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Alla vigilia del XVIII Capitolo Generale

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Alcune considerazioni sull'attuale situazione dell'Istituto Saveriano

In tutta semplicità e sottovoce, vorrei condividere alcuni pensieri che sorgono in me quando penso alla situazione che stiamo vivendo all’interno della nostra Congregazione e che dovrebbe essere presa in esame dal prossimo capitolo generale. Tale situazione che oso chiamare con il termine “crisi”, nel senso di un passaggio che si spera porti a uno sviluppo positivo. Questa crisi si articola - a mio avviso - in tre punti o sintomi, tra loro collegati: a) il calo numerico dell’Istituto Saveriano, b) il conseguente ridimensionamento di alcune circoscrizioni saveriane, soprattutto quelle più antiche, e il prevedibile estinguersi di alcune di esse e c) il cambiamento del modello di missione che determina la nostra maniera di vivere la missione, che è la nostra ragion d’essere, e che noi prospettiamo ai possibili candidati.

Da tempo ormai siamo coscienti di dover individuare e promuovere un altro, diverso modello di missione al posto di quello tradizionale che ora comunemente chiamiamo il modello “coloniale”. Esso è stato mandato in archivio dal Concilio Vaticano II che l’ha sostituito con il modello dialogico-ecumenico, che però fa molta fatica ad affermarsi.

Personalmente sono sempre più convinto che la crisi attuale della missione è legata proprio all’esaurirsi del modello coloniale e alla difficoltà di sostituirlo con un altro modello più adeguato al momento storico ed ecclesiale che stiamo vivendo. Ne è la prova il fatto che la proposta vocazionale missionaria ad gentes oggi attira poco o nulla i giovani del mondo occidentale anche se, per il momento, funziona nelle giovani chiese. È quindi urgente che ci rendiamo conto di questo necessario cambiamento di modello, non a livello intellettuale ma pratico, e che, per quanto possibile, provvediamo per non sprecare persone, forze e mezzi materiali in un'animazione missionaria che sarà forzatamente inefficace e porterà solo frustrazione negli addetti ai lavori.

Ma quale è il nuovo modello di missione che possiamo e/o dobbiamo promuovere? E quale dobbiamo evitare? Innanzi tutto, dobbiamo evitare di rimanere impigliati ancora nel modello coloniale, da tutti dichiarato obsoleto e tuttavia in certi ambienti ancora gratificante. E, secondo, dobbiamo perseverare nella promozione della multiculturalità nelle nostre comunità, un processo che, grazie a Dio, abbiamo introdotto nella nostra identità saveriana, ma che deve essere portato avanti correttamente e coerentemente in vista del raggiungimento delle finalità della missione, della sua universalità, della sua apertura dialogica a 360°, del suo impegno per la liberazione dei poveri, della promozione dei valori del regno delle culture. Abbiamo visto con gioia delle applicazioni belle e incoraggianti di questo modello di missione. Ma non dobbiamo nasconderci il rischio di realizzarlo con una sottolineatura etnica o nazionalista. Notiamo infatti la tendenza in certi confratelli a “ritornare” a una identità “etno-centrata”, per cui per es. i Saveriani di una provenienza tendono a rimanere o ritornare in patria per formare i futuri Saveriani della propria nazionalità. È una forma di degenerazione della multiculturalità.

C'è ancora un altro prevedibile rischio all'orizzonte del nostro Istituto che riguarda le circoscrizioni saveriane, di antica fondazione, che non hanno più vocazioni locali. Esse vivono già un progressivo restringimento e, a breve, potrebbero anche scomparire. Il caso più eclatante è l'Italia che tra dieci anni - si prevede - non avrà più confratelli italiani in missione fuori o dentro i suoi confini, ma si trasformerà in una RSA (Residenze Sanitarie Assistenziali) per i missionari anziani e malati e, se sussisterà, diventerà il museo storico del Fondatore e dell'Istituto saveriano.

