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Per una concezione comunitaria della missione

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Una grande storia da costruire – 4

(In cammino verso il XVII CG)

«Nessuno adunque si lasci adescare da altri miraggi
e ricordiamoci che in questa unità d'intenti
è riposto il segreto della floridezza del nostro Istituto».
(San Guido M. Conforti, 1929, Lett. Circolare 7)

Nei suoi scritti ai confratelli, P. Luigi Menegazzo, come Superiore Generale, non si è mai stancato di denunciare il cancro dell’individualismo (con le sue metastasi del conformismo, consumismo, egoismo, relativismo, laicismo...) come “IL” grande male della Congregazione in questi nostri giorni. Ci stiamo riferendo a un tema antico ma sempre attuale; a una sorta di malattia transculturale che non lascia spazi a grandi storie da costruire e che mette seriamente a rischio il futuro della nostra Congregazione e della sua opera. Parliamo di un processo culturale che sta consegnando a ideologie e a posizioni culturali extra-evangeliche le ragioni della propria vita e i criteri di valutazione della quotidianità. L’individualismo tende a scegliere i comportamenti unicamente in vista del proprio interesse e della gratificazione personale. Le relazioni durano fino a quando durano i vantaggi e ci si intende solo in base al guadagno emotivo o funzionale (cfr. EG 67). È una malattia che destabilizza alla base la concezione comunitaria della missione, una delle caratteristiche costitutive del nostro essere saveriano (RMX 29ss.; XVICG 63) e punto di partenza fondamentale per ogni seria programmazione e rinnovamento del servizio alla missione.

- Per una concezione comunitaria della missione

Fino a qualche anno fa, sociologi e pastoralisti ci spiegavano che il conformismo tipico della società dei consumi aveva indotto anche nei cristiani un materialismo pratico. Analogamente potremmo affermare che l’attuale religione globale – il narcisismo – ha tra i suoi osservanti anche molti religiosi che hanno fatto dell’individualismo il loro modus vivendi. Se vogliamo dirla tutta e senza troppi giri di parole, il dato antropologico attuale indiscutibile è il mito dell’autorealizzazione a tutti i costi; l’illusione dell’autosufficienza che nega ogni forma di dipendenza e provenienza dall'Altro e che “tira la tenda” sulla trascendenza, nutrendo la folle credenza di un Io che basta a se stesso. Quando il missionario dà un assoluto primato alle sue opere, ritenendole l’unica chiave di volta della salvezza sua e del mondo intero, realizza un enorme travisamento vocazionale riducendo la chiamata – con tutti i suoi valori – alla gratificazione di un rapido e superficiale senso di realizzazione personale. Qui, Gesù Cristo non è più l’evento di una vita ma, molto più banalmente, un semplice pretesto per le proprie megalomanie.

Alcuni indicatori: più che il Regno di Dio oggi la grande meta di tanti religiosi (giovani e meno giovani) sembra sia la ricerca e la garanzia del proprio equilibrio psichico/emotivo. Si è incantati da proposte di un benessere psichico personale barattato come grazia. Il vissuto personale (l’esperienza!) rimane l’unica bussola in grado di orientare le scelte della vita, le quali sono sostenute dalle emozioni e dai sentimenti che vanno e vengono. La speranza, che coincide sempre più con la ricerca di gratificazione personale, non riguarda più il cambiamento del mondo, ma il futuro personale dell’individuo, la sua pienezza, la sua vita. Ci si adagia sui criteri del benessere economico condiviso. Fedeli discepoli della civiltà del confort, confondiamo il benessere con la riduzione di ogni forma di sofferenza. E così dimentichiamo una delle verità umane e spirituali più profonde e antiche: nella vita ci sono molte buone sofferenze e molti cattivi piaceri (Cfr. L. Bruni in https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/anoressia-di-compassione-nuova-cura-dei-sentimenti-). La velocità e la superficialità del web poi, appiattiscono ogni tipo di evento, livellano verso il basso le nostre emozioni e i nostri sentimenti indurendo sempre più la corteccia dell’indifferenza.

