Nello scorso mese di maggio si è svolta la “Settimana Laudato si’”: un’occasione importante per esplorare e comprendere meglio la ricchezza dell’enciclica di Papa Francesco, pubblicata cinque anni fa.
Se rileggiamo il testo in questo periodo, sapendo che migliaia di persone sono state colpite dal virus, e proprio mentre prendiamo coscienza delle dolorose conseguenze della pandemia anche sull’economia globalizzata, forse, ci rendiamo meglio conto dell’urgenza di progettare e di agire nella direzione indicata dal Papa.
Durante il confinamento obbligatorio e necessario a limitare la diffusione della malattia, abbiamo assistito a processi molto particolari: da una parte alla diminuzione o totale cessazione di molte attività, dall’altra alla marcata riduzione delle emissioni di agenti inquinanti; tuttavia non ci sentiamo consolati respirando aria più pulita, perché il prezzo pagato al virus in termini di vite umane è stato incongruo e terribile. Abbiamo anche assistito alla crescita esponenziale dell’utilizzo di Internet, app e social network, ma la sofferenza dovuta al distanziamento sociale non è stata risparmiata a nessuno. La costrizione dentro le pareti domestiche ha, d’altro canto, consentito a molti di avere più tempo per riflettere su se stessi e sul proprio stile di vita; da diversi luoghi, con spazi e prospettive diverse, si fa strada l’idea di cogliere il senso positivo di questa riflessione, per continuare a vivere con maggiore pienezza, progettando e realizzando una società migliore dell’attuale. L'incertezza rispetto al futuro potrebbe perfino rappresentare una provocazione per la creatività e uno stimolo verso soluzioni nuove.
“Che tipo di mondo vogliamo lasciare a quelli che verranno dopo di noi, ai bambini che stanno crescendo?” A partire da questa domanda Papa Francesco rinnova il Suo “appello urgente a rispondere alla crisi ecologica, il grido della terra e il grido dei poveri non possono più aspettare.”
La domanda, centrata sulla locuzione “che tipo di mondo”, obbliga ad una riflessione sulla qualità e sulle articolazioni della relazione che ciascuno di noi mantiene con il mondo, sia individualmente, sia in comunità. Si tratta di cominciare, o ricominciare, a chiedersi che tipo di relazione abbiamo con noi stessi, con gli altri, con la natura e infine - o in principio - con Dio. E quanta e quale attenzione, passione ed energia siamo disposti ad investire nella cura di queste relazioni. La complessità del presente obbliga ad una riflessione e ad un’azione comune, focalizzata sul tema della solidarietà umana, non soltanto a livello familiare, di quartiere, di vicinato, di nazione, come la crisi sanitaria ha già determinato, ma a livello mondiale.
Il distanziamento sociale, per quanto triste, ha avuto il merito di farci sentire concretamente la mancanza - e quindi l’importanza - della relazione tangibile con chi era lontano tra i nostri affetti più forti. Ma riuscire a sentire il reale distanziamento costante, la compassione e un sentimento di vera solidarietà con chi non appartiene direttamente alla cerchia dei nostri cari, ecco, questo è molto più difficile. Sentirsi solidali con il resto dell’umanità, per realizzare una società migliore dell’attuale, diventa una sfida per tutta la cristianità, in primis per noi missionari. Amiamo, soprattutto in Italia, distinguerci gli uni dagli altri, ciascuno in difesa del proprio stile di vita. Occorre comprendere che “solidarietà” non è uguale a “uniformità”, perché la solidarietà, comunitaria e mondiale, può nascere solo da un confronto, da un dialogo autentico, non ideologizzato, che proceda dalla fiducia reciproca. Questo può essere il punto di partenza di una “ecologia umana”.
Durante l’isolamento, l’accresciuto utilizzo dei sistemi digitali anche all’interno delle comunità religiose, ha messo in rilievo, a mio avviso, la mancanza di un confronto reale, in cui ciascuno sia disposto ad ascoltare, valutare e discutere le proposte altrui. Molte sono state le iniziative anche buone e belle, ma ora abbiamo bisogno di adoperarci per instaurare un clima autenticamente dialogico, in grado di condurre a scelte concretamente operative, per il bene di tutti.
Mi spiego meglio: molti utenti di Internet mostrano la tipica volatilità del pensiero statico, che si nutre dell’enunciazione di principii e teorie o di esibizioni audio e video, che poco hanno a che fare con l’impegno diretto per la soluzione della questione centrale sempre più evidente: l’appello urgente a rispondere alla crisi ecologica, al grido della terra e al grido dei poveri che non possono più aspettare.
Spesso principii e teorie si cristallizzano e, trasformati in pallidi e poveri slogan, sortiscono l’effetto di separare la parola dall’azione, il dire dal fare. Il discorso e l’agire pratico sono come le due ruote di un ingranaggio: se cominciano a ruotare in modo dissociato, senza che il movimento dell’una guidi o ingaggi quello dell’altra, l’ingranaggio gira a vuoto, rischiando di fermarsi o, peggio, di incepparsi. Questa situazione è evidente in molti spazi della convivenza umana. È possibile scorgerne un tragico esempio nei fatti di Minneapolis: lì è a repentaglio il legame sociale e l’intero sistema rischia di incepparsi, perchè chi dovrebbe farsi garante del rispetto della giustizia sembra invece farsi operatore di iniquità.