Questo esito può essere evitato con l'impegno di tutti i settori della congregazione. Infatti, lasciare estinguersi la regione italiana, come sembra sia nei piani o quanto meno nella prassi attuale, sarebbe un danno per l'intero Istituto Saveriano; porterebbe allo spegnersi della cultura fondazionale e, con essa, alla perdita dell'ispirazione carismatica e della storia dell'Istituto saveriano; e, con la storia, anche della spinta universale della missione a noi affidata. Se vogliamo "amare la nostra vocazione", dovremo sviluppare una più viva corresponsabilità di tutto l'Istituto nei confronti delle regioni bisognose di nuovo personale.

L'impegno immediato della Congregazione deve quindi essere lo sviluppo di un'autentica interculturalità che comporta l'integrazione delle varie culture sia a livello di valori che di personale missionario, con comunità interculturali autentiche in missione e nelle diverse regioni, antiche o nuove che siano, nella formazione come nell’attività missionaria diretta. Questi argomenti, a mio modesto avviso, dovrebbero essere coraggiosamente affrontati dal prossimo Capitolo generale.

Tavernerio, 25 aprile 2023.
Gabriele Ferrari s.x.


On the eve of the 18th General Chapter

Some considerations on the current situation of the Xaverian Institute 

In all simplicity and in a low voice, I would like to share some thoughts that arise in me when I think of the situation we are experiencing within our Congregation, and which should be considered by the next General Chapter. This situation I dare to call a "crisis", in the sense of a passage that hopefully will lead to a positive development. This crisis is articulated - in my opinion - in three points or symptoms, which are interconnected: a) the numerical decline of the Xaverian Institute, b) the consequent downsizing of some Xaverian circumscriptions, especially the older ones, and the foreseeable extinction of some of them, and c) the change in the mission model which determines our way of living the mission, which is our raison d'être, and which we propose to possible candidates.

For some time now we have been aware that we need to identify and promote another, different model of mission in place of the traditional one we now commonly call the 'colonial' model. It was sent to the archives by the Second Vatican Council, which replaced it with the dialogue-ecumenical model, which is, however, struggling to take hold.

Personally, I am increasingly convinced that the current crisis of mission is linked precisely to the exhaustion of the colonial model and the difficulty of replacing it with another model more suited to the historical and ecclesial moment we are living. Proof of this is the fact that the missionary vocational proposal Ad Gentes today attracts little or no young people in the western world, even if, for the moment, it works in the young churches. It is therefore urgent that we realize this necessary change of model, not on an intellectual level but on a practical one, and that, as far as possible, we provide for it so as not to waste people, forces and material means in a missionary animation that will be forcibly ineffective and will only lead to frustration for those involved in this missionary field.

But what is the new mission model that we can and/or must promote? And which one should we avoid? First, we must avoid becoming entangled again in the colonial model, declared obsolete by all and yet still rewarding in some quarters. And secondly, we must persevere in the promotion of multiculturalism in our communities, a process which, thank God, we have introduced into our Xaverian identity, but which must be pursued correctly and consistently with a view to achieving the aims of the mission, its universality, its all-embracing dialogical openness, its commitment to the liberation of the poor, and the promotion of the values of the kingdom of cultures. We have seen with joy some beautiful and encouraging applications of this mission model. But we must not hide from the risk of implementing it with an ethnic or nationalist emphasis. In fact, we notice the tendency in certain confreres to "return" to an "ethno-centred" identity, whereby, for example, Xaverians of one origin tend to stay or return to their homeland to form future Xaverians of their own nationality. This is a form of degeneration of multiculturalism.

There is yet another foreseeable risk on the horizon of our Institute which concerns the Xaverian circumscriptions, of ancient foundation, which no longer have local vocations. They are already experiencing a progressive shrinkage and may even disappear in the near future. The most striking case is Italy, which in ten years' time - it is predicted - will no longer have Italian confreres on mission outside or inside its borders but will be transformed into a kind of RSA (Residenze Sanitarie Assistenziali) for elderly and sick missionaries and, if it survives, will become the historical museum of the Founder and the Xaverian Institute.