Ogni epoca ha le sue sfide. L’individualismo è il dato caratteristico del nostro contesto culturale e sociale e – quando è assunto come modus vivendi – avvelena il pozzo al quale ci stiamo abbeverando. Il grande equivoco da chiarire è che la vocazione saveriana non è mai un fatto individuale o privato, ma personale e comunitario. Tra me e Dio – spazio dove tutte le illusioni sono possibili – c’è la comunità che, attraverso il suo progetto apostolico, si fa garante che il compito ricevuto – la missione – sia portato avanti fedelmente. Obbediamo non tanto per sottometterci a delle regole, ma per entrare in una relazione che faciliti la realizzazione di un progetto comune. Questo è ciò che ci raduna come Famiglia Saveriana. Ci fa comprendere la nostra vocazione come dono ricevuto, la missione come bene comunitario e non come proprietà privata. E questo è il compito datoci, il “fine unico che ci siamo proposti nel dare il nome alla Società e che ne forma la caratteristica”(RF 8).

La consacrazione religiosa, vissuta in un cammino di fedeltà, è il miglior antidoto contro l’individualismo. Essa è la forma concreta del nostro essere missionari, il primo messaggio che come saveriani trasmettiamo per la evangelizzazione dei non cristiani. Il volto di Cristo, così, non si eclisserà mai dalla nostra vista e ci aiuterà a non cedere a stili di vita individualistici o a protagonismi smodati che mettono a rischio sia la radicalità della sequela Christi sia la stessa efficacia della missione, opera comunitaria per eccellenza. 


A great history still to be accomplished-4 (and last)

(Preparing for the XVII General Chapter) 

« Let no one be lured by any illusions,
and let us always remember that in this unity of intents
lies the secret of our Institute’s prosperity
(St. Guido Maria Conforti, 1929, 7th Circular Letter)

In his writings to the confreres, Fr. Luigi Menegazzo, as the Superior General, never tired of denouncing the cancer of individualism (with its metastases of conformism, consumerism, egoism, relativism, secularism...) as “THE” great evil of the Congregation in our days. We are referring to an old topic, but one that is always topical; it is a sort of transcultural illness that leaves no space for great histories to be accomplished and which puts the future of our Congregation and its work at serious risk. We are speaking of a cultural process that is handing over to extra-evangelical ideologies and cultural positons the raison-d’être of its own life and criteria for assessing daily life. Individualism tends to choose behaviors solely in view of its own interests and personal gratification. Relationships last as long as the advantages they bring and any mutual understanding is based only on emotional or functional gain (cf. EG 67). It is an illness that destabilizes the foundations of the community concept of the mission, which is one of the constitutive characteristics of our being Xaverians (RMX 29ff.; XVIG 63) and the essential point of departure for every serious programming and renewal of our service to the mission.

- For a community concept of the mission

Until a few years ago, sociologists and pastoral experts explained to us that the conformism typical of the consumerist society had generated a practical materialism in Christians too. Likewise, we could say that the current global religion – narcissism – numbers many religious among its adherents and they have made individualism their modus vivendi. To speak frankly, the irrefutable anthropological principle today is the myth of self-fulfillment at all costs; the illusion of self-sufficiency, which denies every form of dependence and origin from the Other and “closes the curtain” on transcendence, cultivates the crazy belief that the Ego can stand alone. When a missionary gives absolute primacy to his works, believing them to be the keystone of his salvation and that of the whole world, he is guilty of an enormous misrepresentation of his vocation by reducing the call – with all its values – to the gratification of a rapid and superficial sense of personal fulfilment. Here, Jesus Christ is no longer the event of a life, but, even more tritely, a mere pretext for one’s personal megalomanias.

Some indicators: more than the Kingdom of God, today the great goal of many religious (young and not so young) seems to be the search for, and the guarantee of, their personal psychological and emotional equilibrium. They are fascinated by proposals of a personal psychological wellbeing bartered as grace. Personal experience (!) remains the sole compass capable of guiding life choices, which are sustained by fluctuating emotions and sentiments. Hope, which coincides more and more with the search for personal gratification, no longer concerns changing the world, but the individual’s personal future and his fullness of life. The person lives according to the criteria of shared economic wellbeing. Faithful disciples of the civilization of comfort, we confuse wellbeing with the reduction of every form of suffering. We thus forget one of the most profound human and spiritual truths: in life there are many good sufferings and many bad pleasures (cf. L. Bruni in https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/anoressia-di-compassione-nuova-cura-dei-sentimenti-). The speed and the superficiality of the internet deaden every kind of event and level down our emotions and sentiments, leading to harsh indifference.

