di Paolo Boschini[1]
0. Una premessa doverosa
La riflessione che vi propongo ha un pregio e un limite di fondo. Il pregio: è il frutto di un lavoro seminariale condotto insieme ai miei studenti del biennio filosofico-teologico; giovani teologi, in buona parte seminaristi, che leggono e discutono la letteratura scientifica recente su «Giovani, fede e scelte di vita oggi in Italia» e si interrogano sull’annuncio della fede ai loro coetanei. Il difetto: questo lavoro di ricerca fu fatto nell’A.A. 2017-18, in preparazione al Sinodo sui giovani; sono passati circa sei anni; il mondo è cambiato molto rapidamente e in mezzo c’è stato prima il Covid-19 e adesso la guerra ucraina. Consapevole di ciò e a costo di risultare generico, mi soffermerò su quelli che penso essere i movimenti più profondi del mondo giovanile italiano e delle pastorali delle nostre chiese rivolte alle ultime generazioni.
1. Una lettura antropologica in chiave evangelizzatrice
1.1. Emerge un quadro frastagliato e contraddittorio dell’odierna condizione dei giovani in Italia e della loro relazione con le religioni e in particolare con il cattolicesimo che, dicono le indagini recenti, ha continuato a perdere appeal tra le ultime generazioni. È davvero bastata una generazione scettica, per generare un’ondata mai vista di indifferenza religiosa e di ateismo esplicito? Questa è la prima di una serie di domande sulle cause di questo fenomeno, che abbiamo tutti sotto gli occhi, ma facciamo fatica a comprendere.
La forza d’urto delle trasformazioni sociali, culturali e tecnologiche è stata così potente, da scardinare tradizioni religiose secolari?
Oppure la fede cattolica, ereditata dalle generazioni passate e spesso esibita con una buona dose di trionfalismo ecclesiale, si è improvvisamente rivelata in tutta la sua strutturale fragilità?
Oppure ancora l’odierno contesto plurale e individualista ha delegittimato le forme istituzionalizzate e gerarchiche della religiosità e ha spostato l’accento sulla dimensione interiore e privata del credere, o su nuove modalità comunitarie basate sul legame tra pari, che disconoscono sempre e comunque il principio di autorità?
Certo è che, come le altre principali agenzie di socializzazione e di educazione, anche la Chiesa cattolica italiana si è trovata impreparata di fronte alla sfida dei linguaggi digitali, con cui comunica la generazione dei millennials. Altrettanto certo è che oggi l’atteggiamento dei giovani italiani verso la fede cattolica è fortemente polarizzato: ateismo esplicito e indifferenza religiosa, da una parte; fede militante e appartenenza alla propria comunità, dall’altra. In un caso come nell’altro manca un forte sentimento di appartenenza alla chiesa universale. Vediamo più da vicino.
Nelle varie forme in cui oggi si presenta in Italia, il cosiddetto ateismo giovanile ha una forte matrice polemica:[2] si propone come rifiuto di una fede dottrinale e fortemente istituzionalizzata, costituita come un’ideologia religiosa e percepita come imposta dall’alto e imperniata su una visione antiscientifica del mondo e su una rappresentazione moralistica di Dio. Laddove invece la fede viene annunciata e proposta come incontro vitale, essa conserva la capacità di lasciare un’impronta etica e spirituale nell’esistenza personale e di ispirare le scelte che plasmano la vita. Si profila così una fede modulabile e flessibile che, a seconda dei momenti personali e dei contesti sociali, si riconosce in misura maggiore o minore nei modelli religiosi istituzionalizzati. Si può essere, nel medesimo tempo, entusiasti estimatori di papa Francesco e critici spietati della Chiesa cattolica.
