La vulnerabilità è una qualità fondamentale di ogni autentica missione cristiana, poiché siamo chiamate a seguire Cristo, «egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo (...)» (Filippesi 2, 6-8). La Kenosis di Cristo rende la vulnerabilità un modo di essere missionari, nonché un importante strumento della missione.
La chiamata di Papa Francesco al processo sinodale è in ultima analisi una rinnovata chiamata alla missione, malgrado non dalla posizione finora occupata di potere e autorità (…). Questo obiettivo non può essere raggiunto, se non si accetta e accoglie la propria vulnerabilità. Per noi, in quanto missionarie, la vulnerabilità è un bene prezioso per la missione, piuttosto che un onere di cui farci carico; questo è tanto più vero, poiché ci permette di accedere alla realtà umana in maggiore profondità, attraverso la nostra partecipazione a quanto è debole, soggiogato e povero (…).
L’Africa viene talvolta definita come il “giardino della Chiesa nel XX secolo”, per via dell’affascinante affermazione della Chiesa stessa all’interno del continente africano (…). Da una base di circa 4 milioni di fedeli professanti il cristianesimo nel 1900, la comunità cristiana africana si è sviluppata fino a contare, nel 2000, 300 milioni di fedeli.
Una delle implicazioni di questo fenomeno fa sì che non vi siano più Paesi che esclusivamente accolgono le missioni o esclusivamente le inviano (…). La missione cristiana è ora scissa dal suo legame storico con la colonizzazione o l’occidentalizzazione (…).
Mi è stato chiesto spesso perché gli africani dovrebbero abbracciare missioni che li portino fuori dal proprio continente, vista l’enorme quantità di problemi che già lo affliggono. A questa domanda, rispondo che la chiamata alla missione non è una gara di auto-sufficienza, a cui solo coloro che non hanno problemi o sono forti possono rispondere. Questa tendenza esclusivista rappresenta di fatto un problema, poiché associa la missione al potere, all’influenza politica, alla ricchezza materiale, alla colonizzazione e al dominio. Come missionaria africana, mi vedo chiamata a modificare questa narrativa, a portare novità, semplicità ed energia, libera da qualunque potere di stampo economico o politico (…).
Il mio sogno di diventare una missionaria eroica, ammirata da tutti, si infranse improvvisamente! Quando, nel 1994, mi sono trovata fuori dall’Africa, ho realizzato che non venivo accolta come missionaria, ma ero piuttosto considerata come una lavoratrice migrante, in cerca di una vita migliore. Il mio desiderio di altruismo e sacrificio totale ne uscì scosso, quando compresi con stupore che, secondo l’opinione comune, l’Africa avrebbe ben poco da offrire. Mi resi conto che per molti, al di fuori dell’Africa, questo continente era unicamente associato a povertà, guerre, violenza, scompiglio, vita allo stadio primitivo, malattie, conflitti etnici, disordini politici e corruzione. Malgrado queste realtà non possano essere negate, l’Africa è anche una terra di promessa, grazie alla sua vita così vibrante, la sua resilienza, gioventù, l’amore per la comunità, l’ospitalità, la generosità e la religiosità.
Ho imparato ad abbracciare questa vulnerabilità che i pregiudizi mi hanno imposto, pur facendo umilmente mia la dignità necessaria per modificare questa narrativa. Siamo tutti vittime della “sindrome del racconto esclusivo”, che si basa sui pregiudizi che gli altri nutrono nei nostri confronti. Tutti portiamo sulle nostre spalle il fardello delle nostre identità e questo si rende più evidente quando ci allontaniamo dalle nostre case e diventiamo oggetto del giudizio degli altri. La scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie ci ha offerto questa descrizione meravigliosa: «Non è che il racconto esclusivo non sia vero, ma il punto è che non è l’unico racconto esistente» (…).
Come missionari, siamo chiamati a costruire comunione all’interno di questa diversità, abbracciando la sua bellezza e fragilità. Concludendo questa riflessione, vorrei sfidare me stessa e ciascuna di noi ad abbracciare la propria vulnerabilità. La mia vulnerabilità di donna all’interno di una società e di una Chiesa patriarcale; di africana in un mondo di lotte globali per il potere; di religiosa in un mondo caratterizzato da una crescente indifferenza e intolleranza religiosa; di missionaria in un mondo xenofobo, chiamata a rivolgermi alle periferie di un mondo in cui solo il centro conta. Questo significa per me abbracciare la vulnerabilità dall’alto e dal basso.
di Anne Falola, OLA – April 2022
Missionaria e consigliera generale della congregazione di Nostra Signora degli apostoli
The strength of vulnerability
Vulnerability is a fundamental quality of any authentic Christian mission. Indeed, we are called to follow Christ, who “having the condition of God, did not jealously retain the rank that made him equal to God, but he emptied himself, taking the condition of a servant…” (Phil 2.6-8). The kenosis of Christ makes vulnerability a way of being missionary and an important means for mission […].
