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Un cammino di fede: il dialogo interreligioso

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P. Luciano Mazzocchi racconta la sua vita missionaria

Oggi, 60mo anniversario della mia ordinazione sacerdotale, ho deciso di scrivere alcune riflessioni in vista del capitolo generale che affido alla considerazione dei confratelli.

Il mio profilo saveriano: proveniente dal seminario vescovile di Parma, 1960-61 noviziato, 1962 ordinazione sacerdotale, 1963 invio in Giappone, 1982 richiamo in Italia: 11 anni dediti alla formazione e animazione missionaria. Dal 1994 a oggi mi dedico al cammino comunemente denominato: dialogo interreligioso. Enclave di questo periodo: 9 anni cappellano della comunità giapponese residente nell’arcidiocesi ambrosiana.

Nel 1994, 11 anni dopo di rientro in Italia, anziché il ritorno in Giappone che mi fu proposto, chiesi a p. Rino, superiore generale, di rimanere in Italia per accompagnare varie persone che mi avevano confidato di avvertire una profonda attrazione verso lo Zen, soprattutto verso la pratica meditativa detta Zazen. A dir il vero, anch’io avvertivo la stessa attrazione. Ancora in Giappone avevo partecipato con i confratelli a una settimana di esercizi spirituali guidata dal domenicano p. Oshida Shigeto. Questi, filosofo e assiduo praticante dello Zen, ci narrò come fosse approdato a Gesù. In particolare, ci presentò lo Zazen, ossia la meditazione trasmessa nello Zen, che egli continuava a praticare e a promuovere.

Padre Rino accolse la mia richiesta, ma mi propose di attuarla nello stato di assenza dalla vita comunitaria, sia per non condizionare le scelte missionarie a cui ogni comunità già si stava dedicando, sia per non condizionare il nuovo tentativo a cui chiedevo di dedicarmi. Da allora, eccetto un breve periodo, ho trascorso 26 anni di assenza dalla vita comunitaria; assenza che, forse, non fu e non è così dissimile da quella che la vocazione missionaria richiede a molti confratelli ovunque. 

Scusandomi per questo lungo preambolo, offro due riflessioni, una dalla mia vita personale di assenza, l’altra dal cammino di fede che sottostà al cosiddetto “dialogo interreligioso”.

Riflessione personale

L’assenza prolungata dalla vita comunitaria immancabilmente apre a momenti di fragilità umana e religiosa. Si vive soli e si deve accudire a tutti i servizi che la vita richiede, senza poter demandare. Si conosce la stanchezza e lo sconforto. Si può traballare. In tali situazioni a sostenermi è stata la memoria della fedeltà dei miei genitori e dell’esempio commosso di alcuni confratelli. Ne cito uno tuttora assai vivo in me. Nel 1997, dal luogo della mia assenza che allora era Lodi, ogni lunedì mi recavo a Parma per il servizio ai confratelli malati. Nella cappellina del 4to piano, locata di fronte all’attuale, vedevo spesso p. Alessandro Caglioni, immobile e silenzioso, davanti al pane eucaristico. Sostava così, nobile, anche un’ora, con nel corpo il tumore che lo stava conducendo al grande incontro. Nessun scambio di parole, solo silenzio. Eppure, quella scena e altre mi hanno sempre fatto una calda compagnia spirituale, tenendo sveglio in me il legame alla famiglia saveriana. In emergenza covid il fratello p. Gerardo lo avrebbe poi seguito accudendo, lui sano, ai confratelli contagiati.

Nell’assenza dal contesto comunitario la vita accentua una sfida che comunque, prima o poi, pone a tutti: è la sfida del vuoto. È il vuoto della solitudine, della malattia, dell’insuccesso, dell’incomprensione, del proprio peccato, dell’insignificanza ecc. Richiama la porta stretta del Vangelo. La sfida è tra due risposte: l’accidia, oppure la rigenerazione creativa. Guido Maria Conforti raccomandava: amatevi come fratelli e rispettatevi come principi. Per amarsi come fratelli, quanto è preziosa la vita comunitaria! Ma per rispettarsi come principi ci vuole anche la solitudine dallo scontato della vita comunitaria! Ci vuole lo stare composti nella propria finitudine, credendo ciò che non si vede e dando prova di ciò che si spera. I martiri e santi saveriani sono fratelli, ma anche principi.   

