Riflessioni di un confratello anziano
Sollecitato a mettere per iscritto le mie attese riguardo al prossimo Capitolo generale, per qualche tempo ho resistito perché non mi pareva d’aver nulla di serio da dire. Ma riflettendoci poi, per senso di responsabilità, ho deciso di rispondere alla nuova sollecitazione giuntami qualche giorno fa. Alla domanda postami, che riporto nel titolo di questo intervento, sono stato tentato di rispondere sbrigativamente che “mi attendevo niente e … tutto”. Mi spiego.
1. Non mi aspetto molto: infatti, sarebbe esagerato dire che “non mi aspetto niente”. Ma è un fatto che l’aria che tira in questi tempi insieme con la cultura del momento toglie o comunque riduce la voglia di riflettere e toglie la voglia di pensare in grande e/o al futuro. Il nostro tempo è pieno di novità, che nel loro rapido succedersi non riescono a sedimentare e finiscono per oscurare i possibili spazi di riflessione. Devo anche aggiungere che non ho più molta voglia di mettermi a riflettere sulla missione, non perché pensionato, ma perché non mi pare di aver nulla o quasi di significativo da comunicare.
Leggendo la scheda n. 1, ho avuto l’impressione che “tutto sia già stato fatto” e che resti poco spazio per progettare un possibile sviluppo futuro. Inoltre, standomene al margine, ho l’impressione che il nostro Istituto stia passando per un tempo di stanchezza e di appiattimento. E la stessa missione ad gentes mi pare ripiegata su sé stessa, fino a farmi chiedere se noi missionari di professione abbiamo ancora un futuro. Del resto, le vocazioni missionarie nel mondo occidentale sono così rare che il futuro è forzatamente messo in questione. Eppure, le vocazioni ci sono e vengono dalle giovani chiese nate dalla nostra attività missionaria. Sì, è vero, ci sono, ma esse non sono forse motivate dalle stesse ragioni che hanno motivato anche le nostre fino a 30 o 40 anni fa? E non saranno soggette alla stessa crisi per la quale siamo passati anche noi?
Davanti a questi interrogativi che rimangono per me senza risposta, vado avanti stringendo i denti e, convinto come sono di aver poco tempo da vivere, prego che almeno i miei confratelli riescano a trovare convinzioni, ragioni e strade che io ora non riesco a vedere. Sarà perché vivo ritirato (dopo molta esposizione in passato!), oppure sarà conseguenza dell’età e dei suoi limiti o della particolare collocazione e composizione della comunità in cui vivo, il fatto è che mi è difficile credere al futuro della nostra Congregazione. Tutto questo per dire che non mi aspetto molto dal XVIII Capitolo generale, anche se prego per il suo buon esito: noblesse oblige!
2. Ma proprio perché ho poche attese, paradossalmente mi aspetto … tutto, ossia molto. Anche il XVIII Capitolo generale, come diceva il compianto Card. Eduardo Pironio, è un “evento familiare, ecclesiale e pasquale” che si celebra per rinnovare non la missione né il carisma, ma il nostro modo di essere missionari, l’essenziale della nostra vocazione. Questo ci dovrebbe liberare da alcune sovrastrutture di tipo teologico, ideologico e storico, che vengono dal passato, che rischiano di ostacolare la coerenza tra quello che professiamo di essere e quello che di fatto siamo e viviamo. Non è forse questo un impegno di sempre, di tutti e ovunque? Sì, è così. Ma oggi la transizione epocale, le proposte di Papa Francesco, il momento ecclesiale e mondiale richiedono questa operazione di rinnovamento in modo nuovo e urgente. La missione ad gentes deve elaborare nuove forme per essere pronti al futuro, fedeli a Gesù Cristo, a noi stessi e al mondo. Oggi dobbiamo perseguire una missione che sia trasparente nelle motivazioni, nella sua origine e nella sua forma spirituale ed evangelica, nei metodi e nei mezzi.
“Siamo gli ultimi missionari?” Questo era il titolo della settimana culturale saveriana dello scorso giugno 2022. Potrebbe sembrare una domanda retorica oppure solo provocatoria, ma non è così. Ma se non vogliamo essere davvero gli ultimi esponenti della missione ad gentes, dobbiamo cercare di rinnovarci nella maniera di essere missionari. Il nostro futuro non sarà garantito da un’operazione di cosmesi esteriore che ripulisca le strutture, né da un’ulteriore estensione geografica e culturale, meno ancora da una autocelebrazione del tipo “festival della missione” e nemmeno dalla tendenza narcisistica di pensare che siamo i veri o gli unici protagonisti della missione. Il futuro della missione e dei missionari sarà invece nella ricerca e promozione della verità e soprattutto dell’autenticità della nostra vita di missionari, di persone inviate da Gesù Cristo, da lui dipendenti e a lui obbedienti (nel senso etimologico della parola).