This outcome can be avoided with the commitment of all sectors of the congregation. In fact, letting the Italian region die out, as it seems to be in the plans or at least in the current practice, would be detrimental to the entire Xaverian Institute; it would lead to the extinguishing of the founding culture and, with it, to the loss of the charismatic inspiration and history of the Xaverian Institute; and, with history, also of the universal thrust of the mission entrusted to us. If we want to "love our vocation", we will have to develop a more lively co-responsibility of the entire Institute towards the regions in need of new personnel.

The immediate commitment of the Congregation must therefore be the development of an authentic interculturality, which entails the integration of the various cultures both at the level of values and of missionary personnel, with authentic intercultural communities in the mission and in the various regions, whether old or new, in formation as well as in direct missionary activity. These topics, in my humble opinion, should be courageously addressed by the next General Chapter.

Tavernerio, 25 April 2023.
Gabriele Ferrari s.x.


A la veille du 18ème Chapitre Général

Quelques considérations sur la situation actuelle de l'Institut Xavérien

En toute simplicité et à voix basse, je voudrais partager quelques réflexions qui surgissent en moi quand je pense à la situation que nous vivons au sein de notre Institut et qui devrait être prise en considération par le prochain chapitre général. Cette situation, j'ose l'appeler avec le terme "crise", dans le sens d'une transition dont on espère qu'elle conduira à une évolution positive. Cette crise s'articule - à mon avis - en trois points ou symptômes liés : a) le déclin numérique de l'Institut xavérien, b) la réduction conséquente de certaines Circonscriptions xavériennes, en particulier les plus anciennes, et l'extinction prévisible de certaines d'entre elles et c) le changement du modèle de mission qui détermine notre façon de vivre la mission, qui est notre raison d'être, et que nous présentons aux possibles candidats.

Depuis quelque temps, nous sommes conscients de devoir identifier et promouvoir un autre modèle de mission, différent, à la place du modèle traditionnel que nous désignons maintenant comme le modèle "colonial". Il a été archivé par le Concile Vatican II qui l'a remplacé par le modèle dialogico-œcuménique, qui peine pourtant à s'imposer.

Personnellement, je suis de plus en plus convaincu que la crise actuelle de la mission est précisément liée à l'épuisement du modèle colonial et à la difficulté de le remplacer par un autre modèle plus approprié au moment historique et ecclésial que nous vivons. Preuve en est que la proposition de la vocation missionnaire ad gentes n'attire aujourd'hui que peu ou pas de jeunes dans le monde occidental même si, pour l'instant, elle fonctionne dans les églises jeunes. Il est donc urgent que nous réalisions ce nécessaire changement de modèle, non pas au niveau intellectuel mais au niveau pratique, et que, dans la mesure du possible, nous prenions des mesures pour ne pas gaspiller des personnes, des forces et des moyens matériels dans une animation missionnaire qui sera nécessairement inefficace et ne fera que provoquer de la frustration chez ceux qui sont chargés.

Mais quel est le nouveau modèle de mission que nous pouvons et/ou devons promouvoir ? Et lequel doit-on éviter ? Tout d'abord, il faut éviter de rester empêtré dans le modèle colonial, que tout le monde déclare obsolète et pourtant toujours gratifiant dans certains milieux. Et, deuxièmement, nous devons persévérer dans la promotion du multiculturalisme dans nos communautés, un processus que, grâce à Dieu, nous avons introduit dans notre identité xavérienne, mais qui doit être poursuivi correctement et de manière cohérente en vue d'atteindre les objectifs de la mission, son universalité, de son ouverture au dialogue à 360°, de son engagement pour la libération des pauvres, de la promotion des valeurs du domaine des cultures. Nous avons heureusement vu de belles et encourageantes applications de ce modèle de mission. Mais il ne faut pas cacher le risque de le faire avec une emphase ethnique ou nationaliste. En effet, on note la tendance chez certains confrères à "revenir" à une identité "ethnocentrée", par exemple les Xavériens d'une même origine ont tendance à rester ou à retourner dans leur pays d'origine pour former les futurs Xavériens de leur propre nationalité. C'est une forme de dégénérescence du multiculturalisme.

