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Pellegrini di speranza

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La speranza è il tema che Papa Francesco ha indicato a tutta la Chiesa in occasione del Giubileo. Alla luce di questo tema proviamo a rileggere ciò che, quasi dodici anni fa, egli scrisse nel suo documento programmatico Evangelii gaudium. Possiamo, così, vedere che il tema della gioia richiama spesso quello della speranza, presente in oltre 20 numeri dell’esortazione apostolica.

Questo esercizio di lettura ci mostra che l’insistenza di Papa Francesco sulla gioia e sulla speranza è motivata non solo dall’importanza che i temi hanno in se stessi, ma dalla situazione che vivono la società e la Chiesa di oggi. Il Papa esprime un forte no al “pessimismo sterile” (cf EG 84-86) concludendo con un invito a non lasciarsi rubare la speranza. In modo molto significativo egli cita qui un ampio passo dell’allocuzione Gaudet Mater Ecclesia con cui Giovanni XXIII aprì i lavori del Concilio Vaticano II (11/10/1962). Come è ben noto, in quello storico discorso, il Papa dissentiva dai «profeti di sventura, che annunziano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo» (4.3). È un dissenso da coloro che considerano il presente sempre peggiore del passato. Questa è una tentazione per molti. Essa prende forza dal fatto che noi conosciamo il passato e, per quanto possa essere stato difficile, sappiamo più o meno come affrontarlo. Esiste, inoltre, un ben noto meccanismo psicologico che ci conduce a filtrare i ricordi, trattenendo i migliori e sfumando, e persino cancellando, quelli troppo dolorosi. Il futuro, invece, non lo conosciamo e l’ignoto ci fa paura.

Dobbiamo, per questo, affinare lo sguardo per scorgere i segni di bene che già sorgono nel presente. Giovanni XXIII, al contrario dei profeti di sventura, arriva ad affermare che l’umanità pare all’inizio di un nuovo ordine e che si devono «vedere i misteriosi piani della Divina Provvidenza, che si realizzano in tempi successivi attraverso l’opera degli uomini, e spesso al di là delle loro aspettative, e con sapienza dispongono tutto, anche le avverse vicende umane, per il bene della Chiesa» (4.4). Per fare una tale affermazione è necessario rimanere aperti alle sorprese dello Spirito e non bloccarsi nelle proprie vedute.

Giovanni XXIII non poteva certo immaginare che, di lì a poco, il Concilio avrebbe respinto praticamente tutti gli strumenti di lavoro preparati dai dicasteri della curia romana per andare molto più in là di quanto tanti avrebbero potuto sperare e altrettanti paventavano. Il Concilio non sarà un piccolo aggiornamento, ma un profondo ripensamento della Chiesa su se stessa e sulla propria missione nel mondo.

Tre anni più tardi Paolo VI concludeva i lavori del Concilio ribadendone il carattere pastorale: «Si dirà che il Concilio più che delle divine verità si è occupato principalmente della Chiesa, della sua natura, della sua composizione, della sua vocazione ecumenica, della sua attività apostolica e missionaria» (Allocuzione nell’ultima sessione, 07/12/1965). Al tempo stesso, tuttavia, ne metteva in evidenza la novità: «Ma una cosa giova ora notare: il magistero della Chiesa, pur non volendo pronunciarsi con sentenze dogmatiche straordinarie, ha profuso il suo autorevole insegnamento sopra una quantità di questioni, che oggi impegnano la coscienza e l’attività dell’uomo; è sceso, per così dire, a dialogo con lui» (Ibid.). La fiducia nell’uomo è divenuta dialogo con tutti, una parola che Giovanni XXIII non aveva pronunciato all’inizio e che è una delle acquisizioni più importanti dell’intero Concilio. Lo stesso giorno, 7 dicembre 1965, insieme al Patriarca Ecumenico Atenagora, Paolo VI firmava una dichiarazione comune «per togliere dalla memoria e nel mezzo della Chiesa le sentenze di scomunica dell’anno 1054». La fiducia generatasi in quegli ultimi tre anni di dibattito aveva potuto ciò che era stato impossibile nei novecentoundici anni precedenti.

Sono già passati altri 60 anni. Il mondo e la Chiesa sono ancor più complessi. La domanda oggi è come possiamo rimanere aperti alla fiducia e alla speranza senza cadere in un ottimismo ingenuo che non tiene conto della complessità del reale e del mistero dell’iniquità. È una questione seria che non è possibile liquidare frettolosamente. Con la possibilità di sperare, si mette in gioca il senso stesso della nostra fede. Noi crediamo, infatti, che Gesù è risorto. Egli è il Vivente. È presente in questo mondo sebbene esso tante volte lo rifiuti. Gesù non abita il passato, ma l’oggi. È questa l’esperienza che ha fatto Paolo sulla via di Damasco.

Saulo era tutto rivolto verso il passato e le sue tradizioni: «Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo: perseguitavo ferocemente la Chiesa di Dio e la devastavo, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri» (Gal 1,13-14).

Gesù era stato condannato e lo considerava parte di una deviazione da cancellare presto, ma lo incontra vivo: «Quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunciassi in mezzo alle genti…» (Gal 1,15-16).