Riflessione dal cammino del dialogo interreligioso Vangelo e Zen

A questa considerazione dalla mia vita personale, intendo aggiungere una riflessione che è maturata in me giorno dopo giorno lungo il cammino che in modo molto sbrigativo chiamiamo: dialogo interreligioso.  Il dialogo autentico si dà soltanto vivendolo: ossia si dialoga perché si è coscienti di non sapere ancora tutto, altrimenti sarebbe monologo teatrale. Molto dialogo è a questo livello. Anche il cosiddetto dialogo interreligioso è sovente uno scambio di cose che già si sanno, già assodate in tradizioni e forme religiose, da esporre in mostra, ma da non toccare. È dialogo interreligioso, ma non è religioso. Un professore, forse ateo, di fenomenologia religiosa lo può svolgere alla perfezione; un missionario no. “La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede” (Eb. 11,1). Il vero dialogo è sperare senza possedere ciò che si spera, è credere senza vedere ciò che si crede. Il vero dialogo avviene tra la finitudine e il tocco di infinito che inabitano la nostra umanità. Ci si sente nudi, in stato di assenza, ma allora il tocco d’infinito che è il germe della fede, non ostruito dalle nostre sicurezze, si rinvigorisce.

Da 18 anni mi è dato di ascoltare le confessioni nel Duomo e nella basilica di San Babila in Milano, 12 ore la settimana. Un terzo dei penitenti sono universitari. Nel fondo dell’anima delle persone colgo un’inquietudine che non è solo sociale o culturale e nemmeno semplicemente religiosa. È esistenziale. “Ha un senso la vita?”, “Perché sono così?”, “Cosa cambia credendo in Dio?”. Sono le stesse frasi che silenziosamente sento riverberare anche in me. La filosofia moderna è tutta una rete di riflessioni attorno alla domanda se la conoscenza sia reale o solo apparente; ossia se, conoscendo, io conosca la realtà com’è, oppure come la lente dei miei occhi me la fa vedere. In altre parole, se esistere è reale oppure apparente, anche la ricerca religiosa. L’uomo moderno non ha più un centro unificante e fondante il reale: non lo è la terra al centro del cosmo, non lo è l’era dell’uomo al centro del tempo cosmico, non lo è questa o quella religione. Le religioni si sono, ciascuna a modo suo, poste come punto d’arrivo, ma la storia le sorpassa continuamente con nuove domande.

Lo Zen ha modulato e trasmesso una pratica più che mai preziosa: è lo Zazen. Consiste nello stare seduti possibilmente immobili davanti a una sobria parete, semplicemente lasciando il respiro svolgere la sua funzione, mentre anche la mente tace lasciando passare oltre le varie immagini che s’affacciano. È un ritorno all’origine, quando l’io pensante e volente ancora non era emerso. È un battesimo nella propria natura creaturale, a ciò che nel tempo cosmico io sono nel cuore del Creatore. È un dire: “Eccomi” incondizionato da meriti e demeriti accumulati nel breve tempo dell’esistenza terrena. L’uomo d’oggi cerca quell’Eccomi! Senza il ritorno a quell’Eccomi, l’uomo si riduce a rattoppare un vestito vecchio e non conosce la rigenerazione.

La missione è rigenerazione. È morire e risorgere in Cristo, oggi. È Cristo che muore e risorge in noi, oggi.

p. Luciano Mazzocchi sx - Milano, 28 ottobre 2022

Per maggiori informazioni sul cammino “Vangelo e Zen”, clicca qui: www.vangeloezen.org


Un camino de Fe: el diálogo interreligioso

P. Luciano Mazzocchi sx, nos cuenta de su vida misionera

Hoy, cuando se cumplen 60 años de mi ordenación sacerdotal, he decidido escribir algunas reflexiones en vista del Capítulo General, y las confío a la consideración de los hermanos.