Il y a encore un autre risque prévisible à l'horizon de notre Institut qui concerne les circonscriptions xavériennes, de fondation ancienne, qui n'ont plus de vocations locales. Ils connaissent déjà un rétrécissement progressif et, à court terme, ils pourraient même disparaître. Le cas le plus frappant est l'Italie qui dans dix ans - c'est prévu - n'aura plus de confrères italiens en mission à l'extérieur ou à l'intérieur de ses frontières, mais sera transformée en RSA (Residenze Sanitarie Assistenziali) pour les missionnaires âgés et malades et, si elle survivra, elle deviendra le musée historique du Fondateur et de l'Institut Xavérien.

Ce résultat peut être évité avec l'engagement de tous les secteurs de l’Institut. En fait, laisser disparaître la région italienne, comme cela semble être dans les plans ou du moins dans la pratique actuelle, serait préjudiciable à tout l'Institut xavérien ; elle conduirait à l'extinction de la culture fondatrice et, avec elle, à la perte de l'inspiration charismatique et de l'histoire de l'Institut Xavérien ; et, avec l'histoire, aussi de l'élan universel de la mission qui nous est confiée. Si nous voulons "aimer notre vocation", nous devrons développer une coresponsabilité plus vivante de tout l'Institut envers les régions qui ont besoin de nouveaux ouvriers.

L'engagement immédiat de la Congrégation doit donc être le développement d'une authentique interculturalité qui implique l'intégration des différentes cultures tant au niveau des valeurs que du personnel missionnaire, avec d'authentiques communautés interculturelles en mission et dans les différentes régions, qu'elles soient anciennes ou nouvelles, en formation comme en activité missionnaire directe. Ces sujets, à mon humble avis, devraient être courageusement abordés par le prochain Chapitre général.

Tavernerio, 25 avril 2023.
Gabriele Ferrari sx


En vísperas del XVIII Capítulo General

Algunas consideraciones sobre la situación actual del Instituto Javeriano

Con toda sencillez y como en voz baja, quisiera compartir algunas reflexiones que surgen en mí cuando pienso en la situación que estamos viviendo al interno de nuestra Congregación y que deberían ser examinadas por el próximo Capítulo General. Esta situación me atrevo a llamarla “crisis”, en el sentido de pasaje que se espera que conduzca a un desarrollo positivo. Esta crisis se articula -en mi opinión- en tres puntos o síntomas, interconectados entre sí: a) el descenso numérico del Instituto Javeriano, b) la consiguiente reducción de algunas circunscripciones javerianas, especialmente las más antiguas, y la previsible extinción de algunas de ellas, y c) el cambio en el modelo de misión que determina nuestro modo de vivir la misión, que es nuestra razón de ser, y que proponemos a los posibles candidatos.

Desde hace ya algún tiempo somos conscientes de la necesidad de descubrir y promover otro diferente modelo de misión, que sustituya al tradicional, que ahora llamamos comúnmente modelo “colonial”. Fue enviado a los archivos por el Concilio Vaticano II, que lo sustituyó con un modelo dialógico-ecuménico, que, sin embargo, fatiga mucho para consolidarse.

Personalmente, estoy cada vez más convencido de que la actual crisis de la misión está ligada precisamente al agotamiento del modelo colonial y a la dificultad de sustituirlo con otro más adecuado al momento histórico y eclesial que vivimos. Prueba de ello es el hecho de que la propuesta vocacional misionera ad gentes atrae hoy poco o nada a los jóvenes del mundo occidental, aunque, por el momento, funcione en las Iglesias jóvenes. Urge, pues, que nos demos cuenta de este necesario cambio de modelo, no a nivel intelectual, sino práctico, y que, en la medida de lo posible, lo preveamos para no malgastar personas, fuerzas y medios materiales en una animación misionera que será forzosamente ineficaz y que sólo conducirá a la frustración de los implicados en este trabajo.

