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Farsi curare dai malati

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In occasione della XXX Giornata del malato, volentieri pubblichiamo questa riflessione del nostro confratello, Dott. Gildo Coperchio. È stata condivisa il 3 febbraio 2022 durante la messa del GAMS (Gruppo amici dei Missionari Saveriani), a Parma, nel santuario San Guido M. Conforti. Come spiega lo stesso autore, “sono considerazioni nate sul campo di battaglia, o meglio di missione, soprattutto quando, uscito dal Fatima Hospital (a Jessore, ndr), ho trovato ospitalità nella missione di Chuknagar, ritrovandomi così ad essere un medico di villaggio”.

Parma, giovedì 3 febbraio 2022
Letture: 1Re 2,1-4.10-12; Mc 6,7-13

“I giorni di Davide si erano avvicinati alla MORTE”.

L’inizio della prima lettura mi ha riportato indietro al lontano 2008 quando avevo lasciato il Bangladesh per iniziare il mio impegno, qui nella Casa Madre, al IV piano. La morte di Davide richiama la MORTE con la M maiuscola: un argomento scottante, mitigato dalle ultime righe della lettura: Davide si addormentò con i suoi padri.

gildo Farsi curare dai malati

Poco prima di tornare dal Bangladesh, mi domandavo che cosa potessero pensare della morte i confratelli ammalati, anziani che avrei incontrato al IV piano. Un piano che aveva la fama di essere “la porta del Paradiso”.

Era il periodo in cui, in linea con il pensiero cosiddetto moderno, della morte quasi non si voleva parlare, anzi non si doveva parlare, doveva essere tenuta lontano dalla mente, dal cuore, dal pensiero…  La morte fa paura. Si cerca, così, di esiliarla nell’oblio.

Eppure, quando un giorno con il P. Pellerzi avevo pronunciato sommessamente la parola ‘morte’, mi aveva ringraziato di averlo fatto. Così non mi meravigliai quando, un mattino di Gennaio del 2009, in cappella Martiri, dopo il versetto introduttivo della preghiera delle lodi, si era accasciato su una sedia “amorevolmente abbracciato dalla morte” nella sorpresa, incredulità, e direi anche invidia dei confratelli che erano presenti. O Dio vieni a salvarmi. Signore vieni presto in mio aiuto, aveva appena pregato.  E il suo Signore era venuto.

Dal testo del Vangelo, vi propongo il versetto finale: Ed essi, gli apostoli, partiti proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano demoni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano. Convertirsi, “a” o “da che cosa?”  Leggevo molto tempo fa che non c’è guarigione senza conversione. Che sia questa la conversione proclamata dagli apostoli?

Non so dirvi se, essendo medico, il mio operare sia stato guidato da questo sapore evangelico; avevo letto tante volte nel Vangelo del Cristo che camminava per le strade della Galilea annunciando il Regno di Dio… con le sue parole di consolazione, di promessa, di speranza e con le sue opere, soprattutto con la guarigione dei malati.

Mi nasce così spontanea la domanda: come è stata e come è oggi la nostra missione?  Come annunciamo noi il Regno di Dio?

Troppo spesso pensiamo di essere noi i salvatori del mondo... pensiamo di avere la parola magica, gli interventi più appropriati e dimentichiamo in questo modo che ciò che più conta è il non cedere alla tentazione del fare cose grandiose ad ogni costo. Una attività che ci assorbe al punto di non aver più tempo nelle nostre giornate per fare ciò che leggiamo di Gesù nel Vangelo di Marco: abbracciare i bambini (Mc 9,36; 10,16), toccare le lingue dei sordomuti (Mc 7,33), mettere la saliva sugli occhi dei ciechi (Mc 8,22); provare simpatia (Mc 10,21), delusione (Mc 10,23), incoraggiamento (Mc 10,27).  Ovviamente non siamo super-uomini, abbiamo dei limiti: non riusciamo a fare miracoli, e quando ci riusciamo è solo quando ci crediamo veramente (Mc 6,5); non conosciamo che cosa ci aspetta; e a volte gridiamo pieni di paura sentendoci abbandonati: "Dio mio, Dio mio".

