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I Missionari e le Missionarie, chi sono?

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Quei tali che mettono il mondo in agitazione.

Dopo un racconto denso di fatti straordinari, come la liberazione miracolosa dei missionari dal carcere di Filippi, la narrazione degli Atti degli Apostoli riprende un andamento più ordinario, ma non per questo meno significativo. Costretti ad abbandonare il capoluogo macedone, Paolo e Sila si incamminano su una delle principali vie di comunicazione del tempo, la via Egnatia, facendo tappa a Tessalonica (cfr. At 17,1-9). 

Il metodo missionario di Paolo

Fedele alla propria strategia pastorale, Paolo si rivolge anzitutto ai giudei, incontrandoli nella loro sinagoga. Poi, dinanzi al rifiuto dei più, annuncia il Vangelo ai pagani. In questo modo Luca traduce narrativamente l’adagio paolino di Rm 1,16: “il giudeo prima, poi il greco”, a significare che, nell’annuncio della salvezza, a Israele è comunque riconosciuta la priorità, non certo l’esclusività. Tale sottolineatura, apparentemente ovvia, ricorda tuttavia che l’annuncio del Vangelo, pur carico di una novità “rivoluzionaria”, si inserisce nel medesimo progetto di salvezza che affonda le radici nell’esperienza religiosa e nella tradizione di Israele. Non è un caso, allora, che per annunciare il mistero della morte e risurrezione di Gesù Paolo parta dalle Scritture di Israele: «per tre sabati discusse con loro sulla base delle Scritture, spiegandole e sostenendo che il Cristo doveva soffrire e risorgere dai morti. E diceva: “Il Cristo è quel Gesù che io vi annuncio”» (At 17,1-3). In questi tre versetti, che costituiscono una preziosa sintesi dell’annuncio missionario paolino, emergono due elementi importanti di perenne attualità.

Due elementi fondamentali

Il primo riguarda il fondamento scritturistico che sempre deve accompagnare l’annuncio missionario. Abbiamo più volte sottolineato nei nostri contributi che il primato della Parola è fondamentale per il sorgere e il consolidamento della fede. Una Parola che, almeno secondo la prospettiva cristiana, vede in Gesù il proprio compimento definitivo e, insieme, l’indispensabile chiave interpretativa. Ciò significa che, al di sopra di qualsiasi preoccupazione, al missionario deve stare a cuore anzitutto l’annuncio della Parola di Dio.

Il secondo elemento degno di nota riguarda il verbo “doveva”. Tale espressione rinvia, nella prospettiva teologica lucana, alla realizzazione del piano divino di salvezza. Un lettore accorto ricorderà le molteplici occorrenze del verbo “dovere” nelle affermazioni del Risorto (Lc 24,26- 27.45-46), nei discorsi di Pietro (At 2,22-36; 3,13-18) e di Paolo (At 13,23-29). Tali attestazioni esprimono l’importante consapevolezza che la passione e morte di Gesù non sono state un incidente di percorso, ma rientrano misteriosamente nel disegno salvifico di Dio. È doveroso ribadirlo perché, alla luce di tale consapevolezza, anche il discepolo-missionario potrà affrontare persecuzioni e morte in un’ottica di speranza altrimenti inconcepibile.

La reazione diversificata dell’uditorio

Alcuni giudei – pochi, per la verità – accolgono il Vangelo di Paolo. Al contrario, molti “greci credenti” (pagani simpatizzanti del giudaismo) e “non poche donne della nobiltà” pervengono alla fede in Gesù. Anche in questi dettagli apparentemente scontati ci pare utile ravvisare un valido stimolo per la nostra riflessione: non è detto che tutti accolgano il Vangelo, anzi, molti potrebbero rifiutarlo. Tuttavia, il missionario non deve perdersi d’animo. In questo Paolo è un grande testimone di fede e perseveranza. Altrettanto importante è notare lo spazio che l’evangelista concede al ruolo delle donne: un ruolo discreto ma, evidentemente, fondamentale per la vita della prima comunità cristiana, come già era stato l’impegno di Lidia nella fondazione della Chiesa di Filippi (cfr. At 16,11-15). Luca prosegue nel racconto soffermandosi sulla reazione violenta della maggior parte dei giudei tessalonicesi. L’evangelista annota che tale reazione è motivata da una profonda “gelosia”, sentimento che, più che esprimere la frustrazione dinanzi al successo della predicazione apostolica, indica lo zelo sacro – ai limiti col fanatismo – contro coloro che propongono vie di salvezza alternative a quella tracciata e percorsa da Israele.