1.2. Sono fondamentalmente due i processi, che stanno contribuendo a accelerare lo scetticismo dei giovani italiani nei confronti dell’esperienza religiosa. Il primo è l’aumento esponenziale di informazioni, molte delle quali non controllate, a cui i giovani hanno accesso nell’odierno sistema delle comunicazioni mass-mediali. Negli ambienti digitali l’esperienza religiosa viene spesso presentata come un’impostura o un’imposizione, che inquina la vita personale o la condanna a una visione anacronistica del mondo e a una condizione sociale da «sfigati». Il secondo processo è la crescita anche tra i giovani di un certo «analfabetismo religioso», che segna il sostanziale fallimento del catechismo a pioggia, a cui è tuttora sottoposta la stragrande maggioranza della popolazione infantile italiana. Ateismo, agnosticismo, indifferenza religiosa, cattolicesimo critico sono anche il prodotto di una pastorale educativa di mera conservazione, che non è stata capace di trasferire il rinnovamento post-conciliare dai documenti ufficiali e dalle sedi accademiche alle pratiche delle chiese presenti sul territorio.
1.3. Una lettura scientifica del mondo giovanile italiano ci è offerta da un recente rapporto dell’Istituto di ricerca sociale «Giuseppe Toniolo».[3] Viene descritto come «una generazione in equilibrio precario tra rischi da cui difendersi e opportunità a cui tendere» (p. 9). I giovani italiani vivono in una realtà in cui tutto sembra vacillare. Per questo è ancora più importante ascoltare la loro fatica nel passaggio alla vita adulta e cogliere le aspettative verso il futuro, in termini di desideri da trasformare «in solidi progetti di vita» (p. 14). Quali elementi ci può, dunque, fornire questo rapporto per interpretare i Millenials?
Il primo snodo di transizione verso la vita adulta è la scuola. Emerge un quadro inaspettato: i giovani vedono la scuola come «una risorsa sulla quale investire», poiché da un lato forma la persona e le sue capacità, mentre dall’altro allena alla convivenza sociale. Occorre «ripensare complessivamente l’impianto didattico», in modo da favorire il protagonismo delle nuove generazioni (pp. 42-43).
Un secondo snodo di transizione dei giovani verso l’età adulta è la famiglia. Quali aspettative di autonomia abitativa hanno i giovani? Quali riguardo alla formazione di una nuova famiglia? Le speranze dei giovani italiani sono in linea con quelle dei coetanei europei. Ma a causa delle carenze del welfare del nostro paese, non riescono a realizzare i loro progetti. Inoltre, tra gli Under 18 è sempre più importante il passaggio da uno stile educativo prescrittivo ad uno che privilegi piuttosto la dimensione affettiva (p. 187): dal fare le cose per dovere al viverle perché ci si sente oggetto e soggetto di attenzione e di cura.
Un terzo snodo verso l’età adulta è l’orizzonte europeo, in cui i Millenials si sentono inseriti. Essi manifestano un’indubbia disponibilità a buttarsi in quel contesto di grande mobilità umana, che caratterizza il mondo attuale. Sono propensi a lasciare il proprio paese per vivere e lavorare stabilmente all’estero. Amano le «appartenenze multiple» (p. 108) e le percepiscono come un’opportunità, anche se «quella che i giovani desiderano è un’Europa ancora in gran parte da fare» (p. 118). Non si sentono una generazione di «prigionieri del presente in un paese senza futuro», come cantava Fedez un po’ di anni fa.[4]
2. Quali segni distintivi tra l'epoca passata e la nuova epoca nella pastorale giovanile in Italia?
2.1. Si può leggere il XV Sinodo ordinario dei Vescovi – da cui è scaturita la Christus vivit, finora uno dei testi meno conosciuti e citati del magistero di papa Francesco – come una decisa presa di coscienza e un’assunzione di responsabilità della Chiesa a proposito dell’erosione del cristianesimo tra i giovani, che vivono nei paesi di più antica tradizione cattolica. Ma lo si può intendere anche come un mea culpa, forse arrivato un po’ tardi, per il poco ascolto e il poco spazio che i laici adulti e i ministri consacrati riservano ai giovani all’interno della Chiesa. Chiamando i giovani a un atteggiamento di protagonismo, si tenta di invertire la loro tendenza all’esodo e di ripristinare l’alleanza tra Chiesa e mondo giovanile, che si è seriamente indebolita in molte aree dell’Europa cattolica e anche nel nostro Paese. Da essa dipende non solo la sopravvivenza del cattolicesimo, ma soprattutto la sua rigenerazione all’interno di una società sempre più plurale e complessa, caotica e frammentata.
