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Anno di lingua e l’inserimento in una nuova cultura

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Alcune riflessioni.

Una delle caratteristiche peculiari dell’esperienza di chi sceglie la vita missionaria è quella di essere chiamato ad inserirsi in un ambiente e una realtà diversa da quella di origine. È il criterio dell’ad extra il quale, insieme all’Ad Gentes e all’Ad Vitam, sono criteri irrinunciabili per noi Saveriani e sono chiaramente delineati nella nostra Ratio Missionis Xaveriana (RMX n. 10).


Vorremmo iniziare la nostra riflessione che ha come suo tema centrale l’anno di lingua e l’inserimento dei nostri nuovi confratelli nei diversi contesti dove sono inviati, partendo proprio dalla rilettura di alcuni estratti del n. 12 della RMX: un numero totalmente dedicato a questa particolare caratteristica.

n. 12. “L’ad extra costituisce per noi un’ulteriore precisazione dell’ad gentes. Si tratta del principio missionario dell’uscita affermato con chiarezza dalle nostre Costituzioni e normalmente applicato in questi oltre cent’anni di vita della Congregazione: “per il nostro carisma specifico siamo inviati a popolazioni e gruppi umani non cristiani, fuori dal nostro ambiente, cultura e Chiesa d’origine” (C 9). Con questo articolo delle Costituzioni si intende la partenza o l’uscita anche dal proprio Paese (Stato) di origine…

12.1 Le ragioni più profonde dell’uscita dal proprio ambiente non sono legate alla maggior urgenza e gravità del bisogno altrove, rispetto alla propria patria. Ci spinge l’imperativo del mandato del Signore che ci dice: “andate per tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura” (Mc.16,15) e la necessità di condividere il dono della fede, nonostante le nostre povertà, oltre che l’esigenza di universalità, l’attenzione al diverso, il servizio tra le Chiese…

12.2 L’ad extra chiede anche un esodo spirituale, culturale, affettivo, che ci renda capaci di acculturarci in un nuovo ambiente e di non avere altre sicurezze al di là del Vangelo che annunciamo. Recandoci a vivere, come stranieri e ospiti presso altri popoli, siamo segni e fermenti di quella nuova famiglia umana che tutti li abbraccia, e viviamo la missione nella debolezza e nell’itineranza, ad imitazione di Cristo, degli apostoli e di Francesco Saverio, nostro patrono.

Vorremmo riflettere su questi 3 aggettivi che definiscono il tipo di esodo che ogni missionario è chiamato a compiere.

Un esodo spirituale: non ogni esodo è uscita sacra. L’esodo è un privilegio dei pellegrini verso una meta. È evidente che l’esodo o è un pellegrinaggio altrimenti diventa un vagabondaggio. L’esodo spirituale è un processo di morte e resurrezione dove anche la stessa esperienza di Dio assume conformazioni nuove nel contatto con un popolo che celebra la presenza del sacro con forme e riti a cui anteriormente non si era abituati. Per molti dei nostri studenti che arrivano a Parma l’inserimento nelle parrocchie cittadine è uno shock: molti di loro sono abituati a celebrazioni multitudinarie, con canti e danze e qui si ritrovano con un’assemblea ridotta, a volte con poca animazione liturgica e si sentono un po’ persi di fronte a questa realtà. Se a questo poi aggiungiamo i pregiudizi razziali che in una realtà come Parma sono particolarmente sentiti si può capire come per chi si inserisce in questa nuova realtà gli ostacoli da superare non siano pochi. Eppure, come in tutte le cose della vita, se questo problema lo si trasforma in opportunità anche questo può diventare esperienza di evangelizzazione. Dio si fa presente anche dove lo percepisco come assente.

Un esodo culturale: siamo chiamati a relativizzare la nostra cultura. Essere coscienti che alla fine siamo tutti etnocentrici cioè mettiamo al centro e prendiamo come punto di riferimento per giudicare la realtà la nostra cultura con i suoi criteri, la sua storia e i suoi punti di riferimento. Per me è stato interessante notare in questi anni di servizio a Parma la differenza tra i diversi giovani: qualcuno lo noti che dopo 3 o 4 anni di presenza in Italia inizia a cambiare, inizia ad aprire i suoi orizzonti e a vedere la realtà in modo più amplio rispetto a prima. Altri invece tendono più a rinchiudersi in sé stessi, magari appoggiandosi a persone che provengono dalla loro stessa cultura.