L’accusa contro Paolo e collaboratori

L’accusa mossa contro Paolo e i suoi collaboratori è particolarmente iperbolica: “Quei tali che mettono il mondo in agitazione sono venuti anche qui e Giasone li ha ospitati. Tutti costoro vanno contro i decreti dell’imperatore, perché affermano che c’è un altro re: Gesù” (At 17,6-9). Al di là dell’evidente esagerazione, la definizione che i giudei di Tessalonica danno dei missionari cristiani è particolarmente impressionante. Il Vangelo di Gesù mette “il mondo in agitazione”. Tornano alla mente le parole forti del Maestro: “Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!... Pensate che io sia venuto a portare pace sulla terra? No, io vi dico, ma divisione” (Lc 12,49.51). Parole che fanno riflettere, soprattutto oggi, dinanzi a un cristianesimo costantemente tentato o di edulcorare il proprio messaggio o, peggio ancora, di adeguarsi ad una mentalità mondana che nulla ha a che fare con l’annuncio del Vangelo. Si badi bene: non si tratta di essere “integralisti”; piuttosto non si dovrebbe dimenticare la lezione che i primi missionari cristiani ci hanno tramandato, consapevoli come erano di essere “nel mondo, ma non del mondo” (cfr. Gv 15,18-26). Se noi scorriamo attentamente le pagine degli Atti degli apostoli, ci renderemo conto che i primi missionari erano certamente uomini aperti e disponibili al dialogo, ma assolutamente chiusi rispetto a qualsivoglia compromesso che avrebbe anche solo lontanamente messo in discussione il primato di Gesù nella loro vita. Ovviamente tale atteggiamento non poteva che “mettere in agitazione” chi si chiudeva all’annuncio del Vangelo. L’accusa dei giudei di Tessalonica è, del resto, molto significativa: “[i missionari cristiani] affermano che c’è un altro re, Gesù”. L’allusione al processo di Gesù è evidente: l’accusa del sinedrio nei confronti del Signore, che “affermava di essere Cristo re”, risuona in quella degli ebrei tessalonicesi. Eppure, paradossalmente, essa rafforza un elemento essenziale del discepolato cristiano: la conformità alle sofferenze del Maestro (cfr. Gv 15,20; 1Ts 2,14). Ci sembra utile riportare qui un passo della lettera ai Colossesi che riassume bene quanto affermato sinora. L’autore della lettera mette sulla bocca dell’apostolo Paolo le seguenti affermazioni: “Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa. … …  Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da Cristo e che agisce in me con potenza” (Col 1,24-29).

Il potenziale rivoluzionario del Vangelo

Insomma, l’annuncio del Vangelo, ancorato alla speranza del regno di Dio, pur essendo pacifico deve mettere in conto una notevole dose di ostilità. Come ben sottolinea Daniel Marguerat, denunciando le motivazioni malevole di coloro che cercano di soffocare l’annuncio, l’autore degli Atti «evidenzia il potenziale critico del Vangelo di fronte ai costumi o ai rapporti sociali in vigore. L’imperatore Claudio e lo storico Svetonio faranno affermazioni denigranti prossime a quelle dei giudei di Tessalonica sulle religioni che disturbano. Cristo non è il concorrente di Cesare… ma per un lettore troppo premuroso di ripulire il Vangelo da ogni elemento sovversivo, l’assioma di Lc 20,25 si impone: “Rendere a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”».


Les missionnaires, qui sont-ils ?

Ces gens qui révolutionnent le monde.

