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La malattia del clericalismo secondo Papa Francesco

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Il clericalismo è una malattia che fa perdere ai sacerdoti la memoria del battesimo ricevuto, lasciando in secondo piano l'appartenenza allo stesso popolo santo e portandolo a vivere l'autorità nelle diverse forme di potere, senza rendersi conto della doppiezza, senza umiltà ma con atteggiamenti distaccati e altezzosi. Così papa Francesco qualifica il clericalismo nella sua lettera ai sacerdoti di Roma datata 5 agosto 2023.[1].

Li ha così avvertiti - come ha fatto molte volte - di quel tratto caratteristico della mondanità spirituale che è il clericalismo, il pericolo più grave per la Chiesa, secondo le parole di padre Henri de Lubac. Sopra è riportato l'estratto della lettera dedicata al clericalismo:

Vorrei (...) soffermarmi su un aspetto della mondanità. Quando entra nel cuore dei pastori, prende una forma specifica, quella del clericalismo. Perdonatemi se lo ripeto, ma come sacerdoti, penso che mi capiate, perché anche voi condividete ciò in cui credete in modo sincero, secondo quel tipico tratto buono romano (romantico!) che vuole che la sincerità delle labbra venga dal cuore, e che abbia il sapore del cuore! E io, da vecchio e dal cuore, voglio dirvi che mi preoccupa quando cadiamo in forme di clericalismo; quando, forse senza rendercene conto, ci lasciamo credere di essere superiori, privilegiati, posti "al di sopra" e quindi separati dal resto del popolo santo di Dio. Come mi ha scritto una volta un buon sacerdote, "il clericalismo è il sintomo di una vita sacerdotale e laicale tentata di vivere il ruolo e non il legame reale con Dio e con i fratelli". Insomma, è una malattia che ci fa perdere la memoria del battesimo ricevuto, lasciando in secondo piano la nostra appartenenza allo stesso popolo santo e portandoci a vivere l'autorità nelle diverse forme di potere, senza renderci conto della doppiezza, senza umiltà ma con atteggiamenti distaccati e altezzosi.

Per liberarci da questa tentazione, è bene ascoltare ciò che il profeta Ezechiele disse ai pastori: "Voi mangiate il grasso, vi vestite di lana, macellate gli animali grassi, ma non date da mangiare alle pecore. Non hai rafforzato i deboli, non hai guarito gli infermi, non hai vestito gli infermi, non hai riportato indietro i perduti, non hai cercato i perduti, li hai governati con la forza e la durezza» (34,3-4). La parola di Dio parla di "grasso" e di "lana", di ciò che nutre e riscalda; il rischio da cui la Parola ci mette in guardia è dunque quello di nutrire noi stessi e i nostri interessi, di assicurarci una vita comoda.

Certamente, come afferma sant'Agostino, il parroco deve vivere anche grazie al sostegno offerto dal latte del suo gregge; ma come commenta il Vescovo di Ippona: "Che prendano il latte dalle loro pecore, che ricevano ciò che è necessario per le loro necessità, ma non trascurino la debolezza delle pecore. Che non cerchino alcun beneficio per sé stessi, per timore che sembrino predicare il Vangelo per i loro bisogni e necessità; piuttosto, portino la luce della vera parola per illuminare gli uomini" (Sermone sui Pastori, 46:5). Allo stesso modo, Agostino parla della lana associandola agli onori: la lana, che copre le pecore, può farci pensare a tutto ciò che possiamo adornarci esternamente, cercando la lode degli uomini, il prestigio, la fama, la ricchezza. Il nonno latino scrisse: "Chi dà lana dà onore. Sono proprio queste due cose che i pastori, che nutrono se stessi e non le pecore, si aspettano dal popolo: il vantaggio di vedere soddisfatte le loro necessità e il favore dell'onore e della lode" (ibid., 46,6). Quando ci occupiamo solo del latte, pensiamo al nostro profitto personale; Quando cerchiamo ossessivamente la lana, pensiamo a coltivare la nostra immagine e ad aumentare il nostro successo. È così che perdiamo lo spirito sacerdotale, lo zelo per il servizio, il desiderio di prenderci cura della gente, e finiamo per ragionare secondo la follia del mondo: "Che cosa ha a che fare questo con me? Lascia che ognuno faccia quello che vuole, il mio sostentamento è al sicuro, così come il mio onore. Ho abbastanza latte e lana, ognuno faccia quello che vuole" (ibid., 46,7).