2.2. Come papa Francesco vede la nuova impostazione della pastorale giovanile in Italia?[5] Gli adolescenti e i giovani vivono dentro di sé la «prima rivoluzione» della vita. E «dove c’è vita c’è movimento, dove c’è movimento ci sono cambiamenti, ricerca, incertezze, c’è speranza, c’è gioia, e anche angoscia e desolazione» (pp. 17-18). Per questo naturale carattere instabile, i giovani sono spesso privati delle loro radici o addirittura scartati dal mondo degli adulti, che tende sempre più a considerare l’adolescenza come una patologia e la giovinezza come il tempo della precarietà sociale. Questo processo di «deumanizzazione dell’umano» rende i giovani vulnerabili, succubi alla cultura dello scarto e all’abitudine dell’usa e getta. Prova ne è la loro fatica a vivere legami forti: «il web lascia i giovani per aria e per questo estremamente volatili»; il frequente abuso di alcol rende «orfani del proprio corpo e della propria ragione». Ma è tutta la società che oggi vive senza radici: «senza la testa e senza il cuore». Francesco vede nel dialogo intergenerazionale – specialmente in quello tra giovani e anziani – l’unica via di salvezza: «due generazioni di scartati possono salvare tutti» (pp. 22-25, 30-34, 58).[6] E parimenti propone l’immagine di «Dio giovane, capace di rinnovare, ringiovanirsi continuamente e ringiovanire tutto»: un Dio che «stupisce e ama lo stupore», che sogna e fa sognare, che «è forte e entusiasta». Un Dio «social», che «costruisce relazioni e chiede a noi di fare altrettanto» (pp. 52- 53). Davanti a tanti giovani che oggi hanno «la paura di non essere amati» Dio affida ai giovani una missione: «lottare quotidianamente per migliorare questo mondo a partire dalle piccole cose» (pp. 78-80). Non bisogna avere paura di mettersi in gioco nella dimensione micro dell’esistenza, perché «tutto è in relazione, tutto è integrato e in movimento»: la cura di sé e degli altri «è inseparabile dalla fraternità, dalla giustizia e dalla fedeltà» (p. 86).[7]
È questa visione «poliedrica» del mondo, che mette i giovani al riparo dal «conformismo del pensiero unico» e di una «globalizzazione sferica» e li libera dall’«autismo dell’intelletto» (pp. 92-93). Papa Francesco propone ai giovani di abbandonare perciò l’immobilità di una vita vissuta nella chiusura irrelata dell’attimo; e di aprirsi invece allo «sviluppo» sorprendente del tempo (pp. 105- 106). E alla Chiesa cattolica chiede la capacità di «proporre loro mete ampie, grandi sfide»: «non lasciamoli soli; perciò, sfidiamoli più di quanto loro stessi ci sfidano. Aiutiamoli a crescere sanamente anticonformisti!» (p. 114).[8] Una Chiesa tenera, aperta, dialogante, mobile, povera, profetica; e dunque una Chiesa giovane. Questa è l’utopia ecclesiale di papa Francesco.
3. Cosa si intende oggi con l’espressione nuovo paradigma nelle pastorali giovanili in Italia?
La vostra domanda vuole chiaramente capire se siamo di fronte a una nuova rivoluzione copernicana. La mia risposta è sì e il nome di questo radicale cambio di paradigma è «rivoluzione digitale». Quindi mi permetto di riformulare il vostro interrogativo così: quali pastorali giovanili (il plurale è d'obbligo e spiegherò alla fine il perché) è possibile sviluppare nell’epoca della rivoluzione digitale?