Après un récit dense de faits extraordinaires, comme la libération miraculeuse des missionnaires de la prison de Philippes, le récit des Actes des Apôtres reprend une évolution plus ordinaire, mais non moins significative. Contraints d’abandonner la capitale macédonienne, Paul et Silas s’acheminent sur l’une des principales voies de communication de l’époque, le chemin de Egnatia, en faisant un arrêt à Thessalonique (cf. Ac 17, 1-9).

La méthode missionnaire de Paul

Fidèle à sa propre stratégie pastorale, Paul s’adresse avant tout aux juifs, en les rencontrant dans leur synagogue. Puis, face au rejet ceux-ci, il annonce l’Évangile aux païens. Voici la manière avec laquelle Luc traduit narrativement l’adage paulinien de Rm 1,16 : « le juif d’abord, puis le grec », ce qui signifie que, dans l’annonce du salut, la priorité est de toute façon reconnue à Israël, mais certainement pas l’exclusivité. Cette précision, apparemment évident, rappelle toutefois que l’annonce de l’Evangile, bien que chargé d’une nouveauté "révolutionnaire", s’insère dans le même projet de salut qui plonge ses racines dans l’expérience religieuse et dans la tradition d’Israël. Ce n’est donc pas un hasard si, pour annoncer le mystère de la mort et de la résurrection de Jésus Paul se serve des Écritures d’Israël : « Pendant trois sabbats de suite, il discuta avec eux d’après les Écritures. Il les leur expliquait, établissant que le Christ devait souffrir et ressusciter des morts, " et le Christ, disait-il, c’est Jésus que je vous annonce" » (Ac 17, 1-3). Dans ces trois versets, qui constituent une précieuse synthèse de l’annonce missionnaire paulinienne, émergent deux éléments importants et toujours d’actualité.

Deux éléments fondamentaux

Le premier concerne le fondement scripturaire qui doit toujours accompagner l’annonce missionnaire. Nous avons souligné à plusieurs reprises dans nos contributions que la primauté de la Parole est fondamentale pour l’émergence et la consolidation de la foi. Une Parole qui, au moins selon la perspective chrétienne, trouve en Jésus son accomplissement définitif et, en même temps, l’indispensable clé interprétative. Cela signifie que, par-dessus toute préoccupation, le missionnaire doit avant tout avoir à cœur l’annonce de la Parole de Dieu.

Le deuxième élément à noter concerne le verbe "devait". Cette expression renvoie, dans la perspective théologique de Luc, à la réalisation du plan divin de salut. Un lecteur avisé se souviendra des multiples allusions au verbe "devoir" dans les affirmations du Ressuscité (Lc 24, 26- 27.45-46), dans les discours de Pierre (Ac 2, 22-36 ; 3, 13-18) et de Paul (Ac 13, 23-29). Ces attestations expriment l’importante conscience que la passion et la mort de Jésus n’ont pas été un accident de parcours, mais s’inscrivent mystérieusement dans le dessein salvifique de Dieu. Il est juste de le répéter car, à la lumière de cette conscience, le disciple-missionnaire pourra lui aussi affronter les persécutions et la mort dans une optique d’espérance autrement inconcevable.

La réaction diversifiée de l’auditoire

Certains juifs - peu, en vérité - accueillent l’Évangile de Paul. Au contraire, beaucoup de « croyants grecs » (sympathisants païens du judaïsme) et de « nombreuses femmes de la noblesse » parviennent à la foi en Jésus. Même dans ces détails apparemment évidents, il nous semble utile de trouver un stimulant valable pour notre réflexion : il n’est pas dit que tous accueillent l’Evangile, au contraire, beaucoup pourraient le rejeter. Cependant, le missionnaire ne doit pas perdre courage. En ceci, Paul est un grand témoin de foi et de persévérance. Il est tout aussi important de noter l’espace que l’évangéliste accorde au rôle des femmes : un rôle discret mais, évidemment, fondamental pour la vie de la première communauté chrétienne, comme l’avait déjà été l’engagement de Lydie dans la fondation de l’Eglise de Philippes (cf. Ac 16, 11-15). Luc poursuit le récit en s’arrêtant sur la réaction violente de la plupart des juifs thessaloniciens. L’évangéliste note que cette réaction est motivée par une profonde « jalousie », sentiment qui, plus qu’exprimer la frustration devant le succès de la prédication apostolique, indique le zèle sacré – aux limites avec le fanatisme – contre ceux qui proposent des voies de salut alternatives à celle tracée et parcourue par Israël.

