

Quand on considère les responsabilités objectives et les valeurs transgressées et à récupérer, il sera important de demander et d’observer ce que la personne, jeune ou adulte, se sent responsable de se proposer et de ne pas se proposer (sauf dans les cas qui portent préjudices sur soi et ou sur d’autres personnes et dans lesquels il faut interdire nettement l’action pour ensuite, en second lieu, en comprendre les raisons). Afin de réactiver la responsabilité de ce qui se fait, l’accompagnateur décide du délai à respecter (y compris par téléphone) par la personne concernée, si et dans quel contexte il est utile qu’elle revoie la personne avec laquelle elle a une relation problématique, quels pas faire vers une personne avec qui on est en conflit, quels rythmes de la vie spirituelle on peut toujours respecter, comment réussir encore à prier malgré les forces des émotions qui souvent l’obscurcissent...

8. Ouvrir une lutte plus profonde

Cela veut dire donner voix aux parties du conflit intérieur qui n’apparaissent pas immédiatement lors d’une première lecture. Il s’agit souvent de frustrations affectives liées à des idéaux désirés et cultivés comme décisifs pour sa propre identité : la frustration (problème psychologique) est ressentie et consciente, la problématique des idéaux (problème spirituel) est ressentie mais reste en dehors de la conscience. La même opération d’élargissement sera à faire quand une épreuve affective se refermerait trop facilement sous le signe des idéaux ou d’une demande externe de dépassement de la crise. Il y aura, même dans ces cas, à réactiver une lutte plus profonde qu’on ne peut certes pas étancher à bas prix, sinon tôt ou tard il se réveillera soudainement et impulsivement.

9. Passer de la crise à l’épreuve

Nous avons utilisé le vocabulaire de l’épreuve et de la crise de manière indifférente, mais nous savons bien que nous nous déplaçons sur deux horizons de signification différents. Ce sera la tâche de l’accompagnement de passer de la crise (problème existentiel ou psychologique) à l’épreuve (problématique spirituelle ou religieuse). Il n’est pas évident qu’une crise affective soit vécue comme une épreuve. Il y a ceux qui vivent la crise depuis le début comme épreuve, mais le contraire se produit peut-être plus fréquemment. Vivre une crise comme épreuve, en transformant (mais pas en camouflant !) une lutte psychologique en une lutte spirituelle, voudra dire tenir compte non seulement des deux éléments en tension (les capacités du sujet et la problématique de la situation), mais aussi le troisième élément qui est la révélation : «quel sens a ce que je vis dans la logique de la confiance au Seigneur?» , «quelles significations de vie la situation de crise met-elle à l’épreuve?». Dans ce contexte peut mûrir un sentiment de culpabilité qui dispose à un vrai repentir, à la contrition et à l’humilité.

10. Apprendre de l’épreuve

Traverser l’épreuve peut vraiment changer la personne aussi parce que la personne entre en contact plus profond avec elle-même, avec l’autre et avec Dieu. Non pas par ouï-dire, mais parce que quelque chose s’est rompu en elle et quelque chose est né : la qualité des relations a changé et change, la capacité d’empathie et la disposition à cette compassion qui est un don de l’Esprit de Jésus. En effet, dans l’épreuve, on apprend quelque chose de nouveau : «Qu’ai-je appris?». Même le Fils de l’homme a appris l’obéissance des choses qu’il a endurées (Hébreux 5,7-10) : peut-être qu’il a lui aussi compris plus radicalement qui était le Père et quel était son service de salut et sa propre identité! A la fin, il restera quelques blessures, quelques faiblesses ou vulnérabilités à porter comme mémoire de la lutte et de la grâce (Gn 32, 23-33).

L’épreuve met aussi à l’épreuve celui qui accompagne. Lui aussi se voit obligé de retravailler ses expériences personnelles et de garder sous contrôle la qualité de son aide et de se mettre en relation (transfert et contre-transfert). Pour un croyant, cela signifie aussi prier en mettant ce qui se passe sous le regard du Seigneur. Un de mes maîtres m’a appris que la force du transfert et du contre-transfert doit certainement être reconnue, mais dans certains cas plus difficiles, on ne peut vaincre qu’avec les genoux, dans l’espace d’une affection vraiment forte et souvent non exprimée.

Enrico Parolari

Un prêtre et un thérapeute
Seminario Arcivescovile di Milano.


Living through trials with sincerity of heart

Educators at work

Every trial and difficulty of life are accompanied by strong affective connotations. There is the torment of celibacy or promised but transgressed virginity (in one's own interiority or in involvement with other people, in a heterosexual or homosexual area), the tears of mourning (for a separation, a departure, the loss of a friendship, the death of a significant figure ...), the disappointment of love (in the crises of the couple or in the forms of betrayal acted or suffered). Not all of these and other affective connotations help to go through the test well. Some reactions harden the heart, others make it more magnanimous. Some are spontaneous and automatic reactions (usually those less in favor of a positive solution to the test). Others are the result of an awareness of the ongoing trial and favored by those who accompany us in trials with respect and love.

I learned the ten rules that follow from those who guided me, from those who supervised me, from colleagues and friends with whom I spoke, but above all from the mistakes I made, given that helping people experience difficulties with positive feelings is not it's really easy, but it also seriously questions those who help.

1. Don't censor evidence

Visible or silent, each trial is always inevitable and transforming. To prevent it from becoming a stumbling block, those who accompany should avoid two wrong approaches: legalizing the crisis ("definitive choices are not possible", "instability is the rule", "in life you change" ...) and demonizing crisis (the crisis as the beginning of the end). Both mentalities suffocate the experience of crisis as an opportunity for the expansion of desire.