Mi perfil javeriano: proveniente del Seminario episcopal de Parma, noviciado 1960-61, ordenación sacerdotal 1962, envío a Japón 1963, regreso a Italia 1982; siguieron luego 11 años dedicados a la formación y a la animación misionera. Desde 1994 hasta hoy me dedico al camino comúnmente conocido como: diálogo interreligioso. Enclave de este periodo: 9 años de capellán de la comunidad japonesa que vive en la archidiócesis ambrosiana.

En 1994, 11 años después de haber regresado a Italia, en lugar de volver a Japón, algo que se me había propuesto, pedí al P. Rino, Superior General, que me quedara en Italia para acompañar a varias personas que me habían confiado que sentían una profunda atracción por el Zen, especialmente por la práctica meditativa conocida como Zazen. A decir verdad, yo también sentí la misma atracción. Cuando todavía estaba en Japón, había participado con los hermanos en una semana de ejercicios espirituales dirigidos por el dominico Fr. Oshida Shigeto. Este último, filósofo y asiduo practicante del Zen, nos contó cómo había llegado a Jesús. En particular, nos presentó el Zazen, la meditación transmitida en el Zen, y que él siguió practicando y promoviendo.

El P. Rino aceptó mi petición, pero me propuso llevarla a cabo en estado de ausencia de la vida comunitaria, tanto para no condicionar las opciones misioneras a las que ya se dedicaba cada comunidad, como para no condicionar el nuevo empeño al que yo pedía dedicarme. Desde entonces, salvo un breve período, he estado ausente de la vida comunitaria durante 26 años; una ausencia que, tal vez, no era ni es tan distinta de la que la vocación misionera exige a muchos hermanos en todas partes. 

Pidiendo disculpas por este largo preámbulo, ofrezco dos reflexiones, una desde mi vida personal de ausencia, la otra desde el camino de la fe que subyace al llamado “diálogo interreligioso”.

Reflexión personal

La ausencia prolongada de la vida comunitaria abre invariablemente momentos de fragilidad humana y religiosa. Uno vive solo y tiene que ocuparse de todos los servicios que requiere la vida, sin poder delegar. Uno conoce la fatiga y el desánimo. Uno puede tambalearse. En esas situaciones, lo que me sostenía era el recuerdo de la fidelidad de mis padres y el ejemplo conmovedor de algunos hermanos. Mencionaré uno que todavía está muy vivo en mí. En 1997, desde el lugar de mi ausencia, que entonces era Lodi, todos los lunes iba a Parma para el servicio a los hermanos enfermos. En la pequeña capilla del cuarto piso, situada frente a la actual, veía a menudo al padre Alessandro Caglioni, inmóvil y silencioso, frente al pan eucarístico. Permanecía así, noble, incluso una hora, con un tumor en el cuerpo que lo estaba llevando al gran encuentro. Ningún intercambio de palabras, sólo silencio. Sin embargo, esa escena y otras han sido siempre una cálida compañía espiritual para mí, manteniendo despierto en mí el vínculo con la familia javeriana. En la emergencia del COVID, el hermano P. Gerardo le seguiría, mientras cuidaba a los hermanos infectados.

En ausencia del contexto comunitario, la vida acentúa un reto que tarde o temprano plantea a todos: es el reto del vacío. Es el vacío de la soledad, de la enfermedad, del fracaso, de la incomprensión, del propio pecado, de la insignificancia, etc. Todo recuerda la puerta estrecha del Evangelio. El reto está entre dos respuestas: la acedia, o la regeneración creativa. Guido María Conforti recomendaba: amaos como hermanos y respetaos como príncipes. Para amarse como hermanos, ¡qué preciosa es la vida en comunidad! Pero para respetarse como príncipes, ¡también hace falta la soledad de lo que es obvio en la vida comunitaria! Hace falta estar pacificados con la propia finitud, creer en lo que no se ve y dar pruebas de lo que se espera. Los mártires y santos javerianos son hermanos, pero también príncipes.  