L’accusation contre Paul et ses collaborateurs

L’accusation portée contre Paul et ses collaborateurs est particulièrement hyperbolique : « Ces gens qui ont révolutionné le monde entier, les voilà maintenant ici, et Jason les reçoit chez lui. Tous ces gens-là vont à l’encontre des décrets de l’empereur, en affirmant qu’il y a un autre roi : Jésus » (Ac 17, 6-9). Au-delà de l’exagération évidente, la définition que les juifs de Thessalonique donnent des missionnaires chrétiens est particulièrement impressionnante. L’Évangile de Jésus « révolutionne le monde ». Les paroles fortes du Maître reviennent à l’esprit : « Je suis venu jeter le feu sur la terre, et comme je voudrais qu’il soit déjà allumé... Pensez-vous que je sois venu apporter la paix sur la terre ? Non, je vous le dis, mais la division" (Lc 12, 49.51). Des paroles qui font réfléchir, surtout aujourd’hui, devant un christianisme constamment tenté soit d’édulcorer son message soit, pire encore, de s’adapter à une mentalité mondaine qui n’a rien à voir avec l’annonce de l’Evangile. Il ne s’agit pas d’être « intégristes » ; il ne faut pas oublier la leçon que les premiers missionnaires chrétiens nous ont donnée, conscients qu’ils étaient « dans le monde, mais pas du monde » (cf. Jn 15, 18-26). Si nous parcourons attentivement les pages des Actes des apôtres, nous nous rendrons compte que les premiers missionnaires étaient certainement des hommes ouverts et disponibles au dialogue, mais absolument fermés par rapport à tout compromis qui aurait même vaguement mis en cause la primauté de Jésus dans leur vie. Évidemment, cette attitude ne pouvait que « mettre en agitation » celui qui se fermait à l’annonce de l’Evangile. L’accusation des juifs de Thessalonique est, du reste, très significative : « [les missionnaires chrétiens] affirment qu’il y a un autre roi, Jésus ». L’allusion au procès de Jésus est évidente : l’accusation du sanhédrin à l’égard du Seigneur, qui « affirmait être le Christ roi », résonne dans celle des juifs thessaloniciens. Pourtant, paradoxalement, elle renforce un élément essentiel du disciple chrétien : la conformité aux souffrances du Maitre (cf. Jn 15,20 ; 1Th 2,14). Il nous semble utile de rapporter ici un passage de la lettre aux Colossiens qui résume bien ce qui a été dit jusqu’à présent. L’auteur de la lettre met dans la bouche de l’apôtre Paul les affirmations suivantes : « En ce moment je trouve ma joie dans les souffrances que j’endure pour vous, et je complète en ma chair ce qui manque aux épreuves du Christ pour son Corps, qui est l’Eglise. ... ... Et c’est bien pour cette cause que je me fatigue à lutter, avec son énergie qui agit en moi avec puissance ». (Col 1, 24-29).

Le potentiel révolutionnaire de l’évangile

En somme, l’annonce de l’Evangile, ancré à l’espérance du royaume de Dieu, tout en étant pacifique, doit comporter une dose considérable d’hostilité. Comme le souligne bien Daniel Marguerat, en dénonçant les motivations malveillantes de ceux qui cherchent à étouffer l’annonce, l’auteur des Actes « met en évidence le potentiel critique de l’Evangile face aux mœurs ou aux rapports sociaux en vigueur. L’empereur Claude et l’historien Svetonio feront des déclarations dénigrantes similaires à celles des juifs de Thessalonique sur les religions qui dérangent. Christ n’est pas le concurrent de César... mais pour un lecteur trop soucieux de nettoyer l’Evangile de tout élément subversif, l’axiome de Lc 20,25 s’impose : "Rendre à César ce qui est à César et à Dieu ce qui est à Dieu” ».

Alessandro Gennari
22 February 2022
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