Pope Francis’ call to the synodal process is ultimately a renewed call to mission, but not from the position of power and authority held so far […]. This cannot be done without accepting and embracing our vulnerability. For us missionaries, vulnerability is an asset to mission rather than a burden, because it allows us to enter more deeply into human reality through our own participation in what is weak, oppressed and poor. When we embrace our own vulnerability, we become closer to people in need of light and release. […].
Africa is sometimes called the “garden of the Church in the 20e century”, due to the fascinating growth of the Church on the African continent in the 19e and 20e centuries […]. While an estimated 4 million people professed Christianity in 1900, African Christianity grew to more than 300 million followers by the year 2000.
One of the implications of this phenomenon is that there are no longer exclusively mission-sending countries nor exclusively mission-receiving countries. […]. This shift impacts power dynamics […]. The geography of the mission has changed! Thank God, Christian mission is now detached from its historical connection with colonization and Westernization […].
I have often been asked why Africans bother to leave their continent as missionaries with the myriad problems we have. To this I respond that the call to mission is not a rivalry for self-sufficiency, which only the strong who have no problems can respond to. This exclusive tendency is problematic because it associates mission with power, political influence, material wealth, colonization and domination. As an African missionary, I see myself called to change this narrative, to bring novelty, simplicity and energy stripped of economic and political powers. […].
My missionary vocation was inspired by the Irish missionaries who, in my country of origin, launched initiatives in the fields of education, health, pastoral care and social frontiers; they were loved and highly respected. However, my idea of being this heroic missionary admired by all suddenly collapsed!
When I left Africa in 1994, I understood that I was not received as a missionary, but rather as a migrant worker who had come to seek a better life. My desire for total self-sacrifice was shaken when I was often struck by the belief that an African has little to offer. I understood that for many people outside Africa, the continent was only associated with poverty, war, violence, disorder, primitive life, diseases, ethnic wars, political unrest and corruption. While these realities cannot be denied, Africa is also a land of promise, thanks to its vibrant life, resilience, youth, love of community, hospitality, generosity and piety.
As an African missionary, I have learned to embrace this vulnerability that prejudice imposes on me, while humbly assuming the dignity of changing the narrative. We are all victims of the “single story syndrome”, built on the prejudices of others towards us. We all carry the burden of our identities and this becomes more apparent when, stepping out of our own environment, we are affected by the judgment of others. Nigerian author Chimamanda Ngozi Adichie put it very well: “It’s not that the single story isn’t true; but it is not the only story”.
As missionaries, we are called to build communion in this diversity by embracing its beauty and its fragility. I challenge myself and each of us to embrace our own vulnerability. My own vulnerability as a woman in a patriarchal society and church, as an African in a world of global power struggles, as a nun in a world of growing religious indifference and intolerance , as a missionary in a xenophobic world and as called to the periphery in a world where only the center counts. This is what embracing vulnerability from above and below is for me.
By Anne Falola, OLA – April 2022
Missionary and General Councilor of the Congregation of Our Lady of the Apostles
La force de la vulnérabilité
La vulnérabilité est une qualité fondamentale de toute mission chrétienne authentique, puisque nous sommes appelés à suivre le Christ, qui « ayant la condition de Dieu, ne retint pas jalousement le rang qui l’égalait à Dieu. Mais il s’est anéanti, prenant la condition de serviteur, devenant semblable aux hommes » (Ph 2,6-8). La Kénose du Christ fait de la vulnérabilité une manière d'être missionnaire, ainsi qu'un outil important de la mission.
L'appel du pape François à entrer dans le processus synodal est finalement un appel renouvelé à la mission, malgré la position de pouvoir et d'autorité occupée jusqu'à présent (…). Cet objectif ne peut être atteint si l'on n'accepte pas et n'accueille pas sa vulnérabilité. Pour nous, en tant que missionnaires, la vulnérabilité est un atout précieux pour la mission, plutôt qu'un fardeau à porter ; cela est d'autant plus vrai qu'il nous permet d'accéder plus en profondeur dans la réalité humaine, par notre participation à ce qui est faible, assujetti et pauvre (…).
