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Non si va più in chiesa ma il futuro si gioca fuori

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Intervista a Giulio De Rita, curatore dell’indagine del Censis sugli italiani e la fede

26 novembre 2024

Giulio De Rita ha curato per il Censis una ricerca sullo stato della Chiesa Italiana. In un colloquio con L’Osservatore Romano cerchiamo di rilevarne i risultati principali e le domande che pone all’orientamento  pastorale dei vescovi italiani.

De Rita qual è la fotografia della Chiesa Italiana che viene fuori dalla ricerca che avete svolto? E in che misura si distacca tanto dalle ricerche precedenti quanto dai trend che si erano ipotizzati in passato?

Molto essenzialmente viene fuori che gli italiani sono assai poco cattolici se li vediamo dal punto di vista “prestazionale”: non frequentano granché la chiesa, non sono attivi in parrocchia, non condividono diversi dogmi e non rispettano i principi etici e morali indicati dalla chiesa, che vengono assunti più come un consiglio che come un dovere. In questo  senso i “cattolici”, come li consideravamo fino a qualche decennio fa, sono rimasti pochi.   Se invece li guardiamo da un altro punto di vista, quello cioè di coloro che si definiscono cattolici, che hanno ancora dei sentimenti cattolici, che pregano quando sono in necessità, si fanno il segno della croce, evocano la figura e le frasi di Gesù, allora sono un numero consistente. Cioè, diciamo anche, che sono in molti ad esprimere un’appartenenza identitaria che fa affidamento ai simboli della fede cattolica. In qualche modo questa penso che sia anche una scelta necessaria e di convenienza, perché in fondo non c’è gran che altro nella società attuale. Se a questo paese togli anche il riferimento al cattolicesimo non rimane nient’altro. L’Italia non è come la Francia, dove comunque c’è un’identità laica affermata: il cattolicesimo in Italia rimane un elemento unificante, non fosse altro, ripeto, perché è l’unico.

In questa luce, questo dato secondo lei è un dato rassicurante?

In un certo senso sì, perché è come dire: una Chiesa c’è, è fuori del recinto ma c’è, ora bisogna uscire e andare a rianimarla, dargli degli spunti nuovi. Ma c’è un dato che affievolisce questa nota di speranza, e cioè che questa grande “zona grigia”, fatta da circa il 40-50% di italiani, non è un deposito messo in sicurezza, una base abbastanza certa e difficilmente modificabile nella sua dimensione.  Perché se noi guardiamo ai giovani, cioè alla popolazione del domani, vediamo che queste percentuali perdono 15 o 20 punti, cioè quasi si dimezzano. Quella “zona grigia”, detto molto francamente, sta evaporando.  Questo significa che certamente puoi lavorare a rianimarla ma nella consapevolezza che non la riporterai all’interno degli schemi di adesione ecclesiale del passato.  Il compito, enorme, è dunque quello di assumere forme nuove di responsabilità e creatività rispetto a questa maggioranza relativa di cristiani. E sicuramente non è solo un problema di linguaggi.

Facendo una mappa più dettagliata come arriviamo a questa ‘zona grigia’?

Grosso modo il 70% degli italiani si dice tutt’oggi credente, il 50% prega, ha una vita spirituale, crede nella vita dopo la morte, e da questo punto di vista ci si potrebbe sentire ottimisti, ma, ripeto, i trend ci dicono che non si tratta di una realtà consolidata ma di una dimensione che tende ad evaporare.  Occorrono forme nuove dunque, ma con una consapevolezza: che anche lavorando bene non trasformeremo questi “cattolici in grigio” in cattolici prestazionali. La gente in chiesa non ci torna, perché è passata l’idea che la salvezza non si realizza attraverso la sola partecipazione ecclesiale. Allora forse dobbiamo tarare i nostri sforzi, non tanto nel tentativo — vano — di riportarli a messa, quanto nel diffondere — e testimoniare — che la salvezza passa attraverso la Parola di Gesù.

Ma la religiosità di questa “zona grigia” è soprattutto devozionale, e rischia di refluire lungo il crinale del fatalismo se non della superstizione.

No. Preferisco dire che è una religiosità prevalentemente emozionale. Chissà che invece l’errore del passato non sia stato proprio quello di puntare negli ultimi decenni su una sorta di mentalizzazione, di concettualizzare il fatto religioso, accantonando la dimensione emozionale, il bisogno di trascendente.  Ma perché, dove sta scritto che la fede è una cosa che si deve capire?  La Chiesa chiama a partecipare, non a capire, che è una cosa diversa.  Sant’Ignazio diceva che è l’emozione che ti porta a Dio. Poi certo c’è la comprensione, il discernimento, ma vengono dopo la scintilla dell’emozione.  Non a caso il magistero di Papa Francesco agisce su entrambi i livelli, l’emozione e la concettualizzazione.

Insomma dobbiamo uscire da questa logica del praticante e non praticante.

Assolutamente sì. Noi dobbiamo annunciare la possibilità di salvezza dall’alienazione della vita mondana e dalla finitudine, che è data dalla Parola di Gesù.  Quello che poi questo suscita nell’intimo delle persone prescinde dalla partecipazione alla vita ecclesiale. Smettiamo di contare i numeri di chi entra in chiesa e viene a messa. Non ci fa bene. La fede dell’altro non si indaga e non si giudica.  Perché sull’anima delle persone alla fin fine agisce Lui, e non le nostre per quanto raffinate attività pastorali. Per vedere la luce della salvezza basta poco, Gesù dice che basta un bicchiere d’acqua a chi aveva sete.

Il cristianesimo si sostanzia in uno stile di vita, o almeno dovrebbe.  Lo stile di vita del 70% dei cattolici dichiaratisi si differenzia dal restante 30%?

Assolutamente no. Lo stile di vita è assolutamente identico. L’opzione cristiana appartiene più ad una appartenenza identitaria, ad una storia, ad una tradizione, a delle emozioni appunto. Ma gli stili di vita sono sostanzialmente identici. Nel bene e nel male. E questo spiega ad esempio per quale motivo ci sia un pluralismo politico, a volte anche in accesa contrapposizione, tra i cattolici.

Occorrerà dunque prestare molta attenzione a questo trend che lei definisce di “vaporizzazione” della zona grigia. 

L’attenzione deve essere tutta rivolta alla fascia 18-34 anni. È lì che si decide il futuro profilo del cattolicesimo in Italia. Ma il trend può essere già individuato nella generazione  attuale delle persoen che vanno dai 35 ai 44 anni di età.

E per verificare il trend ogni quanto si dovrebbe ripetere la ricerca?

Ogni anno, perché ormai i cambiamenti antropologico-culturali sono rapidissimi. Mentre è lenta la capacità di reazione al trend.  Invertire l’orientamento da una chiesa dei numeri ad una chiesa che si fa sale della terra, una chiesa che va alla ricerca di quel 40% che si dice cattolico ma non viene — e non verrà — in chiesa, richiede un modo di pensare ed agire completamente nuovo.  Ma i nostri preti non sono preparati a questo, non sono stati formati a questo.  Fanno un gran lavoro dentro le chiese. Ma il futuro oggi si gioca fuori delle chiese. È l’ospedale da campo che chiede Papa Francesco.

Articolo originale di Roberto Cetera per l’Osservatore Romano disponibile a questo link.

Roberto Cetera per l’Osservatore Romano
05 Diciembre 2024
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