Eppure questo è il Vangelo. E così capita che nel momento in cui accettiamo di ungere con olio gli infermi e questi guariscono, noi stessi, increduli, ce ne meravigliamo.

Come Cristo, anche noi siamo chiamati ad amare (Mc. 9, 36; 10, 16; 10, 21-22) e a soffrire non solo fisicamente ma anche moralmente (Mc. 14, 32-42). Siamo chiamati ad aprirci a tutti, anche alle persone che, umanamente parlando, non meritano come i peccatori e i pubblicani, i lebbrosi (Mc. 2, 15), come quelli che ci guardano con disprezzo, che ci sfruttano, che parlano male di noi, che ci perseguitano. Come Gesù siamo chiamati ad ammaestrare (Mc. 10,1) alla vera speranza, alla vera fede, al vero amore…, alla serenità.

Devo confessare che in Bangladesh ho imparato a leggere le pagine del Vangelo sui volti della gente che incontravo negli ambulatori, sui pullman, per le strade, nelle lunghe file di pazienti che mi aspettavano nel villaggio.  In molti mi facevano domande, ma che cosa potevo insegnare? Cosa potevo dare oltre alle medicine e a qualche moneta?

Ho scoperto con fatica che per rispondere, per ammaestrare, dovevo convincermi davvero che la cosa più importante era continuare a sedermi sugli scalini di un bungalow per ascoltare con pazienza e serenità, senza fretta coloro che cercandomi volevano da me una guarigione miracolosa, la certezza di un figlio che aspettavano da anni, la sicurezza che per il bimbo che stava per nascere non ci sarebbero stati problemi, una soluzione ai tanti infiniti problemi di una vita giocata per la sopravvivenza (“oggi mia madre non ha fatto il mercato”…).

I miei pazienti mi ripetevano ciò che tante volte avevo letto nel Vangelo: fa che io veda...; se tu vuoi, mio figlio, mia figlia guarirà...; se tu mi tocchi io sarò guarito. Sì, è successo anche a me che qualcuno prendesse la mia mano perché lo toccassi. In quei momenti ti senti piccolo, piccolo. Solo così ho cominciato a capire il Vangelo, ho cominciato a sentirne il sapore come di qualcosa che si conosce perché lo si sta vivendo.

E non importa se in tutto questo rimangono i dubbi, le difficoltà, i continui e mai conclusi tentativi per una vita che non sia mascherata da troppe belle parole, finalmente libera dal frutto delle passioni come il desiderio, la paura, l'insicurezza, l'ingordigia, l'orgoglio, la vanità. La missione è questo cammino; il Vangelo era ed è ancora oggi scomodo, scomodo non tanto per coloro a cui lo annunciamo quanto per noi che ne siamo gli annunciatori.

Credo sia questo anche il succo del discorso che il Papa ha voluto proporre per la giornata del malato di quest’anno: “Quando si riduce la fede a sterili esercizi verbali, senza coinvolgersi nella storia e nelle necessità dell’altro, allora viene meno la coerenza tra il credo professato e il vissuto reale”.

E nel cammino della vita scopri così, con sorpresa, che non sei tu ad aver guarito i malati ma sono i malati che hanno guarito te.

Gildo Dott. Coperchio sx
Missionario saveriano

 

Be healed by the sick


We publish this reflection that our confrere, Dr. Gildo Coperchio, shared during Mass (GAMS, February 3, 2022, Shrine of St. Guido M. Conforti, Parma). As Dr. Gildo  himself explains, "these are considerations born on the battlefield, or rather on the mission field, especially when, having left Fatima Hospital (in Jessore, ed.), I found hospitality in the mission of Chuknagar, thus becoming a village doctor."

