… dalla Delegazione Centrale
La mia vocazione
Noviziato nel 1960, prima professione nel 1961, ordinazione sacerdotale nel 1962, invio in Giappone nel 1963. Dal 1982 in Italia: noviziato, studentato teologico, animazione missionaria, primo annuncio tra i giapponesi immigrati a Milano, testimonianza della via del dialogo interreligioso. Saveriano da 55 anni, raccolgo la mia testimonianza in alcune constatazioni, da cui abbozzo quelle alcune riflessioni che tutt'oggi fanno compagnia al mio pellegrinare missionario.
Dopo 10 anni nel seminario vescovile di Parma, terminato il secondo anno teologico, scelsi la via missionaria. Chiesi udienza al vescovo mons. Colli, successore di mons. Conforti, per ringraziare e chiedere la sua benedizione, ma non mi accolse perché contraddicevo al suo sogno di collocare un sacerdote in ogni parrocchia. Tra l'altro, in seminario io godevo proprio della borsa di studio intitolata al vescovo. Mi accoglierà 3 anni dopo, prima della partenza missionaria.
Più che l'appello che proveniva dalle terre lontane che non conoscono il Vangelo, forse fu una esigenza mia interiore a dischiudermi alla via missionaria. Già da giovane sperimentavo l'incapacità di comprendere che cosa io sono, che cosa sia l'esistenza. Questa domanda insoddisfatta mi ha sempre messo in movimento dall'interno di me. L'incontro con Gesù e il suo Vangelo ha acuito l'irresistibile voglia di camminare. Sì, perché il Vangelo ha acuito il divario tra ciò che sono e ciò che potrei essere, ciò che la società è, e ciò che potrebbe essere. Ho sempre sperimentato il Vangelo come stimolo, punto di partenza, e mai come meta o punto d'arrivo. Forse la vocazione missionaria è scaturita nel percepire una consolazione interiore in questa irraggiungibilità di ciò che io e la realtà potremmo e dovremmo essere.
Non mi è mai stato dato - non per mia scelta - di vivere vari anni calmo in una comunità. Non so se in tale caso sarei cambiato, ma forse no. Mi manca quindi l'esperienza di distendere la mia esistenzialità nel calore comunitario, per cui non sarei capace, come alcuni confratelli, di far sprizzare giovialità in un incontro tra saveriani. Gli incontri saveriani che mi hanno sostenuto soprattutto nei momenti di smarrimento verso i miei voti che ho attraversato, furono incontri personali in cui ho sfiorato l'interiorità profondamente missionaria di alcuni confratelli. Alcuni di questi ricordi: la giovialità di p. Rolando Trevisan con cui ho condiviso il noviziato, p. Mario Veronesi che seduto vicino a me nell'aereo che portava lui a Singapore e me in Giappone nel 1970 recitava il rosario assorto nel mistero della croce che l'attendeva l'anno seguente, di p. Alessandro Caglioni che già distrutto dal tumore passava ore immobile meditando il mistero di Dio davanti al tabernacolo e io l'osservavo seduto dietro, p. Ottorino Maule che ogniqualvolta lo invitavo a smettere di fumare rispondeva che non ce la faceva e poi ce la fece a morire martire della speranza in Burundi. Ricordo anche un amico, ora non più saveriano, che da 15 anni circa vive in una roulotte in un campo nomadi. Il disagio di quella vita non ha intaccato la sua speranza; anzi l'ha confermata. Inoltre, e ancor prima di questi ricordi, il caro esempio dei miei genitori, umili e nobili contadini.
Questo limite della mia missionarietà rimasta troppo personale e mai del tutto serenamente comunitaria, per cui anche quando annuncio il Vangelo agli altri ancor prima sento il bisogno di sondarlo dentro di me, per cui insieme con il Vangelo annuncio sempre anche la mia inquietudine di fronte al Vangelo, questo limite è la prova e anche l'energia della mia vocazione missionaria. Non sono mai riuscito a cantare “... laggiù, del martirio, la palma gloriosa noi sospiriam...”. Il pregare che altri diventino assassini affinché io diventi un martire mi ripugna. Comunque la via missionaria vissuta anche in questo limite mi ha permesso innumerevoli incontri personali di cui rendo grazie. Forse la missione del Giappone era proprio quella in cui io avrei potuto fare un po' di bene. Più volte mi è capitato di sentirmi dire un inaspettato “no” dai catecumeni giunti alla vigilia del battesimo. In quei casi io ho sempre continuato a credere che erano pronti a ricevere la grazia. Dopo 2 anni di catecumenato un medico doveva ricevere il battesimo con la moglie nella notte di Pasqua. Il giovedì santo mi comunicò il suo no. Io preparai anche per lui. Quando lo venne a sapere: “Io ho dubitato, e tu padre no! Chiedo il battesimo per divenire quello che tu hai creduto in me”. Il signor Nagano in seguito per anni fu l'animatore della comunità cattolica di Tanegashima.
Il conoscere i dubbi dentro di sé può diventare agilità nel comprendere quelli degli altri, e così non rimanervi bloccati.
Oggi vivo e testimonio la via missionaria del dialogo Vangelo e Zen. Lo Zen mi è venuto incontro, guidandomi a riconoscere la dimensione del nulla. Non l'avevo mai riconosciuta, perché partivo sempre da ciò che sono, e non da ciò che precede ciò che sono. Annunciavo il Vangelo partendo dal conoscere già il Vangelo, e mai dal non conoscerlo ancora, per cui il Vangelo stava sempre dentro le mie misure. Noi diciamo che oltre ciò che esiste c'è il nulla. La parola “nulla” in genere in noi suscita incubo, per cui ci rifugiamo subito in qualche cosa che è. Ci rifugiamo in Dio, ma lo cerchiamo come qualcosa che già è, secondo le proprie attese. Ci è più facile la via missionaria di ripetere il Vangelo secondo la misura di come noi lo conosciamo, che quella di annunciare il Vangelo scendendo nella profondità dell'oltre ciò che noi sappiamo del Vangelo.
Se possibile, vorrei ritornare missionario in Giappone. Vorrei annunciare ai giapponesi il Vangelo del “nulla”. E' il perdono.
Il giapponese non riesce a perdonare a se stesso e spesso si colpevolizza per l'inguaribile imperfezione dell'uomo. Può anche togliersi la vita. Annunciargli l'amore cristico di Dio, dove il perdono è il nulla in cui il peccato si scioglie e risorge in grazia.
Annunciargli la beatitudine di essere poveri peccatori che lungo l'umile via della conversione conoscono e diffondono la gioia, e di non appartenere ai 99 giusti che, autosufficienti, non sentono il bisogno di dire grazie a nessuno.
Luciano Mazzocchi sx.
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