Il Capitolo lasci il terreno della ripetizione retorica della nostra identità, del carisma saveriano - che non è nostro, ma della Chiesa - per verificare se i valori che il nostro Padre e Fondatore ci ha lasciato siano davvero una realtà vissuta. E prima di tutto se viviamo davvero, come individui e come comunità, quella che noi chiamiamo la nostra identità nelle sue dimensioni umana, spirituale, evangelica e missionaria.
3. Questo richiede che concentriamo il nostro sguardo sul Signore crocifisso e risorto, che verifichiamo se lo seguiamo, se cioè ci preoccupiamo di amarlo e di osservare la sua parola (cf. Gv 14,23), di seguirlo nella kenosis dell’incarnazione e nel mistero della croce. Se noi vogliamo aver un futuro, forse bisogna ora accettare l’umiltà del Signore, l’insignificanza e il silenzio senza escludere anche la persecuzione, senza pretendere che tutti applaudano a noi come avviene ancora oggi. La prima preoccupazione e l’obiettivo della formazione saveriana deve essere la conformazione a Gesù (cf. Fil 2,5; Rm 8,29; 12,2; Ef 4,23), la nostra trasfigurazione in Lui che dobbiamo mostrare, annunciare e amare. Ricordiamo quello che il Papa continua a ricordare ai missionari: cioè che la Chiesa e la missione crescono non per proselitismo ma per attrazione, per la qualità cioè della nostra vita cristiana, della nostra configurazione a Cristo; che non esistiamo per allargare i confini della Chiesa, ma per essere segni e annuncio del regno di Dio già all’opera. Siamo davvero profezia del regno di Dio? Il regno di Dio ha il primato nella nostra vita? Il resto… viene dopo ed è di contorno (cf. Mt 6,33).
In questa linea di verità domandiamoci: perché la gioventù oggi – almeno nei nostri ambienti occidentali - non abbocca più alla nostra proposta missionaria? Perché tanti giovani confratelli ci lasciano prima dell’impegno definitivo? Non lasciamoci zittire dalle statistiche e dalle risposte della sociologia religiosa a proposito delle famiglie con il figlio unico, della crisi demografica, dell’attuale situazione della gioventù o della nequizia dei tempi. Senza negare anche queste motivazioni, sappiamo che la vera spiegazione sta altrove: è la nostra incapacità di offrire un modello cristiano e di missionario che sia affascinante, coerente con le scelte evangeliche e in particolare con la conclamata scelta dei poveri che poi vogliamo far coesistere con stili di vita incompatibili.
La forza della testimonianza della nostra vita consacrata e della vita comune sta nella passione per Gesù e per la sua missione, sta in una vita distaccata dal potere e dalle ricchezze di questo mondo, sta soprattutto nella verità delle nostre scelte spirituali (i voti e la vita comune) e nella pratica di un’autentica fraternità. La forza che attrae non sta nelle cose che offriamo ai possibili candidati, ma in quello che siamo, nella verità della nostra vita.
4. C’è oggi anche il dovere di cercare nuove figure o forme della missione che devono essere promosse ed eventualmente verificate dal Capitolo. Quale è il modello della missione ad gentes oggi? Dove la possiamo o come la dobbiamo attuare? Possiamo tentare la risposta in negativo: non è certamente il modello della missione coloniale fondata sul complesso di superiorità culturale, della missione ricca di mezzi economici e finanziari; e neppure il modello della missione di conquista e di espansione geografica, non è neppure solo la plantatio ecclesiae ciò che giustifica e misura la missione. È invece il modello della missione della presenza fraterna, della prossimità cordiale, del dialogo sincero, della condivisione della fede e della ricerca di Dio. Passaggio oggi obbligato anche se difficile che non appaga il nostro amor proprio e quindi non riempie la nostra vita come il fare e disfare tipico della missione e dei missionari dei tempi passati, dei miei tempi.
