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Lettera aperta ai vescovi italiani

1788/500
Conferenza Episcopale Italiana
73a ASSEMBLEA GENERALE
Mercoledì 22 maggio 2019 – Gruppo di studio 3
 
Gruppo di studio 3
Vescovo coordinatore: mons. Marco Prastaro
Missionario: p. Mario Menin (saveriano)
Segretario: Agostino Rigon

Carissimi fratelli vescovi,

condivido volentieri con voi, primi responsabili della Chiesa cattolica in Italia, alcune riflessioni sulla missione, consapevole della grande trasformazione in atto dell’azione evangelizzatrice. Fino al Concilio Vaticano II, infatti, la Chiesa si comprendeva al di sopra della società, come se tutto il mondo dovesse girarle attorno – tolemaicamente – diventando necessariamente cristiano e/o addirittura cattolico. Con l’emancipazione della cultura e della società dalla sfera religiosa, soprattutto in Occidente, la Chiesa ha finito per ritrovarsi di fronte ad una societas non più cristiana, con la quale fare i conti mettendosi in dialogo, cioè dicendo il Vangelo dal di dentro della storia, umilmente, senza pretese di esclusività, nella debolezza e nella minorità. Inoltre, sia per il fenomeno di scristianizzazione dell’Occidente, sia per l’avvento nei cosiddetti “paesi cristiani” di rilevanti porzioni di fedeli di altre religioni, la Chiesa oggi in Italia deve fare i conti – anche teologici –  con un pluralismo religioso, culturale, etico, forse inedito, mai visto prima.

Nel sistema della “cristianità” erano Propaganda Fide e le “missioni estere”, ovvero gli Istituti missionari tradizionali, a portare la missione della Chiesa ai confini della societas christiana. Fondati per lo più nel periodo coloniale, oggi, in un Occidente sempre più ibrido e in una Chiesa sempre più mondiale, post-europea, gli Istituti vivono una fase di “caos” interpretativo circa la loro specificità missionaria. Anch’essi, come del resto tutta la Chiesa, stanno attraversando una crisi epocale, che richiede una nuova comprensione dell’evangelizzazione e una nuova presenza missionaria, soprattutto tenendo conto dell’altro (minuscolo e maiuscolo).

Basti pensare alla fatica di superare il pregiudizio dell’eurocentrismo (oggi «anche dentro la Chiesa cattolica sono le culture asiatiche, africane, latinoamericane che determinano la misura, lo stile di ciò che si può e si vuole recepire dalla grande tradizione del cristianesimo classico»);[1] oppure il pregiudizio anti-ecumenico e quello anti-religioso, che condannavano rispettivamente le altre Chiese cristiane e le altre religioni ai margini della storia della salvezza, senza alcuna possibilità di collaborazione per il bene dell’umanità.

  1. La purificazione della memoria missionaria

Non è perciò fuori luogo, in vista di una nuova presenza missionaria, parlare anzitutto della necessità della purificazione della nostra memoria (missionaria). Non solo per i fallimenti e i peccati – atteggiamenti scorretti – dei singoli missionari,[2] ma anche per le teorie e le strutture della missione, che hanno fomentato ombre e sospetti sull’annuncio evangelico. E ciò non per giustificare la sospensione (moratorium) e tanto meno l’abolizione della missione – come pretendono alcuni critici radicali (filosofi, antropologi e storici), che giudicano il mandato missionario come un difetto genetico del cristianesimo, un “peccato originale”, capace solo di legittimare l’imperialismo culturale cristiano (occidentale) –, ma per ridare un nuovo slancio alla medesima con uno stile più “sostenibile”, cioè evangelico. La purificazione della memoria è la condizione sine qua non per ridare futuro alla missione ad gentes, ma anche per rendere possibile una nuova presenza missionaria, in Italia e nel mondo. Ce lo indica in maniera inequivocabile il Concilio Vaticano II nella Costituzione Lumen gentium 8, che definisce la Chiesa «santa e insieme sempre bisognosa di purificazione».

Non si tratta di adottare uno sterile ed innocuo pentitismo, che cerca nell’auto-annientamento della missione ad gentes la propria riconsiderazione, ma di entrare in un processo di continua conversione, guardando alle proprie origini e nel contempo alle nuove sfide della missione ad gentes. Il mio pensiero va anzitutto agli Istituti missionari, che hanno portato la fatica e il martirio della missione fra i popoli e che oggi si ritrovano a fare i conti con una Chiesa tutta missionaria (o che almeno pretende di esserlo).