Parma, Thursday, February 3, 2022
GAMS Mass - Readings: 1Kings 2,1-4.10-12; Mk 6,7-13

"When the time of David's DEATH drew near."

The beginning of the first reading took me back to 2008 when having left Bangladesh, I began my commitment here, on the 4th floor, in the Motherhouse. David's death recalls DEATH with a capital D: a hot topic, tempered by the last lines of the reading: David rested with his ancestors.

Shortly before coming back from Bangladesh, I wondered what the sick, elderly confreres I would meet on the IV floor might think about death. IV floor, a place that had the reputation of being "the gateway to heaven".

In line with so-called modern thought, it was the period during which death was almost not mentioned. Indeed, it should not be mentioned. It should be kept far away from the mind, heart, and thoughts. Death is frightening. So we try to banish it into oblivion.

And yet, when one day, with Fr. Pellerzi, I softly uttered the word "death," he thanked me for doing so. So I was not surprised when, one morning in January 2009, in the Martyrs' chapel, after the introductory verse of the morning prayers, he slumped in the chair "lovingly embraced by death" to the surprise, disbelief, and I would even say envy of the confreres present. He had just prayed God, come to my assistance. Lord makes haste to help me. And his Lord had come.

From the text of the Gospel, I propose the final verse: So apostles went off and preached repentance. They drove out many demons, and they anointed with oil many who were sick and cured them. Convert "to" or "from what?" A long time ago, I read that there is no healing without conversion. Could this be the conversion proclaimed by the apostles?

As a doctor, I can't tell you if this Gospel flavor guided my work. I had read so many times in the Gospel of Christ walking the streets of Galilee proclaiming the Kingdom of God... through words of consolation, promise, hope, and through his works, especially through the healing of the sick.

The question thus arises for me: how was and how is our mission today? How do we announce the Kingdom of God?

Too often, we think that we are the saviors of the world. We think we have the magic word, the most appropriate insights, and in this way, we forget that what counts most is not giving in to the temptation to do great things at any cost. An activity that absorbs us to the point that we no longer have time, during the day, to do what we read about Jesus in Mark's Gospel: embracing children (Mk 9:36; 10:16), touching the tongues of those who had a speech impediment (Mk 7:33), putting saliva on the eyes of the blind (Mk 8:22); love (Mk 10:21), disappointment (Mk 10:23), reassurance (Mk 10:27). We are not super-men; we have limitations: we cannot perform miracles, and when we do, it is only when we truly believe (Mk 6:5); we do not know what awaits us; and sometimes we cry out full of fear, feeling abandoned: "My God, my God."

Yet this is the Gospel. And so it happens that when we accept to anoint the sick with oil and they are healed, we, people of little faith, are astounded.

Like Christ, we too are called to love (Mk 9:36; 10:16; 10:21-22) and suffer physically and morally (Mk 14:32-42). We are called to open ourselves to everyone, even to those who, humanly speaking, do not deserve it, such as sinners and publicans, and lepers (Mk. 2:15), those who look down on us, who exploit us, who speak ill of us, who persecute us. Like Jesus, we are called to teach (Mk. 10:1) true hope, faith, love..., serenity.

I must confess that in Bangladesh, I learned to read the pages of the Gospel on the faces of the people I met in the clinics, on the buses, on the streets, in the long lines of patients waiting for me in the village. Many would ask me questions, but what could I teach? What could I give besides medicine and a few coins?

I discovered with difficulty that to respond, to teach, I had to persuade myself that the most important thing was to continue to sit on the steps of a bungalow and listen patiently, peacefully, without haste, to those who sought me out and wanted a miraculous cure. Who wanted the assurance that the child they had been waiting for years, the one about to be born, would have no problems. Who searched for a solution to the many infinite problems just to survive (... "today my mother didn't make the market"...).

My patients repeated to me what I had read so many times in the Gospel: let me see...; if you want, my son/my daughter will be healed...; if you touch me, I will be healed. Yes, it happened to me too that someone took my hand so that I could touch him. In those moments, you feel small, small. It was only in this way that I began to understand the Gospel. I began to feel its flavor as something that you know because you live it.