Reflexión desde el camino del diálogo interreligioso Evangelio y Zen

A esta consideración de mi vida personal, quisiera añadir una reflexión que ha madurado en mí día a día en el camino que muy apresuradamente llamamos: diálogo interreligioso.  El diálogo auténtico se da sólo viviéndolo: es decir, se dialoga porque se es consciente de que aún no se sabe todo, de lo contrario sería un monólogo teatral. Gran parte del diálogo se produce a este nivel. Incluso el llamado diálogo interreligioso es a menudo un intercambio de cosas ya conocidas, ya establecidas en las tradiciones y formas religiosas, que simplemente se exhiben, pero no se tocan. Es un diálogo interreligioso, pero no es religioso. Un profesor, quizás ateo, de fenomenología religiosa puede hacerlo perfectamente; un misionero no. “La fe es el fundamento de lo que se espera y la prueba de lo que no se ve” (Heb. 11:1). El verdadero diálogo es esperar sin poseer lo que se espera, es creer sin ver lo que se cree. El verdadero diálogo tiene lugar entre la finitud y el toque de infinitud que habitan en nuestra humanidad. Nos sentimos desnudos, en estado de ausencia, pero entonces la señal del infinito, que es la semilla de la fe, no obstruida por nuestras seguridades, se fortalece.

Durante 18 años he confesado en el Duomo y en la basílica de San Babila de Milán, 12 horas a la semana. Un tercio de los penitentes son estudiantes universitarios. En el fondo del alma de las personas percibo una inquietud que no es sólo social o cultural, ni siquiera simplemente religiosa. Es existencial. “¿Tiene sentido la vida?”, “¿Por qué soy así?”, “¿Qué cambia al creer en Dios?”. Estas son las mismas frases que silenciosamente escucho reverberar en mí también. La filosofía moderna es todo un entramado de reflexiones en torno a la cuestión de si el conocimiento es real o sólo aparente; es decir, si, al conocer, conozco la realidad tal y como es, o como la lente de mis ojos me la hace ver. En otras palabras, si existir es real o aparente. El hombre moderno ya no tiene un centro unificador y fundacional de la realidad: no lo es la tierra en el centro del cosmos, no lo es la era del hombre en el centro del tiempo cósmico, ni lo es esta o aquella religión. Las religiones se han erigido, cada una a su manera, en punto de llegada, pero la historia las supera continuamente con nuevas preguntas.

El Zen ha modulado y transmitido una práctica que más que nunca es muy valiosa: es el Zazen. Consiste en sentarse lo más quieto posible frente a una pared sobria, dejando simplemente que la respiración haga su trabajo, mientras la mente también se calla, dejando pasar las distintas imágenes que surjan. Es una vuelta al origen, cuando el yo pensante y deseoso aún no había surgido. Es un bautismo en la propia naturaleza creatural, a aquello que en el tiempo cósmico soy en el corazón del Creador. Es un decir: “Heme aquí”, sin condiciones de méritos y deméritos acumulados en el corto tiempo de la existencia terrenal. El hombre de hoy busca ese ¡Heme aquí! Sin el retorno a ese Heme aquí, el hombre se reduce a remendar un vestido viejo y no conoce la regeneración.

La misión es la regeneración. Es morir y resucitar en Cristo, hoy. Es Cristo que muere y resucita en nosotros, hoy.

P. Luciano Mazzocchi, sx - Milán, 28 de octubre 2022

Información sobre la ruta "Evangelio y Zen": www.vangeloezen.org


Un chemin de foi : le dialogue interreligieux

Le P. Luciano Mazzocchi, sx parle de sa vie missionnaire

Aujourd'hui, 60ème anniversaire de mon ordination sacerdotale, j'ai décidé d'écrire quelques réflexions en vue du Chapitre général que je confie à la considération des confrères.