Every epoch has its own challenges. Individualism is the typical trait of our cultural and social context and – when it is embraced as a modus vivendi – it poisons the well from which we are drinking. The great misunderstanding that must be clarified is that the Xaverian vocation is never an individual or private affair, but a personal and community matter. Between me and God – a space where every kind of illusion is possible – stands the community, which, with its apostolic project, is the guarantor that the task we have received – the mission – will be carried out faithfully. We obey not so much to submit to rules, but to enter into a relationship that facilitates the fulfillment of a common project. This is what gathers us together as the Xaverian Family. It makes us understand our vocation as a gift we have received, the mission as a community matter and not as our private property. And this is the task given to us, the “exclusive purpose and characteristic of the Society to which we have given our name”(FR 8).

Religious consecration, lived in a journey of fidelity, is the best antidote to individualism. It is the concrete form of our being missionaries, the first message that we transmit as Xaverians for the evangelization of non-Christians. In this way, we will never lose sight of the face of Christ and he will help us not to give into individualistic lifestyles or to excessive protagonism, which put at risk the radicalness of our sequela Christi and the efficacy of the mission, which is a community enterprise par excellence. 


 Una gran historia a construir – 4 

(En camino hacia el XVII CG)

Por consiguiente, ninguno se deje seducir por otros espejismos
y recordémonos que en esta unidad de miras se fundamenta
el secreto de la prosperidad de nuestro Instituto”.
(San Guido M. Conforti, 1929, Carta Circular 7).

En sus escritos a los cohermanos, el P. Luigi Menegazzo, como Superior General, no se cansó nunca de denunciar el cáncer del individualismo (con sus metástasis de conformismo, con-sumismo, egoísmo, relativismo, laicismo...) como "EL" más grande mal de la Congregación en nuestros días. Nos referimos a un tema antiguo, pero siempre actual; a una especie de enfermedad transcultural que no deja espacios a grandes historias por construir y que pone seriamente en riesgo el futuro de nuestra Congregación y de su obra. Hablamos de un pro-ceso cultural que está entregando a ideologías y a posiciones culturales extra-evangélicas las razones de la propia vida y los criterios de valoración de la cotidianidad. El individualismo tiende a elegir los comportamientos únicamente en vista del propio interés y la gratificación personal. Las relaciones duran hasta cuando duran las ventajas y el entendimiento se da sólo en base a la ganancia emotiva o funcional (cfr. EG 67). Es una enfermedad que deses-tabiliza en su base la concepción comunitaria de la misión, una de las características consti-tutivas de nuestro ser xaveriano (RMX 29ss; XVICG 63) y punto de partida fundamental para toda seria programación y renovación del servicio a la misión.

- Para una concepción comunitaria de la misión

Hasta hace unos años, sociólogos y pastoralistas nos explicaban que el conformismo típico de la sociedad de consumo, había inducido también en los cristianos un materialismo práctico. Análogamente podríamos afirmar que la actual religión global – el narcisismo – tiene también entre sus practicantes a muchos religiosos que han hecho del individualismo su modus vivendi. Si queremos decirlo claro y sin muchos rodeos, el dato antropológico actual indiscutible es el mito de la autorrealización a toda costa; la ilusión de la autosuficiencia que niega toda forma de dependencia y procedencia del Otro y que “levanta muros” ante la transcendencia, nu-triendo la loca creencia de un Yo que se basta a sí mismo. Cuando el misionero da absoluta primacía a sus obras, creyéndolas la única clave de su salvación y del mundo entero, realiza una enorme distorsión vocacional reduciendo la llamada – con todos sus valores – a la gratificación de un rápido y superficial sentido de realización personal. De esta manera, Jesucristo no es más el evento de una vida, sino muy banal, un simple pretexto para las propias megalomanías.