2. To welcome without colluding

It means listening and welcoming without being scandalized or accomplices, absorbing the feelings that emerge but not being dominated by them. Understanding does not mean justifying, taking sides with one person or lashing out against another, contesting Christian morality on one point or another, or naively trusting that one has the same problem…

3. Accept your own uselessness

Accompanying the crisis means entering a context where even the most fundamental and primitive affective forces of a person's history are reactivated, so it is like working against the current in a torrent. The companion must accept his own inefficacy, dispose himself to patience and free himself from the extremely risky syndrome of the savior so present in religious guides.

4. Allow time to go through the test

It takes time even if there is a rush to conclude and we are under the illusion of having already understood everything as if we had received a new revelation (think of the optical illusions of falling in love). In his verbal and non-verbal messages, the person accompanying him will have to give the idea that it will take time even if to the heart of the sufferer it will almost always seem infinite, just as he will have to give a regular rhythm to the meetings, offering his time to bring to awareness the trial. Being close and fidelity to the talks is worth more than many declarations of solidarity.

5. Promote the emergence of the truth of the facts

And this, both in their concreteness and in their emotional and fantastic reflections. Here too there will be considerable resistance not only in being accompanied, but also in guiding, when, for example, one immediately slips away into the more reassuring terrain of solutions and advice. The emergence of the truth of the facts will require time, patience and, at times, the cleverness to also use some paradoxical techniques such as, for example, that of assuming that a problem has already been overcome and solved in order to obtain a clearer statement of the facts and a certain existential condition. Not being able to tell the guide is a way of not even telling oneself the weight of what happened and immediately jumping towards the solution defends the understanding of what happened. Even when there is no solution, being able to finally tell the truth helps to bear the crisis itself with more maturity and to rebalance the innate narcissism of the ego.

6. Deepen greater intimacy with oneself and awareness of experiences

This outcome is decisive for regaining lordship over one's life, and the companion can facilitate this with certain requests: when it will be necessary to create a space of greater personal responsibility and less dependence on the partner, ask not to talk to others about what emerges in the interviews (which, instead, is usually done with the unconscious purpose of avoiding or discharging the tension of meditative processing of the problem); when the two people involved in a relationship hide from each other the depth and realistic scope of what is happening between them, ask to openly address the issue with the partner; when you will be in the presence of compulsive acts that seem uncontrollable and unchangeable, ask to become aware of what you are feeling, really want, engaging in thinking about what you are doing, rather than forbidding, because this will progressively free the person from passivity and determinism.

7. Reactivate responsibility in gradualness

When considering the objective responsibilities and values transgressed and to be recovered, it will be important to ask and observe what the person, whether young or adult, feels responsibly able to propose and not propose (except in cases that have a detrimental significance to self and or others in which it is necessary to prohibit the action outright and then, in the second instance, to understand the reasons for it). In order to reactivate accountability, the companion determines the terms to get in touch (even by telephone) with the person concerned, whether and in what context it is useful for that person to see again the person with whom he or she has a problematic relationship, what steps to take toward a person with whom one is in conflict, what rhythms of spiritual life one can still respect, how to still be able to pray despite the pressure of emotions that often obscure it…

8. Open a deeper struggle

This means giving voice to those parts of the inner conflict that do not immediately emerge on a first reading. Often these are affective frustrations related to ideals desired and cultivated as decisive for one's identity: the frustration (psychological problem) is felt and conscious, the issue about ideals (spiritual problem) is felt but remains out of awareness. The same broadening operation will be to be done when an affective trial closes too easily under the sign of ideals or an external demand to overcome the crisis. Such cases will call for a deeper re-engagement in the struggle since that can hardly be tamped down on the cheap, or else sooner or later it will suddenly and impulsively awaken.

9. Moving from crisis to evidence

We have used the vocabulary of trial and crisis indifferently, but we are well aware that we are moving on two different horizons of meaning. It will be the task of accompaniment to move from crisis (existential or psychological problem) to trial (spiritual or religious problem). It is not taken for granted that an affective crisis is experienced as a trial. There are those who live the crisis as a trial from the beginning, but perhaps the opposite happens more frequently. To live a crisis as a trial, transforming (but not disguising!) a psychological struggle into a spiritual one, will mean keeping in mind not only the two elements in tension (the subject's abilities and the problematic nature of the situation), but also the third element, which is revelation: "what sense does what I am living have in the logic of reliance on the Lord?", "what meanings of life is the crisis situation putting to the test?" In this context a sense of guilt can mature that disposes one to true repentance, contrition and humility

10. Learning from the trial

Going through the trial can also truly change a person because the person comes into deeper contact with himself, with each other and with God. Not by hearsay, but because in her something is broken and something is born: the quality of relationships, the capacity for empathy and the disposition to that compassion that is a gift of the Spirit of Jesus has changed and is changing. Indeed in the trial something new is learned: "What have I learned?" The Son of Man also learned obedience from the things he suffered (Heb 5:7-10): perhaps he too understood more radically who the Father was and what his salvation service and identity was! In the end, there will remain some wounds, some weakness or vulnerability to carry as a memory of struggle and grace (Gen 32:23-33).

The trial also tests the one who accompanies. He, too, is compelled to re-frame his personal experiences and to keep an eye on the quality of his helping and relating (transference and counter-transference). For a believer it also means praying by putting what is happening under the Lord's gaze. One of my teachers taught me that the strength of transference and counter-transference should certainly be acknowledged, but in some of the more difficult cases it can only be overcome with knees, in the space of really strong and many times unspoken affection.

Enrico Parolari 
Priest and psychotherapist. 
Archdiocesan Seminary of Milan.

Enrico Parolari
08 maio 2023
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