Sessant'anni fa, il 27 aprile 1961, la colonia britannica della Sierra Leone diventava una nazione indipendente, uno dei pochi stati africani ad ottenere la propria sovranità senza rivoluzioni o spargimento di sangue.
Il nuovo governo era presieduto dal primo ministro Milton Margai, mentre la regina Elisabetta sarebbe rimasta capo di stato formale fino al 1971, anno in cui il presidente Siaka Stevens avrebbe proclamato il paese una repubblica totalmente slegata dal Regno Unito.
Evidentemente non fu facile per i Sierra Leonesi diventare indipendenti e gestire la nuova realtà nazionale in vista del bene di tutti. C’era prima di tutto l’urgenza di mettere insieme la Colonia della penisola di Freetown con il Protettorato (che comprendeva il resto del paese), e armonizzare le loro diversità di leggi e tradizioni. I Creoli della capitale Freetown, che costituivano la maggioranza degli intellettuali, volevano evidentemente dominare la politica, mentre il resto del paese non accettava più di essere soggiogato a nessuno. Quindi, per vari anni la politica fece non poca fatica a decollare verso un effettivo impegno per il bene comune.
Da “buon missionario” avevo seguito da Parma le vicende della Sierra Leone; ero un giovane saveriano e condividevo volentieri le speranze dei miei confratelli di vedere presto quel paese posizionarsi all'avanguardia delle nuove nazioni indipendenti dell’Africa.
La Sierra Leone aveva allora delle discrete possibilità di sviluppo, quali una chiara struttura legislativa (anche se di stampo troppo inglese per un paese africano), miniere di ferro e di diamanti, l’oceano ricco di pesci, grandi possibilità per l’agricoltura, e foreste di legno pregiato. Inoltre la dozzina di tribù che costituiscono la popolazione cominciavano a capire la necessità di essere unite in una famiglia nazionale.
Nonostante tutto questo, i problemi non mancavano. Vi era soprattutto la quasi totale assenza di leader preparati e capaci di assumere ideali ed impegni nazionali; il sistema scolastico era ancora limitato ai grandi centri come Freetown, Bo, Makeni, e Magburaka; le leggi, tradizioni, e interessi tribali erano prioritari sulle nuove strutture nazionali nate con l’indipendenza; l’intellighenzia dei Creoli di Freetown continuava a controllare sia il governo che la burocrazia; le infrastrutture di strade, ponti, elettricità, e gli scambi commerciali erano ancora troppo indigenti perché si potesse sperare in un miracolo come quello dell'Italia durante i primi anni del secondo dopoguerra. Nei primi dieci anni di indipendenza, grazie alla eredità legislativa ed economica lasciata dalla Gran Bretagna, la Sierra Leone continuò ad andare avanti abbastanza bene anche se non si muoveva in fretta. Le leggi ed i servizi funzionavano abbastanza regolarmente. Ricordo chiaramente, e con piacere, che quando arrivai in Sierra Leone, era ancora vivo l'orgoglio di essere la nazione meno militarizzata di tutta l’Africa! Forse non era proprio vero, ma le spese militari allora non superavano il 2% del bilancio nazionale.
Poi nel ’67 iniziarono i colpi di stato, uno dopo l'altro, fino alla vittoria del partito APC (All Peoples Congress) e del suo capo Siaka Stevens che sarebbe rimasto alla guida del paese per circa 20 anni. Stevens aveva raggiunto la sua prominenza politica con i sindacati delle miniere, ed aveva fondato un suo partito, l’APC, a cui aveva dato per stemma il sole dell'avvenire nel rosso dell'amore… o della violenza, come poi in realtà accadde.
Quando arrivai in Sierra Leone nel luglio del ’68, nel paese c’era ancora molta tensione politica, tanto che all'aeroporto io e altri due passeggeri fummo accolti da soldati con i fucili spianati.
Purtroppo la gestione politica del paese da parte di Stevens diventava ogni giorno sempre più dittatoriale; il parlamento non faceva altro che approvare servilmente le sue decisioni, giungendo persino a modificare degli articoli della Costituzione senza un vero dibattito. Così pure il nepotismo e clientelismo aumentavano ovunque; i valori e le strutture nazionali diventavano sempre più fragili, e lo sperpero di finanze sempre più evidente.
L’orgoglio di Stevens lo portò poi ad invitare l’OAU (Organization of African Unity) a riunirsi nella capitale Freetown per l’incontro panafricano. Fu un enorme sperpero di finanze pubbliche, impiegate soprattutto per coprire i costi di villette che aveva fatto costruire appositamente per i capi delegazione. Al dire di tanti, quell’enorme dispendio di soldi – si parlava allora di circa $ 200 milioni – fu l’inizio ufficiale dell’inflazione, della corruzione, e di tanti disastri nazionali.
Nel 1985, ormai vecchio e stanco, Stevens, che aveva dichiarato l’APC partito unico, impose al paese come suo successore un uomo a lui assolutamente fedele, ovvero il capo di stato maggiore dell’esercito, Joseph Momoh. Di fatto, Momoh divenne un presidente burattino e ciò fu una delle condizioni fondamentali per lo scoppio della guerra civile nel 1991.