Voi, carissimi vescovi, dovreste aiutare noi missionari a ritrovare il nostro posto in questa Chiesa, senza lasciarci mimetizzare tra gli altri istituti religiosi, impoverendo il nostro carisma ad gentes. Dovreste stimolarci a pensare la missione, non più nostalgicamente, secondo il modello coloniale, da Nord a Sud, soprattutto in quest’ora della storia in cui la Provvidenza ci dona un papa che viene dal Sud del mondo e capace di agitare missionariamente le acque di tutta la Chiesa.

Mi piace immaginare con voi la Chiesa – italiana, ma non solo – come la piscina di Betzaetà, del Vangelo di Giovanni (5,1ss), assediata da “un gran numero di infermi, ciechi, zoppi e paralitici” in attesa di un angelo che discenda e ne agiti le acque. L’angelo che il Signore ci ha inviato in questo tempo è Francesco, un papa venuto “dalla fine del mondo” ad agitare missionariamente le acque stagnanti della nostra Chiesa. Carissimi vescovi, c’è bisogno di pastori che aiutino le Chiese locali ad approfittare di queste acque agitate. Solo così potremo guarire dalle nostre infermità, dalle nostre cecità, dalle nostre debilità e paralisi. Carissimi vescovi, chiamate anche noi missionari ad aiutarvi nell’ardua impresa di immergere le vostre Chiese locali in questo nuovo “battesimo missionario”, per la rigenerazione della pastorale ordinaria.

  1. Riscoperta dell’ad gentes come forza trainante di ogni pastorale

Non possono mancare a questo appuntamento “missionario” delle vostre Chiese locali i missionari – sia degli Istituti sia i fidei donum –, seppure diminuiti di numero e di forze. Sarebbe paradossale che nel momento di maggior bisogno, le Chiese locali rischiassero di cercare la loro bussola missionaria senza l’aiuto delle loro forze missionarie migliori, che hanno dedicato tutta la vita (ad vitam) alla causa dell’evangelizzazione. Per questo, carissimi vescovi, siate più esigenti con gli Istituti missionari presenti nelle vostre diocesi, affinché anch’essi (gli Istituti) “trasformino” la loro presenza destinandovi personale specifico, magari anche da altri continenti. Solo così garantiranno una rinnovata vitalità in situazioni – come quella italiana – dove è in gioco la loro specificità e la loro sopravvivenza.

Se poi voi, carissimi vescovi, avete il coraggio di chiederci – con sincerità e non per compiacerci – quali indicazioni potrebbero venire dal mondo missionario per la trasformazione missionaria delle vostre Chiese, noi missionari, raccogliendo le esperienze delle Chiese in America latina, Africa, Asia e Oceania, potremmo rispondere elencando almeno cinque “scelte missionarie”: a) dare il primo posto alla Parola di Dio, messa con fiducia in mano ai laici, in modo che si incarni più facilmente nella vita quotidiana; b) fare una scelta preferenziale dei poveri, delle nostre periferie, geografiche ed esistenziali, luogo teologico essenziale per una lettura più autentica del Vangelo; c) privilegiare le piccole comunità cristiane, o gruppi del Vangelo, o comunità ecclesiali di base in tutte le diocesi e parrocchie; d) aprirsi all’accoglienza amorosa degli stranieri e di tutte le differenze culturali e religiose, valorizzando in questo ambito la presenza nelle nostre comunità dei preti e religiosi/e che vengono come fidei donum dalle nuove Chiese del Sud del mondo e di tutti i cristiani che ci portano nuovi stili di Chiesa; e) favorire una formazione diversa dei preti e diaconi dando un volto meno clericale al loro ministero nelle parrocchie, e curare una preparazione diversa dei seminaristi che li abiliti come futuri pastori-missionari nelle loro comunità.

  1. Tre segni di speranza

Oggi non sono più gli Istituti missionari l’avanguardia della missione, ma i movimenti ecclesiali, le nuove comunità, che – nonostante le loro problematicità – danno più rilievo a nuove figure missionarie e a nuovi ministeri, ai laici e alle donne, e sembrano rispondere con più tempestività alle ansie pastorali delle Chiese locali, anche su scala globale. Se da un lato questi nuovi soggetti missionari – soprattutto laicali – rendono più sfumata la figura tradizionale del missionario, dall’altro stimolano gli Istituti a mettere a fuoco la loro specificità, che non è quella della “nuova evangelizzazione”, ma direi, con papa Francesco, dell’attrazione: La Chiesa non cresce per proselitismo ma «per attrazione»”.[3] Mentre l’approccio missionario dei predecessori – Giovanni Paolo II e Benedetto XVI – era focalizzato sulla nuova evangelizzazione, Francesco va oltre, centrando la missione sull’attrazione. Tale convinzione ha trovato conferma in molti gesti e parole di Francesco, più recentemente anche nel discorso al CEC (Consiglio Ecumenico delle Chiese) di Ginevra nel giugno scorso: Certamente, il modo in cui esercitare la missione varia a seconda dei tempi e dei luoghi e, di fronte alla tentazione, purtroppo ricorrente, di imporsi seguendo logiche mondane, occorre ricordare che la Chiesa di Cristo cresce per attrazione”.[4] Testimoniare e annunciare il Vangelo in modo attraente sembra una prospettiva missionaria e missiologica fondamentale nel pontificato di Francesco. Da qui sgorgano tre segni di speranza per una nuova presenza missionaria, anche in Italia.