3.1. Oggi il «cambio di paradigma» educativo ecclesiale deve essere declinato a partire dal cambio di paradigma comunicativo sociale.[9] La rivoluzione digitale viene da lontano: affonda le sue radici e attinge i suoi valori da processi sociali e culturali avviati dalla modernità (secc. XVI-XIX). Li nomino soltanto, per richiamarli alla nostra memoria: il pluralismo reso possibile dal pensiero scientifico, dal suo metodo probabilistico e altamente specialistico; la crescente partecipazione alla vita sociale fomentata dagli ideali politici dell’Illuminismo (repubblica e diritti umani); la conquista dell’autonomia da parte dell’individuo, grazie soprattutto allo sviluppo di un’economia basata sul diritto d’impresa e sul libero mercato. La rivoluzione digitale completa il passaggio «dall’istruzione all’interazione»: buona parte dell’umanità odierna non vuole apprendere per indottrinamento, ma per via di esperienze e di relazioni.
In questo contesto profondamente cambiato, a partire dal secondo dopoguerra anche le comunità religiose sono state costrette a potenziare le loro «risorse comunicative», per fare fronte all’affermarsi di una «religiosità errante» propagandata da «indovini e venditori». Non senza mal di pancia, sotto l’influenza del papato mediatico di Giovanni Paolo II, negli ultimi trent’anni la Chiesa cattolica italiana ha dovuto potenziare il proprio carattere comunitario e movimentista, orientando verso l’esterno la sua azione pastorale.
A partire dal 2004 (l’anno in cui prese piede il web 2.0, quello che rende possibile le piattaforme social-media) l’«incarnazione nel mondo multimediale» richiede di vivere «fede come prassi comunicativa» e di coltivarla all’insegna della pluralità e della partecipazione: non c’è altro modo per «tener desta la domanda di Dio nella società post-secolare» (pp. 15-26). Ma non basta aprire un sito web parrocchiale o trasmettere la messa domenicale in streaming su Facebook. Oggi la chiesa cattolica è chiamata a strutturarsi come «comunità reale di comunicazione», se vuole continuare a proporre l’utopia di una «comunicazione ideale» e globale (di tutti con tutti), basata sul riconoscimento e sull’intesa vicendevoli, in cui rendere visibile e concreto l’annuncio e l’esperienza del regno di Dio (pp. 42-51).
3.2. La «rivoluzione digitale» è un segno dei tempi, che attende di essere letto e accolto dai cristiani del XXI sec. Non possiamo chiuderci dogmaticamente nella solita critica al web 2.0 di massificare e manipolare gli esseri umani, specialmente i più giovani e sprovveduti.[10] I nativi digitali vivono in forma nuova il paradosso della condizione umana: si rapportano ai new media come a potenti «strumenti di ampliamento dell’io» e sognano la «dilatazione dell’uomo»; ma crescono anche «in un mondo connotato da una grande insicurezza» e sperimentano frequentemente «l’esclusione e la solitudine». Sono spaventati dalla loro condizione di marginalità e di irrilevanza sociale e perciò abitano i new media mettendo in atto una «ego-tattica», fatta spesso di «improvvisazione» e ricerca della propria «tranquillità», che li metta al riparo dall’improvvisa perdita di senso, figlia della «decostruzione di quanto è tramandato», operata proprio dai new media.