La preoccupazione è dunque centrata sull'"io": il proprio sostentamento, i propri bisogni, la lode ricevuta per sé stessi piuttosto che per la gloria di Dio. È quanto accade nella vita di chi cade nel clericalismo: perde lo spirito di lode perché ha perso il senso della grazia, lo stupore per la gratuità con cui Dio lo ama, quella fiduciosa semplicità del cuore che ci fa tendere le mani al Signore, aspettando da Lui il cibo al momento opportuno (cfr Sal 104, 27), consapevoli che senza di Lui nulla possiamo fare (cfr Gv 15,5). Solo vivendo questa gratuità potremo vivere il ministero e le relazioni pastorali in spirito di servizio, secondo le parole di Gesù: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8).

Dobbiamo guardare proprio a Gesù, alla compassione con cui vede la nostra umanità ferita, alla gratuità con cui ha offerto la sua vita per noi sulla croce. Questo è l'antidoto quotidiano alla mondanità e al clericalismo: guardare Gesù crocifisso, fissare ogni giorno lo sguardo su Colui che ha spogliato sé stesso e si è abbassato alla morte (cfr Fil 2,7-8). Ha accettato l'umiliazione per sollevarci dalle nostre cadute e liberarci dal potere del male. Così, guardando le piaghe di Gesù, guardandolo umiliarsi, impariamo che siamo chiamati ad offrirci, a farci pane spezzato per gli affamati, a condividere il cammino con gli stanchi e gli oppressi. Questo è lo spirito sacerdotale: diventare servitori del Popolo di Dio e non suoi padroni, lavare i piedi ai fratelli e non calpestarli.

Restiamo dunque vigili di fronte al clericalismo. L'apostolo Pietro, che, come ci ricorda la tradizione, si è umiliato a testa in giù nel momento di morire per essere uguale al suo Signore, ci aiuti ad allontanarci da Lui. L'apostolo Paolo, che per amore di Cristo considerava tutti i beni della vita e del mondo come rifiuti (cfr Fil 3,8), ci preservi da questo.

Il clericalismo, come sappiamo, può interessare tutti, anche i laici e gli operatori pastorali: si può infatti assumere uno "spirito clericale" nell'esercizio dei ministeri e dei carismi, vivendo la propria vocazione in modo elitario, chiudendosi nel proprio gruppo ed erigere muri contro l'esterno, sviluppando legami possessivi in relazione ai ruoli nella comunità. coltivando atteggiamenti arroganti e vanagloriosi verso gli altri. E i sintomi sono proprio la perdita dello spirito di lode e di gioiosa gratuità, mentre il demonio si insinua mantenendo la lamentela, la negatività e l'insoddisfazione cronica per ciò che è sbagliato, l'ironia che diventa cinismo. Ma, così, ci lasciamo assorbire dal clima di critica e di rabbia che respiriamo intorno a noi, invece di essere quelli che, con semplicità e dolcezza evangelica, con gentilezza e rispetto, aiutano i nostri fratelli e sorelle ad uscire dalle sabbie mobili dell'impazienza.

In tutto questo, nelle nostre fragilità e inadeguatezze, come nell'odierna crisi di fede, non scoraggiamoci! De Lubac ha concluso affermando che la Chiesa, "anche oggi, nonostante tutte le nostre oscurità [...] è, come la Vergine, il sacramento di Gesù Cristo. Nessuna delle nostre infedeltà può impedirle di essere "Chiesa di Dio", "serva del Signore" (Meditazione sulla Chiesa, cit., 472).

Fratelli, è la speranza che sostiene i nostri passi, alleggerisce i nostri fardelli e dà nuovo slancio al nostro ministero. Rimbocchiamoci le maniche e pieghiamo le ginocchia (voi che potete!): preghiamo lo Spirito gli uni per gli altri, chiediamogli di aiutarci a non cadere, nella nostra vita personale come nell'azione pastorale, in questa apparenza religiosa piena di tante cose ma vuota di Dio, per non essere agenti del sacro, ma araldi appassionati del Vangelo, non "chierici dello Stato", ma pastori del popolo. Abbiamo bisogno di una conversione personale e pastorale. Come diceva padre Congar, non si tratta di riportare la buona osservanza o di riformare le cerimonie esteriori, ma di tornare alle fonti del Vangelo, di scoprire nuove energie per superare le abitudini, di infondere uno spirito nuovo nelle vecchie istituzioni ecclesiali, per non finire per essere una Chiesa "ricca della sua autorità e sicurezza. ma evangelici non apostolici e mediocri" (Vera e falsa riforma della Chiesa, Milano 1972, 146).

[1]  Qui il testo integrale della lettera di Papa Francesco, pubblicato in italiano e inglese


La maladie du cléricalisme selon le pape François

Le cléricalisme est une maladie qui fait perdre aux prêtres la mémoire du baptême qu’ils ont reçu, laissant à l'arrière-plan l’appartenance au même peuple saint et les conduisant à vivre l'autorité dans les différentes formes de pouvoir, sans se rendre compte de la duplicité, sans humilité mais avec des attitudes détachées et hautaines. C’est ainsi que le pape François qualifie le cléricalisme dans sa lettre aux prêtres de Rome datée du 5 Août 2023[1].