Pero, ¿cuál es el nuevo modelo de misión que podemos y/o debemos promover? ¿Y cuál debemos evitar? En primer lugar, debemos evitar enredarnos de nuevo en el modelo colonial, declarado obsoleto por todos y que, sin embargo, sigue siendo gratificante en algunos sectores. Y, en segundo lugar, debemos perseverar en la promoción de la multiculturalidad en nuestras comunidades, un proceso que, gracias a Dios, hemos introducido en nuestra identidad javeriana, pero que debe llevarse a cabo de forma correcta y coherente con vistas a alcanzar los objetivos de la misión, su universalidad, su apertura dialógica total, su compromiso con la liberación de los pobres y la promoción de los valores del reino presentes en las culturas. Hemos visto con alegría algunas aplicaciones hermosas y alentadoras de este modelo de misión. Pero no debemos escondernos del riesgo de aplicarlo con un acento étnico o nacionalista. De hecho, observamos la tendencia en ciertos hermanos a “retornar” a una identidad “etnocéntrica”, por la que, por ejemplo, los Javerianos de una misma proveniencia tienden a permanecer o a volver a su tierra natal para formar futuros Javerianos de su propia nacionalidad. Se trata de una forma de degeneración de la multiculturalidad.

Hay otro riesgo previsible en el horizonte de nuestro Instituto que concierne a las circunscripciones javerianas, de antigua fundación, que no tienen vocaciones locales. Ya están experimentando una reducción progresiva y podrían incluso desaparecer en un futuro próximo. El caso más llamativo es el de Italia, que dentro de diez años -se prevé- ya no tendrá hermanos italianos en misión fuera o dentro de sus fronteras, sino que se transformará en una RSA (Residenze Sanitarie Assistenziali) para los misioneros ancianos y enfermos y, si sobrevive, se convertirá en el museo histórico del Fundador y del Instituto javeriano.

Este desenlace puede evitarse con el compromiso de todos los sectores de la congregación. De hecho, permitir que la región italiana se extinga, como parece ser el plan o al menos la práctica actual, sería perjudicial para todo el Instituto Javeriano; llevaría a la extinción de la cultura fundacional y, con ella, a la pérdida de la inspiración carismática y de la historia del Instituto Javeriano; y, con la historia, también del impulso universal de la misión que se nos ha confiado. Si queremos “amar nuestra vocación”, tendremos que desarrollar una corresponsabilidad más viva de todo el Instituto hacia las regiones necesitadas de nuevo personal.

El compromiso inmediato de la Congregación debe ser, por tanto, el desarrollo de una auténtica interculturalidad que comporte la integración de las diversas culturas tanto a nivel de valores como de personal misionero, con auténticas comunidades interculturales en la misión y en las diversas regiones, ya sean antiguas o nuevas, tanto en la formación como en la actividad misionera directa. Estos temas, en mi humilde opinión, deberían ser abordados con valentía por el próximo Capítulo General.

Tavernerio, 25 de abril 2023.
Gabriele Ferrari sx


Na véspera do XVIII Capítulo Geral

Algumas considerações sobre a situação atual do Instituto Xaveriano

De forma simples e discreta, gostaria de compartilhar alguns pensamentos que surgem em mim quando penso na situação que estamos vivendo dentro da nossa Congregação e que deve ser avaliada no próximo Capítulo Geral. Essa situação que ousaria chamar de "crise", no sentido de uma transição que se espera leve a um desenvolvimento positivo. Essa crise se articula - na minha opinião - em três pontos, ou sintomas, interligados: a) a queda numérica do Instituto Xaveriano, b) o consequente redimensionamento de algumas circunscrições xaverianas, especialmente as mais antigas, e o previsível desaparecimento de algumas delas e c) a mudança do modelo de missão que determina a nossa maneira de viver a missão, que é a nossa razão de ser, e que apresentamos aos possíveis candidatos.