Davanti a questo radicale cambiamento dei punti di vista su Dio, uomo e mondo, alla pedagogia cristiana è richiesto di tenere aperti e se possibile «allargare gli orizzonti»; di «investigare parole e temi generativi» capaci di rimettere in movimento le nuove generazioni; di non appiattire la comunicazione religiosa su quella mass-mediale, così da tener sempre aperta la possibilità di una «sorpresa assoluta» (pp. 27-41). Non tutto il percorso educativo cristiano può essere vissuto e comunicato con linguaggio digitale. Ma l’ambiente digitale custodisce le domande di senso delle giovani generazioni, senza le quali non c’è alcun punto d’aggancio per la proposta cristiana.
Le pastorali giovanili sono perciò chiamate a cominciare il loro itinerario pedagogico da una più attenta comprensione dell’«impatto» dei nuovi ambienti comunicativi «sulla soggettività dell'individuo». Essi «sostituiscono l’esperienza diretta dell’altro con una percezione indiretta» e così creano «nuovi schemi mentali», che alterano «la percezione del nostro corpo e del nostro spazio». Si crea così uno spazio «ibrido»: i giovani si trovano a vivere in una situazione di totale «immersione» nell’ambiente dei social media, «come se» le storie e le emozioni narrate da altri fossero le loro. Si trasforma la percezione dell’alterità: si sperimentano le emozioni altrui, sentendole come proprie anche se non sono tali. E così subentra l’incapacità di percepire la distinzione tra sé e l’altro, fino al «disinteresse emotivo» verso gli altri e all’incapacità di comprendere sé stessi. Ciò ha il vantaggio di poter «gestire con sforzo limitato i legami deboli», dedicandosi a essi con una strategia di personal branding; e trascurando di pari passo i legami forti. «Il risultato finale è un’identità fluida e plurale, che è al tempo stesso flessibile ma precaria, mutevole ma incerta» (pp. 71-81).
Le pastorali giovanili devono saper lavorare sull’umano, per integrare il «mondo veloce» della connessione permanente e della iperstimolazione da immagini con il valore dell’«educazione lenta», all’insegna della riflessività e della riscoperta di sé (pp. 82-88).
4. Come noi missionari (non tutti italiani) possiamo contribuire nell'individuare e costruire delle nuove mappe per l'annuncio del Vangelo ai giovani in Italia?
La formazione e l’esperienza missionaria dei Saveriani e delle altre famiglie religiose missionarie presenti nelle chiese locali italiane può essere di grande aiuto specialmente in alcuni segmenti del mondo giovanile Over 18: nell’età in cui la consapevolezza etica s’irrobustisce e, vivendo già la stagione delle scelte, si diventa più disponibili a mettersi in gioco su grandi questioni che sono collocate fuori dall’orticello di casa propria.
4.1. Una seria – anche se non recentissima – ricerca del sociologo torinese Franco Garelli sui giovani-adulti italiani e il loro rapporto con la fede cattolica ci propone cinque tipologie.[11] C’è il giovane religiosamente «alieno», lontano da ogni idea e pratica di fede (12%). Poi c’è il giovane «secolarizzato», che si è progressivamente allontanato dagli ambienti religiosi (spec. cattolici) in cui ha ricevuto la propria formazione da ragazzo o da adolescente (21%). La terza tipologia è quella del «naufrago», che sente per la prima volta l’interesse per la fede e la spiritualità quando è ormai giunto all’ingresso dell’età adulta (10%). Decisamente maggioritaria è la figura del giovane «intermettente», che non rinnega le proprie radici religiose familiari e ecclesiali, ma le vive con una frequentazione saltuaria e irregolare. La fede è spesso la terza o la quarta scelta tra molteplici interessi e impegni (45%). Infine, c’è uno zoccolo duro di giovani «convinti» (12%), che proseguono in modo lineare il percorso di fede intrapreso sia dall’infanzia (pp. 104-106).