Algunos indicadores: más que el Reino de Dios, hoy la gran meta de muchos religiosos (jóvenes y menos jóvenes) parece que sea la búsqueda y la garantía del propio equilibrio psíquico/emo-tivo. Se vive deslumbrados por propuestas de bienestar psíquico personal trocado como gracia. La vivencia personal (la experiencia) queda como la única brújula capaz de orientar las opciones de la vida, las cuales están sostenidas por las emociones y sentimientos que van y vienen. La esperanza, que coincide cada vez más con la búsqueda de gratificación personal, ya no se re-fiere al cambio del mundo, sino al futuro personal del individuo, su plenitud, su vida. Se da un acomodamiento personal según los criterios del bienestar económico compartido. Fieles discí-pulos de la civilización del bienestar, confundimos el bienestar con la reducción de toda forma de sufrimiento. Y así olvidamos una de las verdades humanas y espirituales más profundas y antiguas: en la vida hay muchos buenos sufrimientos y muchos malos placeres (cfr. L. Bruni en https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/anoressia-de-compasión-nuevo-cura-dios-sentimien-tos). Por otra parte, la velocidad y la superficialidad de la web, homologan todo tipo de aconte-cimiento, nivelan hacia abajo nuestras emociones y nuestros sentimientos, endureciendo siem-pre más la corteza de la indiferencia.

Cada época tiene sus desafíos. El individualismo es el dato característico de nuestro contexto cultural y social y – cuando es asumido como modus vivendi – envenena el pozo en el que nos abrevamos. La grande equivocación que hay que aclarar es que la vocación xaveriana no es nunca un hecho individual o privado, sino personal y comunitario. Entre yo y Dios - espacio dónde todas las ilusiones son posibles – está la comunidad que, por medio de su proyecto apos-tólico, se hace garante de que la tarea recibida – la misión – sea llevada adelante fielmente. Obedecemos no tanto para someternos a reglas, sino para entrar en una relación que facilita la realización de un proyecto común. Esto es lo que nos reúne como Familia Xaveriana; nos hace comprender nuestra vocación como don recibido, la misión como bien comunitario y no como propiedad privada. Y ésta es la tarea dada a nosotros, el “objetivo único que nos hemos pro-puesto al dar el nombre a la Sociedad y que forma su característica” (RF 8).

La consagración religiosa, vivida en un camino de fidelidad, es el mejor antídoto contra el indi-vidualismo. Es la forma concreta de nuestro ser misioneros, el primer mensaje que como Xave-rianos transmitimos en vistas de la evangelización de los no cristianos. De esta manera, el rostro de Cristo no se eclipsará nunca de nuestra vista y nos ayudará a no ceder a estilos de vida indi-vidualista o a protagonismos desmedidos que ponen en riesgo tanto la radicalidad de la sequela Christi, como la misma eficacia de la misión, obra comunitaria por excelencia.


 Une grande histoire à construire – 4 (et dernier)

(En marche vers le XVII CG)

«Que personne ne se laisse séduire par d'autres mirages.
Rappelons-nous que le secret de la floraison de notre Institut
repose sur cette unité d'intentions.»
(Saint Guido Maria Conforti, 1929, Lettre Circulaire n. 7)

 

Dans ses écrits aux confrères, le père Luigi Menegazzo, en tant que Supérieur Général, ne s’est jamais fatigué de dénoncer le cancer de l’individualisme (avec ses métastases du conformisme, consumérisme, égoïsme, relativisme, laïcisme). C’est, disait-il, « le » grand mal de la Congrégation en ces jours. Nous nous référons à un système ancien mais toujours actuel, à une sorte de maladie transculturelle qui ne laisse pas de place à de grandes histories à construire et qui met sérieusement à risque l’avenir de notre Congrégation et de son œuvre. Nous sommes en train de parler d’un processus culturel qui veut confier aux idéologies et aux positions culturelles extra-évangéliques les raisons de sa vie et les critères d’évaluation du quotidien. L’individualisme tend à choisir les comportements uniquement en vue de son intérêt et de la gratification personnelle. Les relations durent jusqu’à quand durent les avantages et on s’entend seulement par rapport au profit émotif et fonctionnel (cf. EG 67). C’est une maladie
qui déstabilise dès le départ la conception communautaire de la mission, une des caractéristiques constitutives de notre être xavérien (cf. RMX 29ss ; XVICG 63) et point de départ fondamental pour une véritable programmation et renouvellement du service à la mission.

