Accanto alla sofferenza per trovare il “Dio con noi”
«A differenza di tanti altri che se ne sono andati, noi abbiamo scelto di restare, pur nel dilagare della pandemia, in una situazione non facile da gestire. Se non fosse stato così, quel nostro definirci medici “con” l’Africa, piuttosto che “per”, sarebbe stato intimamente tradito». Don Dante Carraro, padovano, classe 1958, è medico cardiologo e da trent’anni sacerdote. Dal 1994 è al Cuamm, il Collegio universitario aspiranti e medici missionari, una delle più grandi organizzazioni non governative sanitarie italiane per la promozione e la tutela della salute delle popolazioni africane, di cui è direttore generale dal 2008. È autore del libro Quello che possiamo imparare in Africa – La salute come bene comune (scritto insieme a Paolo Di Paolo, Editori Laterza). Lo incontriamo nel suo studio, a Padova, mentre è rientrato in Italia per qualche settimana.
In quel “con” l’Africa c’è tutto il senso del vostro essere
Dire “con” significa dire: anzitutto voglio stare con te, perché sei una ricchezza in quanto tale, anche se povera, umiliata, sofferente. Se fosse “per” sarebbe un approccio sbagliato. Come se arrivasse il bravo e capace a sistemare le cose, considerandosi migliore degli altri. Invece si deve partire dal condividere un pezzo di vita, per costruire insieme e per crescere reciprocamente. Noi diciamo che «quando s’inizia si sta»: si resta quando le cose vanno bene e quando vanno male. È una condivisione umana, esistenziale, valoriale. Io non so se esista il mal d’Africa, so che da lì si torna arricchiti.
Qual è stato l’impatto del covid in Africa?
La pandemia ha determinato soprattutto paura. Il pensiero è stato: se il virus ha fatto quel che ha fatto in Occidente, con i sistemi sanitari all’avanguardia, da noi sarà una strage. La paura ha allontanato la gente dai servizi: nei ventitré ospedali degli otto Paesi dove operiamo c’è stato un calo del 25 per cento degli accessi. Si pensi a tante donne che hanno partorito a casa da sole: una maternità non seguita è molto rischiosa. O ai bambini malnutriti che non sono stati più visitati. O, ancora, ai malati cronici di hiv, diabete, tubercolosi: tutte morti bianche. E poi c’è stato l’impatto economico, con un calo drastico del reddito medio delle persone. Se prima del covid erano centocinquanta milioni gli africani che vivevano in estrema povertà, con meno di due dollari al giorno, ora la previsione è il raddoppio a trecento milioni su un miliardo e trecento milioni di persone in totale.
Perché il Cuamm ha deciso di restare?
Noi siamo nati ispirandoci alla Parola: «Andate e curate gli infermi» e «Mi sarete testimoni fino ai confini della terra». Andare, prima di tutto. Se non si va, non si capiscono le realtà e le diseguaglianze gravi che dividono quella gente dal nostro mondo. L’invito di Gesù è illuminante. Finora oltre duemila volontari sono partiti per fermarsi tre-quattro anni ciascuno. Moltiplicando questi numeri, sono oltre seimila gli anni di vita donati all’Africa. Lì c’è il “con” del Dio con noi, l’Emmanuele. Ci siamo ripetuti: non si scappa come hanno fatto tante altre organizzazioni. Quel “con” è espressione di un patto di alleanza. Una coppia di volontari mi ha detto: la nostra vita è qui, vuoi che andiamo via proprio ora che hanno bisogno?
Nell’emergenza sanitaria il rischio è la diseguaglianza vaccinale
Finora sono stati distribuiti oltre sei miliardi di vaccini in tutto il pianeta, ma il 75 per cento è andato ai Paesi più ricchi. Il rischio è un apartheid vaccinale che discrimina gli Stati poveri da quelli ricchi. E questo, oltre che ingiusto, è poco intelligente. Se non garantiremo la copertura vaccinale anche in Africa, il virus si replicherà e le varianti attaccheranno la salute di tutti.
Voi parlate di “salute globale”: come insegna il Papa, siamo tutti sulla stessa barca, non ci si salva da soli
Il Santo Padre ha parlato da subito della condivisione dei brevetti e ha fatto bene. Prima del covid, il 99 per cento dei vaccini che somministravamo per le altre malattie arrivava da fuori. L’Africa deve poter arrivare a produrre da sé il vaccino, con i necessari investimenti nelle tecnologie e nella formazione dei professionisti locali. Noi su questo siamo impegnati. Quest’anno, per esempio, abbiamo pubblicato trentasette studi di ricerca in riviste specializzate firmati da diversi autori locali.
Cosa significa per voi fare e promuovere cooperazione internazionale?
Vuol dire sporcarsi le mani in quell’ultimo miglio degli ospedali in cui siamo presenti, tra la gente che soffre, dentro i problemi concreti di tutti i giorni. Altrimenti è solo una discussione accademica. Se s’imposta un approccio “dall’alto al basso” non funziona. Bisogna avere la capacità di entrare tra le persone e sul territorio. E, poi, oltre alla parte più operativa, vuol dire promuovere un modello culturale: non è pensabile, per oggi e per il futuro, proteggersi dalle malattie costruendo dei muri. Il covid è clamorosamente democratico, colpisce tutti. Solo se resteremo uniti potremo vincerlo.
Dalle pagine del libro traspare un po’ di fastidio per l’espressione tanto di moda “aiutarli a casa loro”
Mi disturba se è usata in modo offensivo o peggio ancora sarcastico. Io dico: magari fosse vero e magari tutti lavorassero per questo! Tanti giovani africani ci chiedono di essere aiutati a trovare la loro dignità personale e professionale. E sono molto orgogliosi di poter fare qualcosa per la loro nazione quando si laureano, magari in ostetricia, in zone dove c’è una sola ostetrica ogni ventimila abitanti! Ha ragione Angela Merkel quando sostiene che per l’Africa ci vuole un “piano Marshall”: sì, sono d’accordo, facciamolo, però ancora non vedo il coraggio necessario.
L’Africa è un pugno allo stomaco per l’Europa: cosa ci insegna soprattutto in questo momento storico?
Ci insegna che per il futuro abbiamo bisogno gli uni degli altri. Io credo che il sogno del buon Dio sia la liberazione di questa gente dai vincoli di schiavitù e dalle sofferenze cui è sottoposta. È il sogno di un continente verticale, per dirla con le parole del presidente Sergio Mattarella: un unico continente con mezzo miliardo di abitanti al nord e un altro miliardo e trecento milioni al sud, separati da quel “laghetto” che è il mar Mediterraneo. La sfida è costruire il futuro insieme.
Questa intervista, a cura di Alvise Sperandio, è stata pubblicata nella edizione cartacea de “L’Osservatore Romano”, del 29 dicembre 2021.
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