Questi dati dicono che tra gli Under 30 non si assiste a un’ondata di ateismo di massa. Prevale piuttosto «un’idea nebulosa» della fede e della spiritualità. La maggior parte dei giovani italiani intervistati si colloca in una «terra di mezzo», in cui la fede come ogni altra opzione decisiva della vita personale dev’essere criticamente soppesata e è sempre passibile di variazione (pp. 241-217). Si tratta di persone per lo più culturalmente religiose, oppure incuriosite dal messaggio cristiano e parimenti deluse dall’attuazione offerta dalla chiesa ufficiale, o bisognose di sperimentare seppure per esperienze di breve durata la radicalità del vangelo.
Di fronte a questi giovani-quasi-adulti, affamati di punti di riferimento etici e interpellati da ineludibili questioni esistenziali, le nostre categorie teologiche standardizzate – prima evangelizzazione, seconda o nuova evangelizzazione, ecc. – si mostrano alquanto inadeguate. C’è bisogno di un discernimento e di un accompagnamento personalizzato, fatto di stare accanto, ascoltarsi, provare insieme esperienze significative, celebrare la fede con linguaggi non convenzionali. Lo stile missionario della famiglia saveriana ha questo respiro e è in grado di camminare con questi giovani, facendoli incontrare con modi autentici di vivere e dire la fede, perché appartengono al vissuto di popoli e di chiese che vivono la fede come scelta e non come tradizione culturale.
4.2. Il carisma missionario libera l’evangelizzatore dal bisogno di dare risposte certe a domande incerte e lo rende capace di radicalizzare gli interrogativi di senso, che si agitano nel più profondo dei giovani-quasi- adulti italiani. Davvero Dio è così lontano da te, da noi, dal mondo così come sembra? E una volta scoperta la presenza di un Dio ignoto, tanto dentro di sé quanto impastato con la sua creazione, si può fare una nuova inculturazione della fede, trovando nei linguaggi dei giovani di oggi formule brevi della fede: proprio come fa Luca in At 17,28, citando frasi di famosi poeti e filosofi ellenistici come Arato di Soli e Cleante.[12] Infatti la grande maggioranza dei giovani intervistati, credenti e non, dichiara che di per sé la fede in Dio è un’esperienza teoricamente plausibile, o almeno è un aiuto concreto per una vita più serena e per cercare risposte alle domande decisive dell’esistenza (pp. 65-69 e 72-75).
Ciò che fa problema – prosegue Garelli – non è l’immagine evangelica di Dio, ma la credibilità dell’istituzione-chiesa, di cui questa generazione ha deciso di fare senza, preferendo vivere l’esperienza della fede come ricerca spirituale personale. Molti di questi giovani raccontano di esperienze ecclesiali molto positive e coinvolgenti: hanno toccato con mano il volto benevolo della Chiesa cattolica; restano ammirati dal carisma di papa Francesco e di preti fuori dagli schemi, come don Ciotti. Eppure, si uniscono al coro di coloro che criticano spietatamente le istituzioni tradizionali della nostra società e ne prendono le distanze: probabilmente per mantenersi uno spazio di totale libertà di scelta (p. 71), volendo evitare preventivamente qualunque ingerenza nelle decisioni della vita personale (pp. 125-143), oppure volendo prendere le distanze dalla vita «ciecamente religiosa» dei nonni e dal cristianesimo culturale e forse anche ipocrita dei propri genitori (pp. 94-100).
4.3. Il carisma missionario è spiazzante, perché non appartiene a nessuna modalità di cristianesimo nota alla generazione dei giovani-quasi-adulti. Porta con sé il senso di una scoperta e la proposta di un’avventura. Si sottrae in partenza alla patina della convenzionalità, del compromesso, della contraffazione. Il messaggio cristiano che esso reca suona come una sfida modulabile, che ammette differenti gradi di coinvolgimento e di durata e lascia sempre una via di uscita, proprio come il «se vuoi» di Gesù (Mt 19,21). Resta il fatto che è un messaggio decisamente controcorrente, che si rivolge a persone disilluse sì, ma ancor più assetate di umanità. A giovani che cercano la propria felicità, il carisma missionario propone la liberazione degli oppressi. A persone preoccupate del proprio presente chiede di mettersi in gioco per il futuro di tutti.