Il primo è la riscoperta della “logica del Vangelo”, come “messaggio che attrae”. La Chiesa può e deve essere missionaria così, come portatrice di un Vangelo che attrae, in quanto appunto “buona notizia” per i poveri e i peccatori, da parte di un Dio misericordioso e lento all’ira. Citando S. Tommaso d’Aquino, il papa afferma: “È proprio di Dio usare misericordia, e in questo specialmente si manifesta la sua onnipotenza”.[5] E nel documento di inaugurazione dell’Anno della Misericordia, citando Agostino, ribadisce che “è più facile che Dio trattenga l’ira che la misericordia”.[6] Non c’è nulla di nuovo in ciò che dice Francesco, eppure si percepisce una freschezza evangelica che getta nuova luce sul messaggio, rendendolo attraente: “I cristiani hanno il dovere di annunciarlo senza escludere nessuno, non come chi impone un nuovo obbligo, bensì come chi condivide una gioia, segnala un orizzonte bello, offre un banchetto desiderabile”.[7]

Il secondo segno è la riscoperta della comunità cristiana come comunità attraente. Per essere autenticamente missionaria, la Chiesa deve essere come “un’oasi di misericordia”,[8] “dove tutti possano sentirsi accolti, amati, perdonati, e incoraggiati a vivere secondo la vita buona del Vangelo”.[9] Una comunità cristiana attrae solo se ha sempre “le porte aperte”, anche “le porte dei sacramenti” che non si dovrebbero chiudere “per una ragione qualsiasi”.[10] Una comunità attrae, se privilegia l’uguaglianza, in forza del battesimo, fuggendo da ogni tipo di clericalismo. La configurazione del presbitero a Cristo capo non implica un’esaltazione al di sopra degli altri. Una comunità cristiana attrae se è capace di essere davvero “povera e per i poveri”,[11] accogliente nei loro confronti. Insomma, la Chiesa sarà attraente nella misura in cui sarà inclusiva, accogliente, fraterna, ospitale. Solo così mostrerà la gioia del Vangelo ricevuto, in tutta la sua bellezza e attrazione.

Il terzo segno è un magistero che attrae e una teologia meno astratti e più sensibili al contesto. È questa preoccupazione che motiva papa Francesco nelle sue omelie quotidiane, nelle sue catechesi settimanali e nei suoi scritti più importanti. L’enciclica Laudato si’, per esempio, affronta una delle sfide più urgenti del nostro tempo, “proteggere la nostra casa comune”.[12] L’esortazione Amoris laetitia affronta questioni e problemi riguardanti le coppie che vivono insieme senza essere sposate, che sono unite civilmente, e che sono divorziate risposate. Francesco, fiducioso nella misericordia di Dio, va oltre l’insegnamento standard della Chiesa in termini di partecipazione sacramentale.

Ci sono certamente degli aspetti nel magistero di Francesco che non sono considerati attraenti da tutti. Ma siamo comunque di fronte a tre segni di quella “missiologia dell’attrazione” di cui ha bisogno anche la Chiesa italiana per la sua trasformazione missionaria. Solo questa conversione può far riguadagnare visibilità ed eloquenza profetica a comunità cristiane che rischiano di perdersi nella liquidità culturale e religiosa della nostra società. Grazie, carissimi vescovi, per la vostra attenzione e ascolto.

Mario Menin SX
Missionari Saveriani
Via Piamarta 9
25121 Brescia
 
[1] E. Salman, Presenza di spirito. Il cristianesimo come stile di pensiero e di vita, Cittadella, Assisi 2011, pp.  298-299.
[2] Si veda soprattutto Paolo VI negli ultimi numeri dell’Evangelii nuntiandi (nn. 74ss) ove si parla dello spirito dell’evangelizzazione.
[3] EG 14.
[4] Discorso al Centro ecumenico di Ginevra, giovedì 21 giugno 2018, in occasione del 70° anniversario della fondazione del CEC.
[5] EG 37.
[6] MV 21.
[7] EG 14.
[8] MV 12.
[9] EG 114.
[10] EG 47.
[11] EG 198.
[12] LS 13.
Mario Menin sx
24 maio 2019
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