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Rilettura di un'esperienza di missione

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E’ bello il cammino fatto!

Rilettura di un’esperienza di missione

 Bukavu, 7 febbraio ’15

Il 17 ottobre 1965, nella artistica cattedrale di Parma, avveniva l’ordinazione sacerdotale di 19 missionari saveriani. Ricordo la gioia profonda, in un momento di consapevolezza, quando ho sentito e mi sono detto: sei prete. Quel momento, rimasto nel mio ricordo, ha segnato la tappa di arrivo e di partenza.

Nell’omelia della prima messa nella mia parrocchia, dicevo: La montagna, sulla quale il Signore mi ha chiamato, è grande ed è un grande dono quello di salirci.

Il futuro in un gesto

Simone Weil dice che Il futuro entra in noi molto prima del suo arrivo.

All’inizio della mia piccola storia è il gesto semplice e spontaneo di alzare la mano per manifestare la mia disponibilità ad entrare in seminario per il primo anno delle medie. Il parroco, durante la lezione di catechismo, aveva chiesto a noi ragazzi se c’era qualcuno che voleva diventare prete. Ho alzato la mano ed ho risposto. Non avevo motivazioni particolari.

Il mio paese di nascita è Campiglia dei Berici, comune di solo 1700 abitanti, nella pianura, a sud della provincia di Vicenza.

I miei genitori erano di origine contadina, dopo il matrimonio, avevano aperto un modesto negozio di campagna abbinato a un bar. Erano lavoratori instancabili, generosi e ricchi di fede. Sono il terzo di cinque figli (tre sorelle e due fratelli).

Entrato nel seminario diocesano, ho frequentato la scuola media, il ginnasio, il liceo con qualche bocciatura.

Dopo l’anno di propedeutica, nel sogno di un servizio ai più lontani, con altri due compagni di classe, ho domandato di entrare nell’Istituto Saveriano di Parma per le Missioni Estere.

Il passaggio è costato sofferenza a me nel decidere e ai miei genitori alla partenza.

Ho seguito il normale cammino di formazione: noviziato, prima professione, teologia a Parma, prete, cinque anni in Italia e partenza per le missioni il 02 settembre 1972 con l’arrivo nello Zaire, dopo un sosta forzata a Entebbe, a causa della guerra civile in Burundi, il 9.9.1972.

Primo periodo: la missione in loro aiuto (1972-1981)

La prima esperienza era nello stile tradizionale della Plantatio Ecclesiae, con qualche nuovo orientamento del Concilio Vaticano II. La missione era la fondazione della chiesa, del regno di Dio, là dove non c’era. Un’attività orientata principalmente al servizio della gente. Ci sentivamo missionari per loro, per la loro salvezza, in loro aiuto, per la loro crescita umana e intellettuale, per lo sviluppo. Eravamo noi i protagonisti e la gente era beneficiaria del nostro amore e impegno.

Lavoravamo nella diocesi affidata completamente ai saveriani, con il vescovo della stessa famiglia religiosa, Mons. Danilo Catarzi. Eravamo una quarantina di giovani missionari, dispersi in dieci posti di missione. I preti locali erano solo tre. La diocesi era equipaggiata di un economato diocesano efficiente, con garage, falegnameria e officina meccanica. Vari camion, in continuo movimento, erano a servizio di tutti. Arrivavano almeno una volta al mese nei luoghi più lontani, come alla missione di Kitutu, a 350 km dal centro d’Uvira, con strade impossibili e viaggi lunghi settimane intere. Trasportavano cemento, fusti di nafta e di benzina, provvisioni per la comunità, materiale di costruzione e la posta in arrivo dall’Italia.

Ho iniziato prima come aiutante nella Cattedrale di Uvira, sulle rive del lago Tanganika, poi nella missione Luvungi, a 60 km dalla prima e infine come parroco per circa sei anni a Kitutu, nella foresta.

Ero contento di trovami immerso nella tradizione della tribù LEGA e di scoprire i valori della civiltà africana. Mi trovavo nella zona pastorale di Kamituga, capoluogo di attività minerarie di un vasto territorio. Don Alberto Dioli, prete Fidei Donum, responsabile della zona pastorale, ci animava e ci arricchiva con il suo spirito missionario. Era attento alla situazione di povertà e di sfruttamento degli operai da parte della società mineraria. Veniva da Ferrara e conosceva bene le lotte dei lavoratori in Italia.

Ogni anno organizzavamo delle sessioni per tutta la zona: settimane per i responsabili delle comunità, per i catechisti, per gruppi giovanili, per insegnanti…

A Kitutu, si dava inizio alla pastorale delle piccole comunità di base, che visitavamo regolarmente. Non mancavano le opere sociali: il foyer, la scuola per donne e ragazze, il dispensario, le piccole cappelle per le comunità, le fontane nei villaggi.