I giovani che accettano di confrontarsi con questo messaggio di vita, e non solo di felicità individuale, smettono di sentirsi «orfani di qualcuno che li prenda sul serio» (pp. 173-177) e comprendono che non è evangelica la fede che si riduce a un’esperienza del tutto individuale, tale da non intaccare minimamente i comportamenti sociali (pp. 128-129).
5. Conclusione: pastorali giovanili convergenti
Giustamente, qualcuno si sarà chiesto perché ho sempre usato il plurale: pastorali giovanili. Il motivo è semplice. Se guardo alla pastorale giovanile della mia diocesi – Modena, Nonantola e tra poco anche Carpi – devo usare il plurale: accanto all’Ufficio diocesano che sostiene gli itinerari dei gruppi giovanili parrocchiali e vicariali, c’è la pastorale vocazionale; poi c’è il fiorentissimo MisMo; poi ci sono le associazioni laicali storiche AGESCI e ACI; quelle più recenti come CL e i Focolarini; poi ancora quelle legate a congregazioni religiose, come i francescani, i salesiani, ecc. E last bad not least la galassia degli oratori parrocchiali (ANSPI) e l’enorme movimento sportivo di ispirazione cattolica coordinato dal CSI. E ho sicuramente dimenticato altre realtà importanti della mia chiesa locale.
Non credo che sia possibile unificare tutta questa ricchezza e varietà di carismi, di metodi e di progetti. E non sarebbe neanche giusto. E poi si sa, nella chiesa italiana ognuno è gelosissimo della sua autonomia. Ma non ci possiamo neppure adagiare sullo status quo. Abbiamo tutti lo stesso problema: la crescente difficoltà dei giovani nei confronti del messaggio cristiano. E ci ostiniamo a volerlo affrontare ciascuno a proprio modo e per conto suo.
«Ognun per sé e Dio per tutti», dicevano i nostri nonni. Appunto: Dio per tutti!
Il carisma missionario è allenato al lavoro in équipe: ne conosce il metodo, ne apprezza i vantaggi e non ne nasconde i limiti e le fatiche. La Chiesa cattolica italiana vive non solo un cambiamento di paradigma pastorale, ma anche una drastica riduzione di risorse: umane, intellettuali e etiche, economiche. È il tempo di unire le forze, intorno alla questione fondante di ogni pastorale giovanile odierna: «Davvero una generazione senza Dio?», per usare ancora le parole di Garelli (p. 145). Sin dall’inizio del suo ministero petrino Francesco ha insistito a ripetizione sul mettere a punto una proposta di tipo kerygmatico, che susciti una prima apertura al messaggio evangelico e al Dio della tenerezza e della cura, che nel vangelo si fa parola umana. «Il kerygma è trinitario. È il fuoco dello Spirito che si dona sotto forma di lingue e ci fa credere in Gesù Cristo, che con la sua morte e resurrezione ci rivela e ci comunica l’infinita misericordia del Padre».[13]
Il cambiamento di paradigma pastorale a cui è chiamata tutta la Chiesa cattolica italiana – e non solo il suo settore giovanile – consiste in un itinerario che parte dalla centralità della questione sull’uomo e si inerpica fino alla centralità della questione di Dio: non solo come oggetto, ma soprattutto come soggetto dell’annuncio. Ma ciò è possibile se le nostre pastorali giovanili adottano sempre di più uno stile testimoniale[14] e se alla crisi di appartenenza ecclesiale di tanti giovani si risponde con una «chiesa in diaspora», che sceglie di attuare la sua sacramentalità in comunità «spesso piccole, povere e disperse [in cui] è presente Cristo». Dovremo rivedere il nostro concetto di cattolicità, in modo da rendere la chiesa «decentrata verso Cristo e verso gli uomini»:[15] dovremo «affidare l’identità cristiana ai cristiani, quindi dare fiducia, a tutti i livelli, ai processi spirituali di ricerca comune del vero».[16]
[1] Docente stabile di filosofia nella Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna (www.fter.it). Parroco di «Comunità vive in cammino sulla via Vandelli», nell’alto Appennino modenese (https://www.facebook.com/parr.rocca). E.mail: paolo.boschini@fter.it.