L'Afrique est parfois qualifiée de « jardin de l'Église au XXe siècle », en raison de l'affirmation fascinante de l'Église elle-même au sein du continent africain (...). D'une base d'environ 4 millions de fidèles professant le christianisme en 1900, la communauté chrétienne africaine s'est agrandie pour compter, en 2000, 300 millions de fidèles.
Une des implications de ce phénomène est qu'il n'y a plus de Pays qui exclusivement accueille les missions ou d’autres qui les envoient seulement. (…). La mission chrétienne est désormais coupée de son lien historique avec la colonisation ou l'occidentalisation (...).
On m'a souvent demandé pourquoi les Africains devraient embrasser des missions qui les emmènent en dehors de leur propre continent, étant donné l'énorme quantité de problèmes qui les affligent déjà. À cette question, je réponds que l'appel en mission n'est pas une compétition pour l'autosuffisance, à laquelle seuls ceux qui n'ont pas de problèmes ou qui sont forts peuvent répondre. Cette tendance exclusiviste pose en effet problème, puisqu'elle associe la mission au pouvoir, à l'influence politique, à la richesse matérielle, à la colonisation et à la domination. En tant que missionnaire africaine, je me vois appelée à modifier cette mentalité, à apporter de la nouveauté, de la simplicité et de l'énergie, libre de tout pouvoir économique ou politique (…).
Mon rêve de devenir une missionnaire héroïque, admirée de tous, soudainement se brise ! Quand, en 1994, je me suis retrouvée hors d'Afrique, j'ai réalisé que je n'étais pas accueillie comme une missionnaire, mais plutôt comme un travailleur migrant, à la recherche d'une vie meilleure.
Mon désir d'altruisme et de sacrifice total a été ébranlé lorsque j'ai réalisé avec étonnement que, selon l'opinion commune, l'Afrique aurait très peu à offrir. J'ai réalisé que pour beaucoup, en dehors de l'Afrique, ce continent était uniquement associé à la pauvreté, aux guerres, à la violence, aux troubles, à la vie au stade primitif, à la maladie, aux conflits ethniques, aux troubles politiques et à la corruption. Bien que ces réalités soient indéniables, l'Afrique est aussi une terre de promesses, grâce à sa vie trépidante, sa résilience, sa jeunesse, son amour de la communauté, son hospitalité, sa générosité et sa religiosité.
J'ai appris à embrasser cette vulnérabilité que les préjugés m'ont imposé, tout en faisant mienne humblement la dignité nécessaire pour modifier cette « narration ». Nous sommes tous victimes du "syndrome de l'histoire exclusive", qui repose sur les préjugés que les autres entretiennent à notre égard. Nous portons tous le fardeau de nos identités sur nos épaules et cela devient plus évident lorsque nous nous éloignons de nos maisons et devenons l'objet du jugement des autres. L'écrivain nigérian Chimamanda Ngozi Adichie nous a offert cette merveilleuse description : « Ce n'est pas que l'histoire exclusive n'est pas vraie, mais le fait est que ce n'est pas la seule histoire existante » (...).
En tant que missionnaires, nous sommes appelés à construire la communion au sein de cette diversité, en embrassant sa beauté et sa fragilité. Pour conclure cette réflexion, je voudrais me mettre au défi, ainsi que chacun de nous, pour accepter notre propre vulnérabilité. Ma vulnérabilité de femme au sein d'une société et d'une Église patriarcales ; en tant qu'Africaine dans un monde de luttes mondiales de pouvoir ; en tant que femme religieuse dans un monde caractérisé par une indifférence et une intolérance religieuses croissantes ; en tant que missionnaire dans un monde xénophobe, appelé à s'adresser aux périphéries d'un monde où seul le centre compte. Pour moi, cela signifie embrasser la vulnérabilité d'en haut et d'en bas.
par Anne Falola, OLA - avril 2022
Missionnaire et conseillère générale de la Congrégation Notre-Dame des Apôtres
La fuerza de la vulnerabilidad
La vulnerabilidad es una cualidad fundamental de toda auténtica misión cristiana, pues estamos llamados a seguir a Cristo, «el cual, aunque tenía la condición de Dios, no consideró un privilegio ser como Dios, sino que se despojó de sí mismo asumiendo la condición de siervo (...)» (Filipenses 2:6-8). La kenosis de Cristo hace de la vulnerabilidad una forma de ser misioneros e, igualmente, un importante instrumento de la misión.