It doesn't matter if, in the end, doubts, difficulties, unfinished attempts for a life not coated by too many beautiful words, finally free from the fruit of passions such as desire, fear, insecurity, greed, pride, vanity remains. The mission is this path. The Gospel was and still is uncomfortable, uncomfortable not so much for those who receive it as for us who are its heralds.

I believe this is also the heart of the message of the Pope for this year's Day of the Sick: "When our faith is reduced to empty words, unconcerned with the lives and needs of others, the creed we profess proves inconsistent with the life we lead."

And so, throughout your life journey, you discover, to your surprise, that it was not you who cured the sick but the sick who healed you.

Gildo Dr. Coperchio
Xaverian Missionary

Ser curado por los enfermos


Publicamos esta reflexión que nuestro hermano, el Dr. Gildo Coperchio, compartió durante la misa del GAMS el pasado 3 de febrero, en Parma, en el Santuario de San Guido M. Conforti. Como explica el propio autor, “son consideraciones nacidas en el campo de batalla o, mejor dicho, en el campo de la misión, especialmente cuando dejé el Hospital Fátima (en Jessore, ndr) y encontré hospitalidad en la misión de Chuknagar, encontrándome, de este modo, como un médico de aldea”.

Parma, jueves 3 de febrero 2022
Misa GAMS - Lecturas: 1Reyes 2,1-4.10-12; Mc 6,7-13

“Los días de David se habían acercado a la MUERTE”.

El comienzo de la primera lectura me hizo volver al 2008, cuando dejaba Bangladesh para comenzar mi compromiso aquí en la Casa Madre, en el cuarto piso. La muerte de David nos recuerda la Muerte con la M mayúscula: un tema candente, matizado por las últimas líneas de la lectura: David se durmió con sus padres.

Justo poco antes de volver de Bangladesh, me preguntaba qué pensarían sobre la muerte los hermanos enfermos y ancianos que encontraría en el IV piso. Un piso que tenía la fama de ser “la puerta del Paraíso”.

Era una época en la que, de acuerdo con el así llamado pensamiento moderno, casi no se podía hablar de la muerte, es más, no se debía hablar de ella, había que mantenerla lejos de la mente, del corazón, del pensamiento... La muerte da miedo. De esta manera, se quisiera desterrarla en el olvido.

Y sin embargo, cuando un día con el P. Pellerzi pronuncié en voz baja la palabra ‘muerte’, me agradeció que lo hiciera. Por eso no me sorprendió cuando, una mañana de enero de 2009, en la capilla de los Mártires, tras el verso introductorio de la oración de laudes, se desplomó en una silla “abrazado amorosamente por la muerte”, ante la sorpresa, la incredulidad y, yo diría que incluso, la envidia de los hermanos presentes. Oh Dios, ven a salvarme. Señor, ven pronto en mi ayuda… así había apenas rezado. Y su Señor vino.

Del texto del Evangelio, os propongo el versículo final: Y ellos, los apóstoles, partieron proclamando que la gente se convirtiera; expulsaban demonios, ungían con aceite a muchos enfermos y los curaban. ¿Convertirse, “a” o “de qué cosa”? Hace mucho tiempo leí que no hay curación sin conversión. ¿Será acaso ésta la conversión anunciada por los apóstoles? No sabría decir si, como médico, mi trabajo ha estado guiado por este sabor evangélico; había leído tantas veces en el Evangelio a Cristo recorriendo los caminos de Galilea, anunciando el Reino de Dios... con sus palabras de consuelo, promesa, esperanza y con sus obras, sobre todo con la curación de los enfermos.

Me nace espontáneamente la pregunta: ¿cómo ha sido y cómo es nuestra misión hoy?  ¿Cómo anunciamos nosotros el Reino de Dios?