Per dirla tutta in poche parole: quello che mi attendo dal Capitolo non è un programma di rilancio o ripartenza o riposizionamento, termini che parlano di una novità da applicare al vecchio oppure di un aggiustamento della direzione del cammino. Mi aspetto invece una decisione non solo teorica ma pratica di vivere più pienamente la sequela, una vita che sia trasparenza del Vangelo. Questa è l’intuizione del nostro Fondatore: preparare dei missionari che siano un vangelo vivente e, hopefully, vissuto. È quindi impegno urgente del Capitolo rifare non il look dell’Istituto, non occuparci principalmente discutere di case e di opere, di chiusure e aperture, ma cercare e proporre dei cammini di rinnovamento o di conversione (metanoia come cambiamento di mentalità) personale e comunitaria e che ci renda veri discepoli di Gesù, capaci di irradiazione e di attrazione, liberi perché poveri di potere e ricchi invece di fede, speranza e amore, impegnati a continuare fino all’ultimo giorno nella ricerca del Signore per rispondergli con generosità.
Non serve – certamente non mi aspetto – un bel documento, ma una équipe di confratelli che si faccia presente tra i confratelli, che risponda ai loro bisogni di animazione e di stimolo per aiutarli a crescere nell’ascolto del Signore e nell’obbedienza allo Spirito, che sproni alla qualità evangelica della nostra identità, sulla trasfigurazione in Cristo che dobbiamo ricercare per essere davvero il volto evangelizzatore, affascinante di Gesù del Vangelo.
5. Una altra attesa è che il Capitolo porti a compimento quanto possibile il passaggio da un istituto monoculturale a un istituto interculturale, sia a livello personale che comunitario: infatti la qualità delle nostre comunità è un elemento di evangelizzazione di primo ordine proprio in questo tempo. Ho l’impressione che il processo di internazionalizzazione e di interculturalità - che ormai è in corso almeno dal 1985 - non sia stato realizzato che parzialmente. Le diverse culture che sono entrate nella nostra comunità non hanno ancora arricchito con i loro doni il nostro vissuto missionario.
È un dato di fatto - che va ulteriormente perseguito - che quasi ovunque abbiamo costituito delle comunità saveriane multiculturali, ma non si può negare che facciamo ancora fatica a vivere insieme e che tendiamo, o almeno tenderemmo, a formare gruppi culturalmente più omogenei. Così è noto che troppi confratelli chiedono di rientrare dalla missione o addirittura di rimanere con diversi pretesti nella loro terra d’origine; che stanno crescendo certe spinte nazionalistiche e che si sentano forme di contrapposizione e, infine, comportamenti non adeguati nel campo della povertà, del distacco dal denaro, nel dovere di rendere conto alla comunità delle proprie cose … che vengono giustificati con l’affermazione “perché questa è la nostra cultura”, con abusi che vengono lasciati correre per paura di ferire chi è di una nazionalità o cultura diversa da quella del superiore. Non posso dimenticare un discorso fatto a me personalmente e con le lagrime agli occhi dal compianto p. Luigi Menegazzo dopo una serie di visite fatte nelle nostre circoscrizioni di formazione e missione poco tempo prima della sua morte. Ho saputo che ne ha poi parlato con tutta onestà ad un raduno di formatori saveriani a Roma. Queste mie parole non vogliono offendere nessuno né mettere in discussione il bisogno di proseguire sulla strada della interculturalità.
6. Per concludere questa lunga chiacchierata, dichiaro di rendermi conto che sono più che consapevole che qualcuno, leggendo queste righe, potrebbe dire che sono esagerate e pessimiste. Rispetto volentieri l’opinione di chi dissente dalle mie analisi, ma il mio desiderio è che il XVIII Capitolo generale rifletta su questo momento della Congregazione saveriana, che non si accontenti di ripetere o di scrivere delle pie esortazioni o magari faccia delle norme destinate a rimanere sul tavolo delle comunità. Si noterà che non ho toccato il campo della formazione, perché questo è un tema delicato che è stato toccato nelle riunioni continentali dedicate a questo argomento[1]. Ma vorrei che il Capitolo abbandonasse la retorica e lo spiritualismo per guardare davvero alla realtà e dare all’Istituto una direzione generale che sia una équipe di confratelli scelti non per rappresentanza di culture, ma per capacità di animazione affinché l’Istituto sia fedele alla sua missione carismatica. E ricordiamo che ciò di cui c’è bisogno non è un aumento di numero, ma di qualità.
Tavernerio, novembre 2022.
Gabriele Ferrari s.x.
[1] Sul tema della formazione, mi è stato chiesto dalla nostra Direzione generale di presentare il mio punto di vista sulla formazione qualche tempo fa, in occasione del Convegno Internazionale sulla Formazione di Base, convegno che fu poi cancellato a causa del Covid. Il mio intervento, tradotto in cinque lingue, e dal titolo “Di quale saveriano ha bisogno la Chiesa d’oggi?” può essere letto sul sito della D.G. a questo link
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