Mon profil xavérien : issu du séminaire diocésain de Parme, noviciat 1960-61, ordination sacerdotale 1962, affectation 1963 au Japon, rappel en Italie 1982 : 11 années consacrées à la formation et à l'animation missionnaire. De 1994 à aujourd'hui, je me suis consacré à la voie communément appelée : dialogue interreligieux. Dans cette période : j’ai été pendant 9 ans aumônier de la communauté japonaise résidant dans l'archidiocèse ambrosien.

En 1994, 11 ans après mon retour en Italie, au lieu du retour au Japon qui m'était proposé, j'ai demandé au P. Rino, supérieur général, de rester en Italie pour accompagner diverses personnes qui m'avaient confié ressentir une profonde attirance pour le Zen, surtout pour la pratique méditative appelée Zazen. En fait, moi aussi j'ai ressenti le même attrait. Toujours au Japon j'avais participé avec les confrères à une semaine d'exercices spirituels animés par le P. Dominicain Oshida Shigeto. Lui, philosophe et pratiquant assidu du Zen, nous a raconté comment il était venu à Jésus, il nous a notamment fait découvrir le Zazen, c'est-à-dire la méditation transmise dans le Zen, qu'il a continué à pratiquer et à promouvoir.

Le Père Rino accepta ma demande, mais me proposa de la mettre en œuvre en l'état d'absence de la vie communautaire, à la fois pour ne pas influencer les choix missionnaires auxquels chaque communauté se consacrait déjà, et pour ne pas conditionner la nouvelle tentative à laquelle j'ai demandé à me consacrer. Depuis lors, sauf pour une courte période, j'ai été absent de la vie communautaire pendant 26 ans ; absence qui, peut-être, n'était pas et n'est pas si différente que celle d’autres confrères qui suivent des exigences de la vocation missionnaire dans leur milieu.

En m'excusant de ce long préambule, je propose deux réflexions, l'une tirée de ma vie personnelle d'absence, l'autre du cheminement de foi qui sous-tend le soi-disant « dialogue interreligieux ».

Réflexion personnelle

L'absence prolongée de la vie communautaire ouvre invariablement des moments de fragilité humaine et religieuse. Vous vivez seul et vous devez vous occuper de tous les services que la vie exige, sans pouvoir déléguer. Vous connaissez la fatigue et le découragement. Vous pouvez basculer. Dans de telles situations, j'étais soutenu par le souvenir de la fidélité de mes parents et l'exemple émouvant de certains confrères. J'en mentionne un qui est encore très vif en moi. En 1997, du lieu de mon absence (j’étais à Lodi), je me rendais à Parme tous les lundis pour rendre service aux confrères malades. Dans la chapelle du 4ème étage, située en face de l'actuelle, je voyais souvent le P. Alessandro Caglioni, immobile et silencieux, devant le pain eucharistique. Ainsi, il demeurait, noble, même pendant une heure, avec la tumeur dans son corps qui le conduisait à la grande rencontre. Pas d'échange de mots, juste du silence. Et pourtant, cette scène et d'autres m'ont toujours gardé dans une chaleureuse compagnie spirituelle, gardant éveillé mon lien avec la famille xavérienne. Dans l'urgence covid, son frère le P. Gerardo l’a alors suivi, s'occupant des confrères infectés, lui en bonne santé.

En l'absence du contexte communautaire, la vie accentue un défi qu'elle pose tôt ou tard à chacun : c'est le défi du vide. C'est le vide de la solitude, de la maladie, de l'échec, de l'incompréhension, de son propre péché, de l'insignifiance, etc. Rappelez-vous la porte étroite de l'Évangile. Le défi est entre deux réponses : l’acédie ou la régénération créative. Guido Maria Conforti recommandait : s'aimer comme des frères et se respecter comme des princes. S'aimer comme des frères : comme la vie communautaire est précieuse ! Mais pour se respecter en tant que principes, nous avons aussi besoin de chercher la solitude face aux habitudes acquises de la vie en communauté ! Il faut rester calme dans sa propre finitude, croire ce qu'on ne voit pas et prouver ce qu'on espère. Les martyrs et saints xavériens sont des frères, mais aussi des princes.