Con demasiada frecuencia nos creemos los salvadores del mundo... pensamos que tenemos la palabra mágica, las intervenciones más adecuadas, y de esta manera olvidamos que lo más importante es no ceder a la tentación de hacer cosas grandes a cualquier precio. Una actividad que nos absorbe hasta el punto de que no tenemos tiempo en nuestros días para hacer lo que leemos sobre Jesús en el Evangelio de Marcos: abrazar a los niños (Mc 9,36; 10,16), tocar la lengua de los sordomudos (Mc 7,33), poner saliva en los ojos de los ciegos (Mc 8,22); sentir compasión (Mc 10,21), decepción (Mc 10,23), ánimo (Mc 10,27).  Evidentemente, no somos superhumanos, tenemos limitaciones: no podemos hacer milagros, y cuando los hacemos, es sólo cuando creemos de verdad (Mc 6,5); no sabemos lo que nos espera; y a veces gritamos llenos de miedo, sintiéndonos abandonados: “Dios mío, Dios mío”.

Y sin embargo, esto es el Evangelio. Y así sucede que en el momento en que aceptamos ungir a los enfermos con aceite y se curan, nosotros mismos, incrédulos, nos maravillamos.

Como Cristo, también nosotros estamos llamados a amar (Mc 9,36; 10,16; 10,21-22) y a sufrir no sólo físicamente sino también moralmente (Mc 14,32-42). Estamos llamados a abrirnos a todos, incluso a las personas que humanamente hablando no lo merecen: como los pecadores y publicanos, los leprosos (Mc 2,15), como aquellos que nos miran con desprecio, que nos explotan, que hablan mal de nosotros, que nos persiguen. Como Jesús, estamos llamados a enseñar (Mc 10,1) a la verdadera esperanza, a la verdadera fe, al verdadero amor..., a la serenidad.

Debo confesar que en Bangladesh aprendí a leer las páginas del Evangelio en los rostros de las personas que encontré en los dispensarios, en los autobuses, en las calles, en las largas filas de pacientes que me esperaban en la aldea.  Muchos me hacían preguntas, pero ¿qué podía enseñar? ¿Qué podía dar además de medicinas y algunas monedas?

Descubrí con dificultad que para responder, para enseñar, tenía que convencerme de que lo más importante era seguir sentándome en los escalones de una cabaña para escuchar con paciencia y serenidad, sin prisas, a quienes, buscándome, querían de mí una curación milagrosa, la certeza de un hijo que esperaban desde hacía años, la seguridad de que no habría problemas para el bebé que iba a nacer, una solución a los muchos e infinitos problemas de una vida que se jugaba en la supervivencia (... “hoy mi madre no ha ido al mercado”...).

Mis pacientes me repetían lo que tantas veces había leído en el Evangelio: haz que yo vea...; si tú quieres, mi hijo, mi hija se curará...; si tú me tocas me curaré. Sí, me ha sucedido también a mí que alguien cogía mi mano para que lo tocase. En esos momentos te sientes pequeño, pequeño. Sólo así empecé a entender el Evangelio, empecé a sentir el sabor como de algo que conoces porque lo estás viviendo.

Y no importa si en todo esto quedan dudas, dificultades, los continuos y nunca concluidos intentos de una vida que no esté enmascarada en demasiadas palabras bonitas, finalmente libre del fruto de las pasiones como el deseo, el miedo, la inseguridad, la codicia, el orgullo, la vanidad. La misión es este camino, el Evangelio ha sido y sigue siendo incómodo, incómodo no tanto para aquellos a los que lo anunciamos, sino para nosotros que somos sus anunciadores.

Creo que ésta es también la esencia del discurso que el Papa ha querido proponer este año para el Día del Enfermo: “Cuando la fe se reduce a estériles ejercicios verbales, sin implicarse en la historia y las necesidades de los demás, entonces viene a menos la coherencia entre el credo profesado y lo que se vive realmente”.

De esta manera, en el camino de la vida, descubres, para tu sorpresa, que no eres tú quien ha curado a los enfermos, sino que han sido los enfermos quienes te han curado a ti.