Nelle questioni più strettamente riguardanti l’ambiente naturale, se non si agisce concretamente per adeguare produzione e consumi alla dichiarata necessità di salvaguardare l’ambiente, rischiamo, per così dire, l’inceppamento degli ingranaggi nell’intero ecosistema.
Se un deposito di petrolio, come è avvenuto nei giorni scorsi, per errore o per incuria umana, scarica ventimila tonnellate di greggio in un qualche fiume del mondo, o una centrale nucleare, come pure è avvenuto più di una volta in passato, disperde le sue scorie radioattive nell’ambiente circostante, chi potrà risolvere questo “problema” e riparare veramente il danno?
Nel sistema vigente di comunicazione di massa, di cui è intessuta la società capitalista, la natura è stata relegata sullo sfondo, come il poster murale di un elegante arredamento: difficilmente disturba il nostro benessere, perchè rimane distante, simile ad un ornamento opzionale, e non ci induce al confronto diretto con la sua rudezza, le sue resistenze, le sue sorprese.
Ad oggi si è “snaturata la natura”, trasformandola in un “concetto” ornamentale, per giunta spesso poco rappresentativo della realtà, mentre in concreto se ne sfruttano indiscriminatamente le risorse, non a beneficio di tutta la popolazione mondiale.
Di conseguenza, che cosa potrebbe essere meno “naturale” per gli esseri umani che scegliere di agire per salvare un “concetto”? Perché abbandonare le nostre “strutture di comfort” per qualcosa che appare sempre meraviglioso, visto comodamente in foto, in video o visitato attraverso spettacolari viaggi organizzati?
Nelle società ricche e “sviluppate”, dove la “felicità” ruota attorno ad una fantasia di crescita illimitata e all’eliminazione dei fastidi, il valore unanimemente riconosciuto è quello del “benessere”. È prerogativa delle società sviluppate e privilegiate come la nostra poter dedicare un’intera parte dei proventi dell’attività lavorativa alla rimozione degli ostacoli, dei disagi e degli sforzi, dal più doloroso al più minuto e all’allestimento funzionale ed elegante degli ambienti in cui trascorriamo quotidianamente il nostro tempo.
La maggior parte dei prodotti e dei servizi offerti sul mercato sono rappresentati come fornitori di comfort e facilitazioni: d’uso, di scambio, di assemblaggio, di stoccaggio, di conservazione, di pagamento, di trasferimento, di preparazione, di consegna, di sostituzione, di scelta, di incontro. Il tutto sempre più a portata del click di un mouse o del tocco su un touchscreen, attraverso l’app... appositamente progettata.
In nome di questo “comfort protettore”, la maggior parte di noi si è isolata, non tanto dai propri simili, ma da ciò che chiamerei il senso della realtà della natura, dei suoi equilibri e della assoluta interdipendenza di tutti i fenomeni naturali, vita umana compresa.
L’ambiente naturale pone all’uomo una questione ineludibile: il mondo non appartiene ad alcuno, mentre tutti gli esseri umani ne sono parte integrante: siamo noi ad essere ricompresi nell’ecosistema terra. Siamo anche gli unici, fino a prova contraria, caratterizzati da un intelletto discorsivo, da un pensiero che si esprime nel linguaggio verbale. La capacità di organizzare la parola sotto forma di discorso è la ruota principale di un ingranaggio molto più vasto, di cui gli altri sistemi rappresentativi umani partecipano.
Se continueremo a sostituire i concetti alla realtà, senza sentir gravare sulle nostre spalle le ferite inferte alla natura e senza intraprendere azioni trasformatrici degli stili di vita, l’ecosistema sarà danneggiato; questo meraviglioso ingranaggio vitale non sarà più in grado di muoversi armonicamente, girerà in modalità dissociata e disastri ecologici continueranno a prodursi qui e là.
Ci vorrà un grande impegno per raccordare la teoria alla prassi e fare della vita in comunità, della solidarietà e del legame sociale tre esperienze non negoziabili.
Sì, perchè “comunità”, “solidarietà”, “legame sociale”, come “fraternità”, “compassione”, “amore” non sono concetti astratti, sono esperienze reali.
Sarebbe necessario, io credo, rivivere la materialità ruvida e lenta della natura, abbandonare, anche per un breve periodo, i flussi rettilinei delle nostre strade e i volatili crocicchi digitali, uscire dalle nostre tane o gabbie confortevoli, per poter forgiare una nuova certezza, quella della nostra interdipendenza con, e tra, il resto dei vivi.
Non è forse anche questa la Chiesa in uscita?
Enzo Oliviero Verzeletti
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