Eravamo una comunità di tre sacerdoti e un fratello. Vivevamo una meravigliosa collaborazione con le suore della compagnia di Maria, di nazionalità spagnola, francese, zairese, e con Giusi, volontaria italiana. Zelanti, ci accompagnavano nelle visite ai villaggi più lontani.

Un foglio mensile di condivisione serviva di informazione alle comunità e portava il nome di Kemekemeke… (Il tizzone che serve per portare il fuoco da una casa all’altra)

Il secondo periodo: la missione con la chiesa locale e la società civile (1983-1993)

Se la prima esperienza era caratterizzata dalla preposizione per, la seconda era segnata da una missione con. Si sentiva la necessità di agire con la gente, con la chiesa locale, con la società civile, con i cambiamenti sociali in corso nel paese. Era il tempo della Conferenza Nazionale Sovrana (1992), che suscitava entusiasmo, partecipazione, desiderio di democrazia e di cambiamento.

Gli anni passavano e le vicende del Congo (all’epoca Zaire) non erano del tutto confortanti con la dittatura del presidente Mobutu. Ma la chiesa cresceva e diventava sempre più autoctona. Il vescovo severiano di Uvira si ritirava, e un nuovo vescovo africano prendeva il suo posto, come avveniva in tutte le altre diocesi congolesi. Non era più il tempo delle nostre buone e zelanti iniziative. Era il tempo dell’ascolto, dell’inculturazione, de ritmi più lenti, del decidere e del fare insieme; il tempo della collaborazione con il clero locale et con i laici.

In questo periodo, dopo due anni a Roma per lo studio della Bibbia, ero parroco a Cimpunda, una parrocchia di periferia di città, sul monte che domina il capoluogo Bukavu (a 1700 m) e il lago Kivu.

Ho un bel ricordo di quelli anni. Ero con p. Franco Bordignon e p. Giovanni Tumino, con le suore Dorotee di Cemmo e con… laici impegnati.

La comunità era bene organizzata: piccole comunità viventi, celebrazioni in rito zairese, attività di differenti ministeri, servizi per lo sviluppo e la sanità, cooperativa di compra e vendita…

Il foglio di collegamento portava il nome di kujifanya ndugu, (farsi prossimo).

La missione Plantatio Ecclesiae lasciava il posto alla Chiesa estroversa, attenta alle necessità della gente. L’annuncio del Vangelo abbracciava i cammini del Regno: la giustizia e la libertà, la riconciliazione e la pace, la democrazia e la politica, lo sviluppo e l’ecologia, l’inculturazione e la promozione umana…

Si organizzavano iniziative di educazione alla vita sociale, conferenze sui diritti dei cittadini, sul significato e sull’utilità dei partiti politici, campagne per la coltivazione di piante da frutta, per la lotta contro l’erosione e la sporcizia dei canali, per le adduzioni d’acqua… Una comunità attenta ai problemi della gente. Come dice Charles Péguy: Lo spirituale è adagiato sul letto da campo del temporale.

Il terzo periodo: la missione nella chiesa locale (2003-2014)

La missione cammina con le diverse declinazioni e preposizioni: per, con e in.

In questo periodo predomina la preposizione in, nel, come il sale nella minestra. Il carisma della missione è aiuto alla chiesa locale per essere comunità aperta, in uscita, perennemente in viaggio, positiva e gioiosa, come suggerisce Papa Francesco in Evangelii Gaudium.

Sono rientrato in Congo (RDC) il 10 gennaio 2003, dopo dieci anni di sevizio in Italia. E’ stata una nuova partenza, un nuovo inizio, dopo il genocidio in Ruanda, dopo i terribili eventi di due guerre in Congo e dopo l’eruzione del vulcano a Goma. Il papa Giovanni XXIII diceva: Dovunque sono chiamato a mettere i miei piedi, io devo mettere il mio cuore. Ho provato.

Ho avuto il dono di fare due esperienze complementari:

La prima, nella città di Goma, al nord del lago Kivu, per l’inizio della nuova parrocchia di San Francesco Saverio di Ndosho.

Quando si inizia una cosa del tutto nuova, si ha possibilità di sognare e di inventare. Ero con P. Sisto e, in secondo momento, con p. Umberto, il dottor Paolo Volta e Giovanna.

E’ stato stupendo iniziare con l’installazione di una grande tenda che richiamava l’itineranza del popolo di Dio nel deserto. La tenda, che è accoglienza, relazione, provvisorietà, adattazione, libertà.

Si esponevano tre sogni (I have a dream…): il sogno di un grande altopiano (a me veniva in mente quello delle marmotte della Valle di Non), che favorisce lo studio e la contemplazione della Parola di Dio; il sogno della casa azzurra (e c’era un riferimento concreto nelle vicinanze) per l’incontro della piccola comunità; il sogno della città nuova, che vive nella giustizia e nella pace.