Questo apre immediatamente un futuro diverso: «… subito, senza chiedere consiglio a nessuno, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco» (Gal 1,17).

Questo ci ricorda anche un aspetto fondamentale della vocazione missionaria. L’annuncio nasce da un incontro. È un elemento che troviamo nell’ultimo capitolo di Evangelii gaudium: “Evangelizzatori con Spirito”. Papa Francesco mette in guardia dal rischio di una spiritualità individualista e indica le motivazioni per rinnovare l’impegno missionario.

La prima motivazione è proprio l’incontro personale con Gesù e con il suo amore. È importante per noi ricordare quando e come abbiamo incontrato Gesù come colui che dice tutto della nostra vita (cf Gv 4,29). È altrettanto importante credere che a questo incontro aspirano tutti, sebbene molti inconsapevolmente.

È, inoltre, necessario fare una vera esperienza di appartenenza. Gesù «aspetta che rinunciamo a cercare quei ripari personali o comunitari che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano, affinché accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e conosciamo la forza della tenerezza. Quando lo facciamo, la vita ci si complica sempre meravigliosamente e viviamo l’intensa esperienza di essere popolo, l’esperienza di appartenere a un popolo» (EG 270). Così, anche, la missione entra profondamente in noi: «La missione al cuore del popolo non è una parte della mia vita, o un ornamento che mi posso togliere, non è un’appendice, o un momento tra i tanti dell’esistenza. È qualcosa che non posso sradicare dal mio essere se non voglio distruggermi. Io sono una missione su questa terra» (EG 273).

Noi crediamo che lo Spirito rende presente Gesù risorto. Come per Paolo, anche per noi questo non può essere senza conseguenze: «La sua risurrezione non è una cosa del passato; contiene una forza di vita che ha penetrato il mondo. Dove sembra che tutto sia morto, da ogni parte tornano ad apparire i germogli della risurrezione. È una forza senza uguali. È vero che molte volte sembra che Dio non esista: vediamo ingiustizie, cattiverie, indifferenze e crudeltà che non diminuiscono. Però è altrettanto certo che nel mezzo dell’oscurità comincia sempre a sbocciare qualcosa di nuovo, che presto o tardi produce un frutto» (EG 276).

La risurrezione ci dice proprio che la vita sgorga anche nella morte che, tuttavia, resta terribilmente reale. Dio può agire in ogni circostanza anche quando tutte le nostre imprese sembrano cadere nel vuoto: «Poiché non sempre vediamo questi germogli, abbiamo bisogno di una certezza interiore, cioè della convinzione che Dio può agire in qualsiasi circostanza, anche in mezzo ad apparenti fallimenti» (EG 279).

È lo Spirito che conduce la missione servendosi talvolta anche dei nostri progetti. Il teologo protestante David Bosch scriveva: «La missione è, piuttosto, missio Dei che cerca di assumere dentro di sé le missiones ecclesiae, i programmi missionari della Chiesa. Non è la Chiesa a “intraprendere” la missione; è la missio Dei a costituire la Chiesa» (La trasformazione della missione, 716). È una prospettiva che ci può liberare senza demotivarci. Noi dobbiamo fare i nostri progetti missionari, ma è Dio a condurre la missione. Anche se fallissero tutti i nostri progetti, non sarebbe in discussione la sua missione. Paolo fece in proposito un’esperienza emblematica. Lo Spirito Santo gli impedì di predicare il Vangelo nelle province dell’Asia e in Bitinia (cf At 16,6-7) e, al tempo stesso, gli aprì una strada che egli mai avrebbe immaginato: l’Europa (cf At 16,9-10).

Papa Francesco ricorda, infine, la forza missionaria dell’intercessione (cf EG 281-283). È tutt’altro che un discorso consolatorio per chi non può più agire. Carlo Maria Martini lo spiegò in modo magistrale durante una veglia per la pace in occasione della prima guerra del Golfo: «Intercedere non vuol dire semplicemente “pregare per qualcuno”, come spesso pensiamo. Etimologicamente significa “fare un passo in mezzo”, fare un passo in modo da mettersi nel mezzo di una situazione […] Intercedere è un atteggiamento molto più serio, grave e coinvolgente, è qualcosa di molto più pericoloso» (29/01/1991). L’intercessione agisce sulla realtà per cambiarla, iniziando con un cambiamento nell’intercessore stesso.

Una spiritualità missionaria genuina è stimolo di crescita e maturità personale, anche per vivere la speranza con equilibrio. La vocazione missionaria – come, d’altra parte, ogni vera vocazione – decentra da se stessi. Non è la nostra autorealizzazione che conta. Siamo inviati (perciò il nostro rapporto con Gesù) alle nostre sorelle e ai nostri fratelli (perciò l’esperienza di popolo e l’intercessione).

La debolezza che oggi sperimentiamo tante volte non impedisce a Dio di compiere i suoi piani: «Per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la forza, infatti, si manifesta pienamente nella debolezza”» (2Cor 12,8-9).

p. Maurizio Bevilacqua, Missionario Claretiano
6 Mars 2025
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