Gildo Dr. Coperchio
Misionero Javeriano


Nous publions cette réflexion que notre confrère, le Docteur Gildo Coperchio, a partagée lors de la messe du GAMS (Groupe des Amis des Missionnaires Xavériens), le 3 février 2022, à Parme, dans le sanctuaire de Saint Guido M. Conforti. Comme l'auteur lui-même l'explique, « ce sont des considérations nées dans le champ de bataille ou plutôt de mission, surtout quand, après avoir quitté l'hôpital de Fatima (à Jessore-Bangladesh), j'ai été accueilli dans la mission de Chuknagar, me retrouvant ainsi médecin de village ».

Parme, jeudi 3 février 2022
Messe GAMS - Lectures : 1 Rois 2,1-4.10-12 ; Mc 6,7-13

« Les jours de David approchaient de la MORT » (2R 2,1)

Le début de la première lecture m'a ramené en 2008 lorsque j'avais quitté le Bangladesh pour commencer mon engagement ici, à la Maison-Mère, au quatrième étage. La mort de David rappelle la MORT avec un M majuscule : un sujet brûlant, mitigé par les dernières lignes de la lecture : « David s'est endormi avec ses pères ».

Peu avant de rentrer du Bangladesh, je me suis demandé ce que les confrères malades et âgés, que j’aurai rencontrés au quatrième étage, pouvaient penser de la mort. Cet étage avait la réputation d'être "la porte du Ciel".

C'était l'époque où, conformément à la pensée dite moderne, presque personne ne voulait parler de la mort, en effet il ne fallait pas en parler, il fallait la tenir à l'écart de l'esprit, du cœur, de la pensée… La mort fait peur. On cherchait, ainsi, à l'exiler dans l'oubli.

Pourtant, lorsqu'un jour, en parlant avec le Père Pellerzi, j'ai prononcé doucement le mot « mort », il m'a remercié de l'avoir fait. Alors je n'ai pas été surpris quand, un matin de janvier 2009, dans la chapelle des Martyrs, après le verset introductif de la prière des laudes, il s'est effondré sur une chaise "amoureusement embrassé par la mort" dans la surprise, l'incrédulité, et je dirais aussi l'envie des frères qui étaient présents. Ô Dieu viens à mon aide. Seigneur, viens vite à mon secours, il venait de prier. Et son Seigneur était venu.

À partir du texte de l'Évangile, je propose le verset final : Ils partirent, et proclamèrent qu’il fallait se convertir. Ils expulsaient beaucoup de démons, faisaient des onctions d’huile à de nombreux malades, et les guérissaient.

Se convertir, "à quoi" ou "à partir de quoi ?" Il y a longtemps, j’ai lu qu'il n'y a pas de guérison sans conversion. Serait-ce la conversion proclamée par les apôtres ?

Je ne sais pas vous dire si, étant médecin, mon travail a été guidé par cette saveur évangélique. J'avais lu plusieurs fois dans l'Évangile du Christ qu'il parcourait les rues de la Galilée annonçant le Royaume de Dieu… avec ses paroles de consolation, de promesse, d'espérance, ainsi qu’avec ses œuvres, notamment la guérison des malades.

Une question surgit en moi spontanément : comment était notre mission et comment est-elle aujourd'hui ? Comment annonçons-nous le Royaume de Dieu ?

Trop souvent nous pensons que nous sommes les sauveurs du monde... nous pensons avoir le mot magique, les interventions les plus appropriées et ainsi nous oublions que le plus important est de ne pas céder à la tentation de faire de grandes choses à tout prix. Une activité qui nous absorbe au point de ne plus avoir le temps de faire ce que nous lisons sur Jésus dans l'évangile de Marc : embrasser les enfants (Mc 9,36 ; 10,16), toucher la langue des sourds-muets (Mc 7, 33), mettre de la salive sur les yeux des aveugles (Mc 8, 22) ; manifester de la sympathie (Mc 10,21), de la déception (Mc 10,23), des encouragements (Mc 10,27). Évidemment nous ne sommes pas des surhommes, nous avons des limites : nous ne pouvons pas faire de miracles, et quand nous en faisons, c'est seulement quand nous y croyons vraiment (Mc 6,5) ; nous ne savons pas ce qui nous attend ; et parfois nous crions pleins de peur en nous sentant abandonnés : "Mon Dieu, mon Dieu".