La llamada del Papa Francisco al proceso sinodal es, en última instancia, una renovada llamada a la misión, a pesar de que no sea desde la posición de poder y autoridad que hasta ahora se tenía (...). Este objetivo no puede lograrse si no se acepta y abraza la propia vulnerabilidad. Para nosotros, como misioneras, la vulnerabilidad es un valioso bien para la misión, más que una carga que hay que soportar; esto es tanto más cierto cuanto que nos permite acceder a la realidad humana con mayor profundidad, a través de nuestra participación en lo que es débil, subyugado y pobre (...).
A veces se habla de África como el “jardín de la Iglesia en el siglo XX”, por la fascinante afirmación de la Iglesia misma en el continente africano (...). De una base de unos 4 millones de creyentes cristianos profesantes en 1900, la comunidad cristiana africana se ha desarrollado, en el 2000, hasta contar 300 millones de fieles.
Una de las implicaciones de este fenómeno es que ya no hay países que acojan exclusivamente las misiones o que exclusivamente las envíen (...). La misión cristiana se ha desprendido ahora de su vínculo histórico con la colonización o la occidentalización (...).
A menudo me han preguntado por qué los africanos deberían abrazar misiones que los saquen de su propio continente, dada la enorme cantidad de problemas que ya lo aquejan. A esta pregunta, respondo que la llamada a la misión no es una competición sobre autosuficiencia, a la cual sólo los que no tienen problemas o son fuertes pueden responder. Esta tendencia exclusivista representa de hecho un problema, ya que asocia la misión con el poder, la influencia política, la riqueza material, la colonización y la dominación. Como misionera africana, me veo llamada a modificar esta narrativa, a aportar novedad, sencillez y energía, libre de cualquier poder de tipo económico o político (...).
Mi sueño de convertirme en una misionera heroica, admirada por todos, se vio repentinamente destrozado. Cuando, en 1994, me encontré fuera de África, me di cuenta de que no me acogían como misionera, sino que era considerada una trabajadora emigrante, en busca de una vida mejor. Mi deseo de altruismo y sacrificio total se tambaleó cuando comprendí con asombro que, según la opinión común, África tenía poco que ofrecer. Me di cuenta que para muchos, fuera de África, este continente sólo se asociaba a la pobreza, las guerras, la violencia, el caos, a la vida en estadio primitivo, a las enfermedades, los conflictos étnicos, los disturbios políticos y la corrupción. Aunque si no se pueden negar estas realidades, África es también una tierra de promisión, gracias a su vida particularmente vibrante, su resiliencia, juventud, amor a la comunidad, su hospitalidad, generosidad y religiosidad.
He aprendido a abrazar esta vulnerabilidad que los prejuicios me han impuesto, a la vez que humildemente he hecho mía la dignidad necesaria para cambiar esta narrativa. Todos somos víctimas del “síndrome de la narrativa exclusiva”, que se basa en los prejuicios que los demás nutren contra nosotros. Todos llevamos sobre los hombros el peso de nuestras identidades y esto se hace más evidente cuando nos alejamos de nuestros hogares y nos convertimos en objeto del juicio de los demás. La escritora nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie nos ha ofrecido esta maravillosa descripción: «No es que la narrativa exclusiva no sea cierta; la cuestión es que no es la única narrativa existente» (...).
Como misioneros, estamos llamados a construir comunión dentro de esta diversidad, abrazando su belleza y su fragilidad.
Para concluir esta reflexión, me gustaría desafiarme a mí misma y a cada una de nosotras a abrazar la propia vulnerabilidad. Mi vulnerabilidad como mujer dentro de una sociedad y de una Iglesia patriarcales; como africana en un mundo de luchas globales por el poder; como religiosa en un mundo caracterizado por una creciente indiferencia e intolerancia religiosa; como misionera en un mundo xenófobo, llamada a dirigirme a las periferias de un mundo donde sólo el centro cuenta. Esto significa para mí, abrazar la vulnerabilidad desde arriba y desde abajo.