Infine un esodo affettivo: forse questo è quello più difficile da realizzarsi. I telefonini ci permettono di essere costantemente in contatto con le nostre realtà di origine, seguire tutto ciò che vogliamo nella nostra lingua nativa… Insomma potremmo essere fisicamente in un luogo, ma poi i nostri interessi e il nostro mondo affettivo essere da un’altra parte del globo. L’esodo affettivo lo si nota quando entra in un giovane la curiositas per conoscere di più la storia del paese che lo accoglie, le letture che fa, le problematiche che inizia a notare che vive un paese. A me colpisce, per esempio, quanto poco si legga il giornale o le varie riviste! È vero che oggi puoi trovare tutto online, però anche il fermarsi e leggere qualche articolo di giornale non può che aiutare ad entrare in questo nuovo mondo.

Questo tipo di esodo si ripercuote sicuramente anche sull’apprendimento della nuova lingua. Nella misura in cui questo salto tocca la parte più intima di una persona (esodo spirituale), lo invita ad aprirsi al nuovo che sta davanti a lui (esodo culturale) e lo porta a sentire in modo diverso (esodo affettivo). Così, la nuova lingua non è più vista come il mostro da combattere, il grande nemico che non mi permette di avanzare ma al contrario è l’alleato che mi aiuta e mi accompagna ad entrare in questo nuovo mondo. Mi prende per mano e nella misura in cui imparo correttamente come si pronunciano le parole, come si usano correttamente le espressioni verbali entrerò anche in modo simpatetico nel nuovo mondo in cui sono chiamato ad entrare con rispetto, «a togliermi i calzari dai piedi perché il luogo è santo» (Giosuè 5, 13).

Tutto questo dovrebbe portare i nostri giovani ad entrare in un processo di destrutturazione (decostruzione) e ristrutturazione (ricostruzione) personale. Un processo che, ovviamente, non è legato solamente alla prima tappa di inserimento in una teologia internazionale, bensì dovrebbe diventare “un metodo di vita” che tutti dobbiamo essere capaci di assumere nel corso del nostro cammino e che ci permette di capire “come” cercare le risposte a ciò che la nuova realtà ci richiede.

Per chi accompagna è importante tenere presente che la persona arriva con un bagaglio che non possiamo conoscere immediatamente. Accompagnare è favorire – in chi si accompagna – la scoperta di quella che Manenti chiamava “la dialettica di base” cioè essere strumenti capaci di creare le condizioni che favoriscano la presa di coscienza da parte del giovane (non bisogna mai dimenticare che il processo formativo è lo stesso giovane a farlo!) di quelle strutture che non corrispondono al nuovo stile di vita vocazionale scelto.

Shock culturale: crescere sfidando le diversità

Un altro elemento importante da tener presente durante il primo anno di apprendimento della nuova lingua e di inserimento nella nuova realtà è quello dello shock culturale.    

A volte in alcuni si fa presente un po’ di ansia, un senso di smarrimento, disorientamento e confusione. Ma tutto questo è normale, si sta infatti sperimentando ciò che gli antropologi hanno già diagnosticato da tempo: lo shock culturale.

Il termine “culture shock” fu coniato dall’antropologa statunitense Cora Du Bois nel 1951, nel tentativo di descrivere il senso di smarrimento che gli stessi antropologi provavano nelle prime settimane di contatto con culture differenti. Lo stato d’ansia venne da lei attribuito alla perdita dei punti di riferimento, classico fenomeno dovuto al distacco dalla routine e all’allontanamento dalla propria comfort zone. Questa instabilità si riflette in una sensazione di insicurezza e confusione, spesso di abbandono e solitudine. Tutti hanno delle giornate no e la difficoltà nel superarle aumenta, data la distanza dalle persone care.

La reazione fisiologica a questi sentimenti è una sorta di rifiuto verso il nuovo ambiente e una tendenza ad esaltare il luogo d’origine, al quale si tende ad attribuire un valore spropositato.