Il foglio di collegamento in questa nuova comunità portava il nome: Tutaweza (yes we can), ce la faremo. Per un insieme di eventi provvidenziali, si è arrivati a stabilirsi in un terreno centrale, grande e superbo; a costruire una chiesa e scuola tra i rifugiati di Mugunga; ad erigere un villaggio per i pigmei con la piazza e un monumento dedicata al libro dell’Esodo; a rifare la strada di tre km per Rusayo…

La seconda esperienza, nella parrocchia di Mater Dei

La comunità era giovane e già in cammino. Il 2005 era programmato come l’anno dell’albero in crescita e che portava frutti in abbondanza. Il 2006 era l’anno della campana che suonava a festa in occasione delle elezioni presidenziali e che ricordava (in quattro grandi pannelli in ferro, di diversi colori) i diritti dell’uomo, della donna, del fanciullo e di Dio. Il 2007 è stato l’anno dell’aquila, che lascia il pollaio per volare verso l’azzurro e sulle alte cime.

L’undici ottobre, di quest’ultimo anno, ha segnato il passaggio della parrocchia al clero diocesano, con lo spirito di Giovanni Battista: Egli deve crescere e io diminuire (Gv 3,30).

Da anni, ora, sono a servizio della Animazione Missionaria nella Diocesi di Bukavu (SDAM, Servizio Diocesano d’Animazione Missionaria) e cappellano dell’Istituto universitario di Pedagogia (ISP).

Si aiutano le parrocchie a coltivare l’apertura e la sensibilità per la missione, poiché la comunità statica, s’ammala. In collaborazione con i laici, provenienti dalla varie parrocchie della città, si preparano schemi per incontri del mese d’ottobre, della quaresima, della settimana dell’unità. Si visitano decanati e si curano trasmissioni alla radio diocesana.

Il servizio alla cappellania de l’ISP è un’attività speciale e prioritaria per incontrare i giovani universitari, che non trovano spesso risposte alle loro inquietudini, ai loro bisogni, alle loro domande e alle loro ferite (EG 105). Non è sempre facile entrare nel loro mondo. Si organizzano conferenze, dibattiti su problemi d’attualità e, per i professori universitari, incontri trimestrali. Il foglio di collegamento porta il nome Carrefour.

Nella riconoscenza

Guardo il passato con riconoscenza.

Contento di essere prete, missionario e soprattutto prete dell’anno 1965, l’anno del concilio. Ho vissuto il tempo prima, durante e dopo il Concilio Vaticano II. Un evento straordinario nel periodo più bello della mia giovane età.

In genere sono un po’ critico, un po’controcorrente e timido. Non mi piacciono le cose troppo strutturate, le opinioni prêt-à-porter, i pensieri comuni e deboli. Mi annoiano le omelie lunghe, il già saputo e il già udito. Ho scritto sulla parete della sacristia della cappellania: Che la predica sia corta per non oscurare la Parola di Dio. Viva Papa Francesco!

Amo l’aggiornamento, visito volentieri le librerie. Ho fiducia nelle persone e rispetto la loro libertà, “perché si diventa veramente liberi tramite la libertà degli altri”.

Sono ottimista. Il meglio, infatti, deve ancora venire, perché il tempo è una freccia diritta verso il punto omega. Chiedo il dono della speranza, che supera l’ottimismo. Il futuro è d’amare con fiducia.

Per completare:

La parola del Vangelo che mi arricchisce: rimanere, ripetuta molte volte da Giovanni.

I salmi che m’ispirano serenità e fiducia: il 22 e il 138.

Il racconto preferito dei vangeli: i discepoli di Emmaus.

Gli autori presenti nella mia piccola biblioteca e compagni di viaggio: Bruno Maggioni, Carlo M. Martini, Bruno Forte... E altri come Paolo Curtaz, Ermes Ronchi e, ultimo solo in ordine di tempo, Papa Francesco, per linguaggio, intuizioni e immagini.

I detti di saggezza pratica: Fare, far fare, lasciar fare, e Non avere paura, non fare paura, liberare dalla paura.

Scrivo questa lettera, un po’ particolare, in seguito alla mia testimonianza, fatta il 3 dicembre, in occasione della festa di San Francesco Saverio. Il cammino fatto è bello!

La rilettura del passato mi è utile per vivere nella riconoscenza. Ho lasciato da parte qualche difficoltà e qualche evento non positivo della mia piccola storia (I miei limiti ci sono e non li conosco tutti.)

Molti altri confratelli hanno storie da raccontare meglio di me. Alcuni di loro sono deceduti e sepolti nel nostro piccolo cimitero di Panzi, nella periferia di Bukavu. Tra loro, le tre sorelle uccise in Burundi, il 7-8 settembre scorso. Come diceva Papa Francesco, citando un cardinale Brasiliano, che bisognerebbe beatificare tutti i missionari deceduti in terra di missione, nella terra del loro servizio, dopo aver vissuto una vita di annuncio e di testimonianza.

Per me, domando una preghiera, perché possa meritare l’entrata in paradiso da una porta, come dicono i francesi dérobée, di servizio e furtivamente.

Giuseppe Dovigo sx

Dovigo Giuseppe sx
14 Maggio 2015
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