Anne Falola, OLA - Abril 2022
Misionera y Consejera general de la Congregación de Nuestra Señora de los Apóstoles
A força da vulnerabilidade
A vulnerabilidade é uma qualidade fundamental de qualquer autêntica missão cristã, pois somos chamados a seguir a Cristo, "embora sendo ele de condição divina, não se prevaleceu de sua igualdade com Deus, mas aniquilou-se a si mesmo, assumindo a condição de servo (...)" (Filipenses 2, 6-8). A Kenosis de Cristo faz da vulnerabilidade uma forma de ser missionário, faz dela um importante instrumento da missão.
O convite do Papa Francisco para o processo sinodal é, em última análise, um novo chamado à missão, que não seja mais da posição de poder e autoridade até então ocupada (...). Este objetivo não pode ser alcançado a menos que aceitemos e abracemos nossa própria vulnerabilidade. Para nós, missionários, a vulnerabilidade é um bem precioso para a missão, e não um fardo a ser suportado; isto é tanto mais verdadeiro quanto nos permite acessar a realidade humana em maior profundidade, através da nossa participação em tudo o que é fraco, subjugado e pobre (...).
A África é às vezes referida como o "jardim da Igreja no século 20", devido à fascinante afirmação da própria Igreja dentro do continente africano (...). De cerca de 4 milhões de fiéis em 1900, a comunidade cristã africana cresceu para 300 milhões em 2000. Uma das implicações deste fenômeno é que não há mais países que recebem exclusivamente missões ou as enviam exclusivamente (...). A missão cristã está agora desligada de sua relação histórica com a colonização ou ocidentalização (...).
Muitas vezes me perguntaram por que os africanos deveriam abraçar missões que os tiram de seu próprio continente, dada a enorme quantidade de problemas que já o afligem. A esta pergunta, respondo que o chamado à missão não é uma competição pela autossuficiência, à qual somente aqueles que não têm problemas ou são fortes podem responder. Esta tendência exclusivista é na verdade um problema, pois associa missão com poder, influência política, riqueza material, colonização e dominação. Como missionária africana, me sinto chamada a mudar esta narrativa, a trazer novidade, simplicidade e energia, livre de qualquer poder econômico ou político (...).
Meu sonho de me tornar uma missionária heroica, admirada por todos, foi de repente despedaçado! Quando, em 1994, me encontrei fora da África e percebi que não era acolhida como uma missionária, mas sim como um trabalhador imigrante, alguém em busca de uma vida melhor. Meu desejo de altruísmo e sacrifício total foi abalado quando percebi, para meu espanto, que, segundo a opinião comum, a África tinha bem pouco a oferecer. Percebi que para muitos de fora da África, este continente estava associado apenas à pobreza, guerras, violência, tumultos, vida na fase primitiva, doenças, conflitos étnicos, agitação política e corrupção. Embora estas realidades não possam ser negadas, a África também é uma terra de promessas por causa de sua vida vibrante, resiliência, juventude, amor à comunidade, hospitalidade, generosidade e religiosidade.
Aprendi a abraçar esta vulnerabilidade que o preconceito me impôs, enquanto assumia humildemente a dignidade necessária para alterar esta narrativa. Todos nós somos vítimas da "síndrome da narrativa exclusiva", que se baseia nos preconceitos que outros têm contra nós. Todos nós carregamos o fardo de nossas identidades sobre nossos ombros e isto se torna mais evidente quando nos afastamos de nossas casas e nos tornamos objeto do julgamento dos outros. A escritora nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie nos ofereceu esta maravilhosa descrição: "Não é que a narrativa exclusiva não seja verdadeira, mas a questão é que não é a única narrativa que existe" (...).
Como missionários, somos chamados a construir comunhão dentro desta diversidade, abraçando sua beleza e fragilidade. Ao concluir esta reflexão, gostaria de desafiar a mim mesmo e a cada um de nós a abraçar nossa própria vulnerabilidade. Minha vulnerabilidade como mulher dentro de uma sociedade e Igreja patriarcais; como africana em um mundo de lutas mundiais pelo poder; como religiosa em um mundo de crescente indiferença e intolerância religiosa; como missionária em um mundo xenófobo, chamada a abordar as periferias de um mundo onde só o centro importa. Para mim, isto significa abraçar a vulnerabilidade por cima e por baixo.
por Anne Falola, OLA - abril de 2022
Missionária e conselheira geral da congregação de Nossa Senhora dos Apóstolos
Este artigo foi publicado na edição impressa do L'Osservatore Romano de 12 de julho de 2022
Enlaces y
Descargas
Accede aquí con tu nombre de usuario y contraseña para ver y descargar los archivos reservados.