Fu difficile, anche per noi missionari presenti da anni in Sierra Leone, prevedere quella guerra civile – un conflitto che sarebbe durato 10 anni, avrebbe prodotto ovunque distruzioni di ogni genere, e soprattutto si sarebbe scagliato con brutalità inaudita contro tante persone innocenti.
Ci è difficile calcolare le vittime della guerra, ma è facile stimare che i morti siano stati più di 10.000; innumerevoli furono le amputazioni di braccia e piedi e molto diffuso il reclutamento di bambini soldato. Le statistiche ci dicono pure che il 90% della popolazione ha dovuto fuggire da casa almeno per qualche tempo. Veramente, quel periodo è stato l’esperienza più tragica per il paese ed un momento in cui esso è rimasto dimenticato dal resto del mondo.
Anche la Chiesa cattolica ebbe le sue vittime: quattro suore di Madre Teresa furono uccise nel ’99 a Freetown… quasi per scherzo! Sette sorelle saveriane furono tenute in ostaggio dai ribelli per due mesi; l’Arcivescovo di Freetown fu fatto prigioniero e umiliato con tanta cattiveria; vari saveriani e giuseppini furono tenuti in ostaggio per giorni, mentre chiese, case parrocchiali, e scuole venivano distrutte su larga scala. Inoltre, tutti i mezzi di trasporto delle missioni furono distrutti o rubati. Molta della nostra gente si chiedeva, “Ma perché tutta questa sofferenza? Perché siamo abbandonati da tutti e anche da Dio?”
Però, non possiamo neppure dimenticare la bontà di tante persone, cristiani e non, che durante la guerra, malgrado la loro stessa indigenza, hanno aiutato padri e religiosi a nascondersi ed avere un po’ di cibo. A loro, anche adesso, va il nostro grazie più vero.
Uno degli aspetti più noti della nostra guerra civile fu il reclutamento di bambini – persino quelli con appena due anni di età – per diventare membri effettivi sia delle milizie ribelli, come di quelle dell’esercito.
Padre Vittorio Bongiovanni, che visse la guerra in prima persona e spesso rischiò la vita nei suoi numerosi incontri con le forze amate, ci racconta questo triste episodio:
“Tra i bambini soldato c’era pure una bimba di nome Fatimata Kamara. I ribelli l’avevano strappata alla sua famiglia nel villaggio quando aveva solo due anni. Incontrai Fatimata alla fine della guerra, sei anni dopo, nel campo dei bambini soldato a Makeni e subito decisi di riportarla al suo piccolo villaggio vicino a Yele, a circa 70 km di distanza. Per liberarla, chiesi a Fatimata il nome del suo villaggio e quello dei suoi genitori.
Alla mia domanda, “Come si chiama tua mamma?”, mi rispose, “Mamma!”. E poi a, “Com’era tua mamma?”, rispose “Grande”. “E tuo papà?”, “Grande!”. Così, non si ricordava nulla neanche del villaggio. Finalmente, e solo provvidenzialmente, venni a sapere il nome del suo villaggio. Allora la consegnai ad un maestro di quelle parti perché la riportasse indietro dai suoi genitori. Arrivato al villaggio, il maestro incontrò una donna che stava andando a lavare i panni al fiume. Questa, al vedere la bimba, si mise a gridare: “Questa è la mia Fatimata!” E svenne dalla commozione.
Finalmente nel 2002 è arrivato il dono della pace per tutta la nazione. L’allora presidente Kabbah, che si era tanto impegnato per la riconciliazione nazionale, fece un appello ufficiale: “Perdoniamo e dimentichiamo questa guerra.”
Ancora Padre Vittorio mi confida di aver commentato in cattedrale le parole presidenziali cum grano salis e di aver detto che, pur non essendo noi capaci di dimenticare, abbiamo però bisogno di imitare Gesù, il quale sulla croce prega il Padre di perdonare i suoi crocifissori.
Negli ultimi vent’anni abbiamo assistito ad un cambiamento positivo di mentalità come effetto immediato della guerra, persino nei bambini, che altrimenti usano facilmente parole violente nei riguardi dei loro coetanei. Un altro buon effetto della guerra è stato un risveglio delle coscienze circa i diritti umani, della libertà di opinione, della condanna della corruzione dilagante, pur non riuscendo sempre a produrre cambiamenti nella realtà nazionale.
Al momento presente, dopo dieci anni sotto la presidenza di Ernest Koroma dell’APC e tre sotto quella del presidente Maada Bio, la Sierra Leone resta uno dei paesi più poveri al mondo. Nello stesso tempo, si nota ovunque una voglia di giustizia, di democrazia, di sviluppo contro ogni violenza fisica e morale.
La Chiesa rimane all’avanguardia, con catechesi ed opere di carità, perché i Sierra Leonesi diventino loro stessi gli artefici principali di uno sviluppo futuro che unisca sempre più la nazione nella pace. La pace, infatti, rimane il desiderio più sentito da tutta la simpatica popolazione della Sierra Leone.
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