Réflexion sur le chemin du dialogue interreligieux Évangile et Zen

À cette considération de ma vie personnelle, j'entends ajouter une réflexion qui a mûri en moi jour après jour sur le chemin que nous appelons de façon très hâtive : le dialogue interreligieux.

Le dialogue authentique ne se donne qu'en le vivant : c'est-à-dire qu'on dialogue parce qu'on a conscience de ne pas encore tout savoir, sinon ce serait un monologue théâtral. Beaucoup de dialogue est à ce niveau. Même le soi-disant dialogue interreligieux est souvent un échange de choses qui sont déjà connues, déjà établies dans des traditions et des formes religieuses, à exposer, mais à ne pas toucher. C'est un dialogue interreligieux, mais ce n'est pas religieux. Un professeur, peut-être athée, de phénoménologie religieuse peut faire ce dialogue parfaitement ; un missionnaire, par contre, non. "La foi est le fondement de ce qu'on espère et la preuve de ce qu'on ne voit pas" (Héb. 11,1). Le vrai dialogue, c'est espérer sans posséder ce qu'on espère, croire sans voir ce qu'on croit. Un véritable dialogue s'instaure entre la finitude et la touche d'infini qui habitent notre humanité. On se sent nu, en état d'absence, mais alors la touche de l'infini qui est le germe de la foi, non conditionné par nos certitudes, est revigoré.

Pendant 18 ans, j'ai pu écouter des confessions à la cathédrale de Milan, 12 heures par semaine. Un tiers des pénitents sont des étudiants universitaires. Au plus profond de l'âme des gens, je perçois une inquiétude qui n'est pas seulement sociale ou culturelle et même pas simplement religieuse. C'est existentiel. « La vie a-t-elle un sens ? », « Pourquoi suis-je comme ça ? », « Qu'est-ce qui change si je crois en Dieu ? ». Ce sont les mêmes phrases que je sens silencieusement résonner en moi aussi.

La philosophie moderne est tout un réseau de réflexions autour de la question de savoir si la connaissance est réelle ou seulement apparente ; c'est-à-dire si, en connaissant, je connais la réalité telle qu'elle est, ou telle que les lunettes de mes yeux me la font voir. En d'autres termes, si l'exister est réel ou apparent, la recherche religieuse l'est aussi. L'homme moderne n'a plus de centre unificateur et fondateur de la réalité : le centre n’est pas la terre au centre du cosmos, le centre n’est pas l'ère de l'homme au centre du temps cosmique, telle ou telle religion ne l'est pas. Les religions se sont, chacune à sa manière, posées comme point d'arrivée, mais l'histoire les dépasse sans cesse avec de nouvelles questions.

Le Zen a modulé et transmis une pratique plus précieuse que jamais : c'est le Zazen. Il consiste à s'asseoir le plus immobile possible devant un mur sobre, laissant simplement le souffle remplir sa fonction, tandis que l'esprit est également silencieux, laissant passer les différentes images. C'est un retour aux origines, quand l'ego pensant et voulant n'avait pas encore émergé. C'est un baptême dans sa propre nature de créature, à ce que je suis dans le temps cosmique dans le cœur du Créateur. C'est dire : "Me voici" inconditionné par les mérites et les démérites accumulés dans le court laps de temps de l'existence terrestre. L'homme d'aujourd'hui cherche de "Me voici" ! Sans le retour à ce "Me voici", l'homme en est réduit à raccommoder un vieux vêtement et ne connaît pas la régénération.

La mission est la régénération. C'est mourir et ressusciter en Christ aujourd'hui. C'est le Christ qui meurt et ressuscite en nous aujourd'hui.

p. Luciano Mazzocchi S.X. - Milan, le 28 octobre 2022

Informations sur le parcours « Gospel et Zen » : www.vangeloezen.org

Luciano Mazzocchi sx
16 Dicembre 2022
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