Il les alertait ainsi-comme l’a fait à maintes reprises- à ce trait caractéristique de la mondanité spirituelle qu’est le cléricalisme, ce danger le plus grave qu'encourt l’Eglise, selon les mots du père Henri de Lubac. Ci-dessus l’extrait de la lettre consacré au cléricalisme que nous rendons en français :

Je voudrais (…) m'arrêter sur un aspect de la mondanité. Lorsqu'elle entre dans le cœur des pasteurs, elle prend une forme spécifique, celle du cléricalisme. Pardonnez-moi de le répéter, mais en tant que prêtres, je pense que vous me comprenez, parce que vous aussi, vous partagez ce que vous croyez de manière sincère, selon ce bon trait typiquement romain (romanesque !) qui veut que la sincérité des lèvres vienne du cœur, et ait la saveur du cœur ! Et moi, en tant qu'homme âgé et de cœur, je veux vous dire que cela me préoccupe lorsque nous tombons dans des formes du cléricalisme ; lorsque, peut-être sans nous en rendre compte, nous laissons croire que nous sommes supérieurs, privilégiés, placés " au-dessus " et donc séparés du reste du peuple saint de Dieu. Comme me l'a écrit un jour un bon prêtre, "le cléricalisme est le symptôme d'une vie sacerdotale et laïque tentée de vivre le rôle et non le lien réel avec Dieu et les frères". En bref, il s'agit d'une maladie qui nous fait perdre la mémoire du baptême que nous avons reçu, laissant à l'arrière-plan notre appartenance au même peuple saint et nous conduisant à vivre l'autorité dans les différentes formes de pouvoir, sans nous rendre compte de la duplicité, sans humilité mais avec des attitudes détachées et hautaines.

Pour nous libérer de cette tentation, il est bon que nous écoutions ce que le prophète Ezéchiel dit aux bergers : "Vous mangez la graisse, vous vous vêtissez de laine, vous égorgez les animaux gras, mais vous ne nourrissez pas les brebis. Vous n'avez pas fortifié les faibles, vous n'avez pas guéri les malades, vous n'avez pas pansé les infirmes, vous n'avez pas ramené les égarés, vous n'avez pas cherché les perdus, et vous les avez gouvernés par la force et la dureté" (34, 3-4). La parole de Dieu parle de "graisse" et de "laine", de ce qui nourrit et réchauffe ; le risque dont nous prévient la Parole est donc celui de nous nourrir nous-mêmes et de nos propres intérêts, de nous assurer une vie confortable.

Certes, comme l'affirme saint Augustin, le pasteur doit aussi vivre grâce au soutien offert par le lait de son troupeau ; mais comme commente l'évêque d'Hippone : "Qu'ils prennent du lait de leurs brebis, qu'ils reçoivent ce qui est nécessaire à leurs besoins, mais qu'ils ne négligent pas la faiblesse des brebis. Qu'ils ne recherchent aucun avantage pour eux-mêmes, de peur qu'ils ne paraissent prêcher l'Évangile pour leur propre besoin et nécessité ; qu'ils apportent plutôt la lumière de la vraie parole pour éclairer les hommes" (Sermon sur les pasteurs, 46.5). De même, Augustin parle de la laine en l'associant aux honneurs : la laine, qui recouvre la brebis, peut nous faire penser à tout ce dont nous pouvons nous parer extérieurement, en recherchant la louange des hommes, le prestige, la renommée, la richesse. Le grand père latin écrit : "Celui qui donne de la laine donne de l'honneur. Ce sont précisément les deux choses que les pasteurs, qui se nourrissent eux-mêmes et non les brebis, attendent du peuple : l'avantage de voir leurs besoins satisfaits et la faveur de l'honneur et de la louange" (ibid., 46.6). Lorsque nous ne nous préoccupons que du lait, nous pensons à notre profit personnel ; lorsque nous recherchons obsessionnellement la laine, nous pensons à cultiver notre image et à accroître notre succès. C'est ainsi que nous perdons l'esprit sacerdotal, le zèle pour le service, le désir de prendre soin du peuple, et nous finissons par raisonner selon la folie du monde : "Qu'est-ce que cela a à voir avec moi ? Que chacun fasse ce qu'il veut, ma subsistance est sauve, et mon honneur aussi. J'ai assez de lait et de laine, que chacun fasse ce qu'il veut " (ibid., 46.7).