[2] Dell’ateismo giovanile si discute da tempo: L. BETTAZZI, Ateo a 18 anni?, Rizzoli, Milano 1982; A. MATTEO, La prima generazione incredula. Il difficile rapporto tra i giovani e la fede , Rubettino, Soveria M. 2010.
[3] ISTITUTO GIUSEPPE TONIOLO, La condizione giovanile in Italia. Rapporto giovani 2017, Il Mulino, Bologna 2017 (tra parentesi c’è il riferimento alle pagine citate nel testo).
[4] FEDEZ, Generazione Boh, 2014 (https://www.youtube.com/watch?v=_NhcJokNEos).
[5] FRANCESCO, Dio è giovane. Una conversazione con Thomas Leoncini, PIEMME, Milano-Città del Vaticano 2018 (tra parentesi c’è il riferimento alle pagine citate nel testo).
[6] Anche qui si ascolta un mantra di papa Francesco: il futuro del mondo dipende dalla «rivoluzione della tenerezza», che consiste nel mettere al centro della vita personale e sociale «l’immagine di Dio come madre dell’umanità», che si cura in modo «viscerale» di tutti gli esclusi.
[7] Un altro mantra del nostro Papa, che ribadisce: «Tutto deve essere connesso, deve essere integrato, sistematico e mobile, flessibile» (p. 113).
[8] Aggiunge Francesco: «Se vogliamo dialogare con un giovane dobbiamo essere mobili» e «privilegiare l’essenzialità del pensiero e uno stile di vita all’insegna della sobrietà» (pp. 27- 29).
[9] C. PASTORE, A. ROMANO (edd.), La catechesi dei giovani e i new media. Nel contesto del cambio di paradigma antropologico-culturale, ELLEDICI, Torino 2015 (tra parentesi c’è il riferimento alle pagine citate nel testo).
[10] ISTITUTO GIUSEPPE TONIOLO, La condizione giovanile in Italia, 155-156: contrariamente a quello che pensano molti adulti (quelli sì digitalmente sprovveduti!) i Millenials sono in grado di accorgersi con maggior facilità dei rischi che la rete presenta e di saperli valutare con mente critica.
[11] F. GARELLI, Piccoli atei crescono. Davvero una generazione senza Dio?, Il Mulino, Bologna 2016 (tra parentesi c’è il riferimento alle pagine citate nel testo).
[12] «In lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come hanno detto anche alcuni dei vostri poeti: “Perché di lui anche noi siamo stirpe”».
[13] FRANCESCO, Evangelii Gaudium, 2013, 164. Ibid., 165: «La centralità del kerygma richiede alcune caratteristiche dell’annuncio che oggi sono necessarie in ogni luogo: che esprima l’amore salvifico di Dio previo all’obbligazione morale e religiosa, che non imponga la verità e che faccia appello alla libertà, che possieda qualche nota di gioia, stimolo, vitalità, ed un’armoniosa completezza».
[14] C. THEOBALD, Il compito del testimone. Dispersione e futuro del cristianesimo, EDB, Bologna 2015, 35: «Percependosi esistente a partire da Dio [il testimone] è cosciente sia della sua inalienabile unicità o solitudine, sia, per la stessa ragione, del legame costitutivo che lo lega al resto dell’umanità nella ricerca del vero».
[15] C. THEOBALD, Urgenze pastorali. Per una pedagogia della riforma, EDB, Bologna 2019, 87.
[16] C. THEOBALD, Il compito del testimone, 27.
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