La teoria delle quattro fasi

Nel 1954 l’antropologo canadese Karlevo Olberg, riprendendo il termine coniato dalla collega Cora pochi anni prima, allargò il significato a tutte quelle persone che viaggiano all’estero e si confrontano con nuovi usi e costumi. Olberg individuò quattro fasi distinte che possono essere soggette a variazioni a seconda del soggetto, al paese d’origine e al paese d’arrivo. Vediamole una per una.

Luna di miele

Può andare da un minimo di due settimane a un massimo di sei mesi. Ciò che la caratterizza è l’essere affascinati da tutto ciò che è diverso. Si interpreta il mondo con spirito romantico, si filosofeggia sulle differenze e le similitudini tra le due culture, si è affascinati dal nuovo, si può facilmente sfociare nell’idealizzare lo stesso.

Crisi

Il senso di novità va scemando, ad accrescersi sono i sentimenti di delusione e frustrazione. Gli eventi stressanti (trasferimento in una nuova casa, scuola, nuovi amici, lingua straniera) iniziano ad avere più peso rispetto all’eccitamento iniziale. Il senso di disagio sembra sopraffarci.

Aggiustamento

La consapevolezza della nuova situazione porta ad una più agile accettazione del nuovo. L’attitudine torna positiva, l’autoironia riesce a farci sdrammatizzare quelle difficoltà che prima sembravano tragedia.

Accettazione e adattamento

Finalmente si torna nella comfort zone! In questa fase ci si sente a proprio agio all’interno della nuova cultura, della quale si accettano seriamente usi e costumi, si smette di fare paragoni, ci si lascia alle spalle l’atteggiamento di presunzione e di superiorità. La presa d’atto del fatto che il diverso sia diverso, l’andare oltre quei giudizi di valore, volti a categorizzare le esperienze necessariamente come superiori o inferiori ai nostri punti di riferimento, ci consente finalmente di apprezzare quello che viene e di comprenderlo in profondità.[1]

Come formatori sono tutte esperienze che noi per primi abbiamo fatto e dunque è bene tenerlo ben presente nell’accompagnamento dei nostri giovani.

Alcune considerazioni finali

Il primo anno di lingua è fondamentale nel processo di inserimento di un giovane nella sua prima destinazione missionaria. È il momento in cui si pongono le fondamenta per poter costruire pian piano – anno dopo anno – la casa che è l’essere cordialmente inseriti in un contesto sociale, in una realtà ecclesiale e in una comunità religiosa completamente nuova. Penso sia importante aiutare il giovane a verbalizzare ciò che gli sta succedendo, rassicurarlo nel cammino, valutare in che modo questo processo tocca le fibre più intime dell’esperienza di un consacrato. Infatti, tutto questo processo, “regala” prezioso materiale su cui riflettere e dialogare, a partire dai criteri di discernimento della chiamata ad una vocazione così specifica come la nostra.

Non dimentichiamo poi che questo salto si fa da credenti. Mi consacro a Dio e voglio seguire Gesù e anche questi cambi entrano in questo processo di andare dove questa mia scelta mi porterà. La motivazione che mi spinge e mi guida è una motivazione di fede e dunque è a quella Sorgente che come formatore devo aiutare il giovane a volgere lo sguardo nei passaggi più ostici del processo.

Infine, entro in questa dinamica di morte e risurrezione e lo faccio avendo come principio guida quello della docibilitas intesa come “la piena intraprendenza dello spirito, o una forma alta di intelligenza, forse la più alta”, che porta la persona a cogliere “l’opportunità formativa di cui la stessa realtà è sempre piena, e di cui ognuno ha bisogno per la sua crescita. Intelligente quanto basta per accorgermi di quanta grazia ci sia attorno a me, e libero in misura corrispondente, tanto da lasciarmi formare da essa”. La persona “docibile” è infatti “libera d’imparare a imparare la vita della vita e per tutta la vita” (Cencini).

Parma, agosto 2021 –

 

[1] Cf.  articolo preso dal web “Shock culturale: crescere sfidando le diversità”

Mauro Loda sx
03 Settembre 2021
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