La préoccupation est donc centrée sur le "moi" : sa propre subsistance, ses propres besoins, les louanges reçues pour soi-même plutôt que pour la gloire de Dieu. C'est ce qui se passe dans la vie de ceux qui tombent dans le cléricalisme : ils perdent l'esprit de louange parce qu'ils ont perdu le sens de la grâce, l'émerveillement devant la gratuité avec laquelle Dieu les aime, cette simplicité confiante du cœur qui nous fait tendre les mains vers le Seigneur, attendant de Lui la nourriture au moment opportun (cf. Ps 104, 27), conscients que sans Lui nous ne pouvons rien faire (cf. Jn 15, 5). Ce n'est qu'en vivant cette gratuité que nous pourrons vivre le ministère et les relations pastorales dans un esprit de service, conformément aux paroles de Jésus : "Vous avez reçu gratuitement, donnez gratuitement" (Mt 10,8).

Nous devons regarder précisément vers Jésus, vers la compassion avec laquelle il voit notre humanité blessée, vers la gratuité avec laquelle il a offert sa vie pour nous sur la croix. Voilà l'antidote quotidien à la mondanité et au cléricalisme : regarder Jésus crucifié, fixer chaque jour les yeux sur Celui qui s'est vidé et s'est abaissé jusqu'à la mort (cf. Ph 2,7-8). Il a accepté l'humiliation pour nous relever de nos chutes et nous libérer du pouvoir du mal. Ainsi, en regardant les blessures de Jésus, en le regardant s'humilier, nous apprenons que nous sommes appelés à nous offrir nous-mêmes, à nous faire pain rompu pour les affamés, à partager le chemin avec les fatigués et les opprimés. Tel est l'esprit sacerdotal : se faire les serviteurs du peuple de Dieu et non ses maîtres, laver les pieds de nos frères et non les fouler aux pieds.

Restons donc vigilants face au cléricalisme. Que l'apôtre Pierre, qui, comme le rappelle la tradition, s'est humilié la tête en bas au moment de mourir pour être l'égal de son Seigneur, nous aide à nous en éloigner. Que l'apôtre Paul, qui, à cause du Christ Seigneur, considérait tous les biens de la vie et du monde comme des déchets (cf. Ph 3, 8), nous en préserve.

Le cléricalisme, nous le savons, peut toucher tout le monde, même les laïcs et les agents pastoraux : en effet, on peut assumer un "esprit clérical" dans l'exercice des ministères et des charismes, en vivant sa propre vocation de manière élitiste, en s'enfermant dans son propre groupe et en érigeant des murs contre l'extérieur, en développant des liens possessifs par rapport aux rôles dans la communauté, en cultivant des attitudes arrogantes et vantardes à l'égard d'autrui. Et les symptômes sont bien la perte de l'esprit de louange et de gratuité joyeuse, tandis que le diable s'insinue en entretenant la plainte, la négativité et l'insatisfaction chronique de ce qui ne va pas, l'ironie devenant cynisme. Mais, de cette manière, nous nous laissons absorber par le climat de critique et de colère que nous respirons autour de nous, au lieu d'être ceux qui, avec simplicité et douceur évangélique, avec gentillesse et respect, aident nos frères et sœurs à sortir des sables mouvants de l'impatience.

Dans tout cela, dans nos fragilités et nos insuffisances, comme dans la crise de foi d'aujourd'hui, ne nous décourageons pas ! De Lubac concluait en affirmant que l'Église, "aujourd'hui encore, malgré toutes nos obscurités [...] est, comme la Vierge, le Sacrement de Jésus-Christ. Aucune de nos infidélités ne peut l'empêcher d'être "l'Église de Dieu", "la servante du Seigneur"" (Méditation sur l'Église, cit., 472).

Frères, c'est l'espérance qui soutient nos pas, allège nos fardeaux et donne un nouvel élan à notre ministère. Retroussons nos manches et plions les genoux (vous qui le pouvez !): prions l'Esprit les uns pour les autres, demandons-lui de nous aider à ne pas tomber, dans notre vie personnelle comme dans l'action pastorale, dans cette apparence religieuse pleine de beaucoup de choses mais vide de Dieu, afin de ne pas être des fonctionnaires du sacré, mais des annonciateurs passionnés de l'Évangile, non des "clercs d'État", mais des pasteurs du peuple. Nous avons besoin d'une conversion personnelle et pastorale. Comme le disait le Père Congar, il ne s'agit pas de ramener la bonne observance ou de réformer les cérémonies extérieures, mais de revenir aux sources de l'Évangile, de découvrir des énergies nouvelles pour vaincre les habitudes, d'insuffler un esprit nouveau dans les vieilles institutions ecclésiales, afin de ne pas finir par être une Église "riche de son autorité et de sa sécurité, mais peu apostolique et médiocrement évangélique" (Vera e falsa riforma della Chiesa, Milan 1972, 146).

[1]  Ici se trouve le texte intégral de la lettre du pape François, publiée en Italien et en Anglais

Louis Birabaluge sx
16 Agosto 2023
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