Pour une conception communautaire de la mission Jusqu’il y a quelques années, les experts en sociologie et en pastorale nous expliquaient que le conformisme typique de la société de la consommation avait entrainé même chez les chrétiens un matérialisme pratique. Par analogie, nous pourrions affirmer que l’actuelle religion globale – le narcissisme – a parmi ses adeptes aussi beaucoup de religieux qui ont fait de l’individualisme leur modus vivendi. Pour tout dire et sans trop de contours, le donné anthropologique actuel et intouchable est le mythe de
l’auto-réalisation à tout prix ; l’illusion de l’autosuffisance qui nie toute forme de dépendance de l’Autre et qui vienne de l’Autre ; l’illusion qui « tire le rideau » sur la transcendance, en nourrissant la folle croyance en un Ego qui suffit à lui-même. Quand le missionnaire donne la priorité absolue à ses œuvres, en les considérant comme la seule clé de voûte du salut pour lui et pour le monde entier, alors il réalise une énorme déformation vocationnelle en réduisant l’appel – avec toutes ses valeurs – à la gratification d’un rapide et superficiel sens de réalisation personnelle. Ici, Jésus Christ n’est plus l’événement d’une vie mais, beaucoup plus banalement, un simple prétexte pour ses mégalomanies.

Quelques indicateurs : plus que le Règne de Dieu, aujourd’hui beaucoup de religieux (jeunes ou moins jeunes) semblent viser la recherche et la garantie de leur équilibre psychique/émotif. On est enchanté par des propositions d’un bienêtre psychique personnel troqué comme grâce. Le vécu personnel (l’expérience !) reste l’unique boussole capable d’orienter les choix de la vie, qui sont soutenues par les émotions et par les sentiments qui vont et qui viennent. L’espérance, qui coincide toujours plus avec la recherche de gratification personnelle, ne concernent plus le changement du monde, mais l’avenir personnel de l’individu, sa plénitude, sa vie. On s’adapte sur les critères du bienêtre économique partagé. Fidèles disciples de la civilité du confort, nous confondons le bienêtre avec la réduction de toute forme de souffrance. Et ainsi nous oublions une des vérités humaines et spirituelles plus profondes et anciennes : dans la vie il y a beaucoup de bonnes souffrances et beaucoup de mauvais plaisirs (cf. L. Bruni dans https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/anoressia-di-compassione-nuova-cura-dei-sentimenti-).
La vitesse et la superficialité du web rendent les événements plats, nivellent vers le bas nos émotions et nos sentiments en endurcissant toujours davantage l’écorce de l’indifférence.

Chaque époque a ses défis. L’individualisme est l’élément caractéristique de notre contexte culturel et social et – quand il est assumé comme modus vivendi – empoisonne le puits auquel nous sommes en train de boire. Le grand équivoque à clarifier est que la vocation xavérienne n’est jamais un fait individuel ou privé, mais personnel et communautaire. Entre moi et Dieu – espace où toutes les illusions sont possibles – il y a la communauté qui, à travers son projet apostolique, se porte garant que la tâche reçue – la mission – soit assumée avec fidélité. Nous obéissons non pas pour nous soumettre à des règles, mais pour entrer dans une relation qui facilite la réalisation d’un projet commun. Cela est ce qui nous rassemble comme Famille Xavérienne. Il nous fait comprendre notre vocation comme don reçu, la mission comme bien communautaire et non pas comme propriété privée. C’est bien la tâche qui nous a été confiée, « la finalité unique qu’ils se sont fixés au moment de donner leur nom à notre Société et qui en constitue la caractéristique » (RF 8).

La consécration religieuse, vécue dans un chemin de fidélité, est le meilleur antidote contre l’individualisme. Elle est la forme concrète de notre être missionnaires, le premier message qui comme Xavériens nous transmettons pour l’évangélisation des non chrétiens. Le visage
du Christ, ainsi, ne s’éclipsera jamais de notre vue et nous aidera à ne pas céder à des styles de vie individualistes ou à protagonismes démodés qui mettent à risque et la radicalité de la sequela Christi et la même efficacité de la mission, œuvre communautaire par excellence.

Eugenio Pulcini sx
30 Giugno 2017
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