Pourtant, c'est l'Évangile. Et c'est ainsi que lorsque nous acceptons d'oindre d'huile les malades et qu'ils guérissent, nous-mêmes, incrédules, nous nous émerveillons.

Comme le Christ, nous aussi nous sommes appelés à aimer (Mc 9,36 ; 10,16 ; 10,21-22) et à souffrir non seulement physiquement mais aussi moralement (Mc 14,32-42). Nous sommes appelés à nous ouvrir à tous, même aux personnes qui, humainement parlant, ne le méritent pas, comme les pécheurs, les publicains et les lépreux (Mc 2,15), comme ceux qui nous regardent avec mépris, qui nous exploitent, qui disent du mal de nous, qui nous persécutent. Comme Jésus, nous sommes appelés à enseigner (Mc 10,1) la vraie espérance, la vraie foi, le vrai amour…, la sérénité.

Je dois avouer qu'au Bangladesh j'ai appris à lire les pages de l'Évangile sur les visages des gens que je rencontrais dans les cliniques, dans les bus, dans les rues, dans les longues files de patients qui m'attendaient au village. Beaucoup m'ont posé des questions, mais que pouvais-je enseigner ? Que pouvais-je donner, à part des médicaments et quelques pièces de monnaie ?

J'ai découvert, avec de la peine, que pour répondre, pour enseigner, je devais vraiment me convaincre que le plus important était de continuer à m'asseoir sur les marches d'un bungalow pour écouter patiemment et sereinement, sans hâte, ceux qui, me cherchant , voulaient de moi une guérison miraculeuse, la certitude d'un enfant qu'ils attendaient depuis des années, l’assurance qu'il n'y aurait pas de problèmes pour l'enfant qui allait naître, une solution aux nombreux problèmes d'une vie à la merci de la survie (... "aujourd'hui ma mère n'est pas partie au marché" ...).

Mes malades me répétaient ce que j'avais lu tant de fois dans l'Évangile : que je voie, Seigneur ! Si tu veux, mon fils, ma fille guérira... ; si tu me touches, je serai guéri. Oui, il m'est aussi arrivé que quelqu'un prenne ma main pour le toucher. En ces moments-là, tu te sens très petit. Ce n'est qu'ainsi que j'ai commencé à comprendre l'Évangile, j'ai commencé à le goûter comme quelque chose qui se connaît parce que tu la vis.

Et peu importe s'il reste dans tout cela des doutes, des difficultés, des tentatives continuelles et jamais abouties pour une vie qui ne soit pas masquée par trop de belles paroles, enfin libérée du fruit des passions telles que le désir, la peur, l'insécurité, l'avidité, l’orgueil, la vanité. La mission est ce parcours : l'Évangile était et est encore inconfortable aujourd'hui, inconfortable moins pour ceux à qui nous l'annonçons que pour nous qui en sommes les annonciateurs.

Je crois que c'est aussi le sens du discours que le Pape a voulu proposer pour la journée du malade de cette année : « Quand la foi est réduite à des exercices verbaux stériles, sans s'impliquer dans l'histoire et les besoins de l'autre, alors diminue la cohérence entre les croyances professées et le vécu réel ».

Et sur le chemin de la vie, tu découvriras, avec surprise, que ce n'est pas toi qui as guéri les malades mais que ce sont les malades qui t’ont guéri.

Coperchio doct. Gildo
Missionnaire Xavérien

Gildo Dott. Coperchio sx
10 fevereiro 2022
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