Há muito tempo, estamos conscientes da necessidade de identificar e promover um modelo de missão diferente, em vez do modelo tradicional que agora chamamos comumente de modelo "colonial". Ele foi arquivado pelo Concílio Vaticano II, que o substituiu pelo modelo dialógico-ecumênico, mas que tem dificuldade em se afirmar.

Pessoalmente, estou cada vez mais convencido de que a crise atual da missão está relacionada precisamente ao esgotamento do modelo colonial e à dificuldade de substituí-lo por outro modelo mais adequado ao momento histórico e eclesial que estamos vivendo. A prova disso é o fato de que a proposta missionária ad gentes hoje atrai pouco ou nenhum jovem do mundo ocidental, embora, por enquanto, esteja funcionando nas jovens Igrejas. Portanto, é urgente que percebamos essa necessária mudança de modelo, não apenas intelectualmente, mas praticamente, e que, tanto quanto possível, nos esforcemos para não desperdiçar pessoas, forças e recursos materiais em uma animação missionária que será necessariamente ineficaz e levará apenas à frustração dos envolvidos.

Mas qual é o novo modelo de missão que podemos e/ou devemos promover? E qual devemos evitar? Primeiro, devemos evitar ficar presos ao modelo colonial, declarado obsoleto por todos, mas ainda gratificante em certos ambientes. Segundo, devemos perseverar na promoção da multiculturalidade em nossas comunidades, um processo que, graças a Deus, introduzimos em nossa identidade xaveriana, mas que deve ser levado adiante de forma correta e consistente em vista do alcance dos objetivos da missão, de sua universalidade, de sua abertura dialógica a 360 graus, de seu compromisso com a libertação dos pobres e da promoção dos valores do Reino nas culturas. Com alegria, podemos já observar aplicações belas e encorajadoras desse modelo de missão. Mas não devemos ignorar o risco de realizá-lo com uma ênfase étnica ou nacionalista. De fato, notamos a tendência em certos confrades de "voltar" para uma identidade "etnocêntrica", por exemplo, os Xaverianos de uma determinada origem tendem a permanecer ou voltar para o seu país para formar futuros Xaverianos da sua nacionalidade. É uma forma de degeneração da multiculturalidade.

Há outro risco previsível no horizonte de nosso Instituto que diz respeito às circunscrições Xaverianas de antiga fundação que não têm mais vocações locais. Elas já estão vivendo um progressivo estreitamento e, em breve, também podem desaparecer. O caso mais evidente é o da Itália, que daqui a dez anos - prevê-se - não terá mais confrades italianos em missão fora ou dentro de suas fronteiras, mas se transformará em uma “Casa de Repouso” para missionários idosos e doentes e, se ainda existir, se tornará um museu histórico do Fundador e do Instituto Xaveriano.

Esse resultado pode ser evitado com o compromisso de todos os setores da Congregação. De fato, permitir que a região italiana se extinga, como parece ser o plano ou pelo menos a prática atual, seria prejudicial para todo o Instituto Xaveriano; levaria ao desaparecimento da cultura fundacional e, com ela, à perda da inspiração carismática e da história do Instituto Xaveriano; e, com a história, também do impulso universal da missão confiada a nós. Se quisermos "amar nossa vocação", teremos que desenvolver uma corresponsabilidade mais viva de todo o Instituto em relação às regiões que precisam de novos confrades.

O compromisso imediato da Congregação deve, portanto, ser o desenvolvimento de uma autêntica interculturalidade que envolve a integração das várias culturas tanto em termos de valores quanto de pessoal missionário, com comunidades interculturais autênticas em missão e em diferentes regiões, antigas ou novas, na formação e na atividade missionária direta. Esses temas, em minha modesta opinião, devem ser corajosamente abordados pelo próximo Capítulo Geral.

Tavernerio, 25 de abril de 2023.
Gabriele Ferrari s.x.

 

Gabriele Ferrari sx
02 Junio 2023
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