Skip to main content

Appunti sull’ad gentes

834/500

È stato chiesto alle comunità saveriane di riflettere sul tema dell’ad gentes in vista della prossima COSUMA. Tuttavia, le questioni proposte sembravano mirare a delle finalità operative, senza mettere in discussione troppo i presupposti o provocare una (necessaria) riflessione di carattere fondamentale.

In che senso, allora, la missio ad gentes (ai non-cristiani) può essere intesa come sfida e impegno identitario del Saveriano chiamato a dare una risposta qualificata, individuale e come Famiglia, oggi? Che cos’è la missione ad gentes? Chi sono i nostri interlocutori? Chi siamo noi, come ci intendiamo e a che servizio siamo chiamati?

1. La missione ad gentes è la missione coloniale. 

Il termine “missione” nasce nel XVI secolo con la conquista delle Americhe, all’inizio di un’era moderna che non sorge da fattori intra-europei, come molti sostengono, ma da un processo di dominio extraeuropeo. Perciò quando parliamo di “missione” non ci rifacciamo idealmente al mandato missionario di Matteo, che aveva come obbiettivo disporre la comunità giudaica all’accoglienza dei non-giudei, ma alla “missione moderna”, braccio spirituale del colonialismo, quintessenza della conquista del resto del mondo da parte dell’Occidente. Se da un lato i missionari si sono battuti a denunciare gli innumerevoli e gravi delitti dei colonizzatori contro le popolazioni originarie dei vari continenti, dall’altro non hanno mai messo in discussione le intenzioni, ritenute buone, dell’opera coloniale.

Quando diciamo “missione ad gentes”, diciamo “missione coloniale”, dal superiore all’inferiore, dal civilizzato al barbaro, dal bianco all’indio e al nero, dal ricco al povero, dal cristiano al pagano, il quale pagano senza dubbio possiede anima e ragione, ma non le sa adeguatamente usare. In quanto subalterno, l’altro è sempre qualcuno da educare, da civilizzare, da cristianizzare, per tornar-lo “uguale a noi”.

Questa colonialità non è qualcosa legata ai tempi passati, ma è intrinseca all’occidente, alla modernità e alla missione e sopravvive al colonialismo storico. Per cui in qualche modo continuiamo visceralmente coloniali nel nostro modo di essere, di pensare, di agire che consideriamo assolutamente naturali, quando invece non facciamo altro che rivelare il nostro etnocentrismo. 

Descolonizzare la missione non è un processo facile e immediato, soprattutto perché non dipende solo da una parte dei soggetti coinvolti in una relazione di dominio. Ci vorranno forse generazioni. Ma è bene già rendersene conto, senza osannare troppo la missione ad gentes: è un buon primo passo verso una riconfigurazione decoloniale della missione.

2. I nostri “interlocutori”. 

È sempre stato un problema per la missione dare un nome ai propri “interlocutori” (non destinatari). Li abbiamo chiamati: pagani, infedeli, barbari, non-cristiani. “Gentes” indicava le etnie che non appartenevano al “populus”. Definire l’altro diverso da me, è comunque un’operazione piuttosto delicata. In tutti i casi ci si potrebbe anche sforzare a cercare termini che invitino più positivamente all’incontro, smantellando presupposti etnocentrici.

Ma la domanda che più ci assilla è: chi sono oggi questi non-cristiani? Quando si aveva come riferimento il regime di cristianità, era abbastanza chiaro. Ma oggi che la cristianità non c’è più, come ci muoviamo? Ci possiamo davvero accontentare con la definizione del non-cristiano “culturale” come quello “non ha mai sentito parlare di Gesù Cristo”? 

Quando Medellín parla dell’“evangelizzazione dei battezzati” (DM VIII,9), parla di un paradosso: la logica vuole che si evangelizzi per battezzare; invece qui in America Latina si evangelizza chi è già stato battezzato. Perché con la colonizzazione c’è stata una cristianizzazione forzata, mai una vera evangelizzazione: dove c’è stata oppressione non c’è stata evangelizzazione. E di fatto, la Conferenza di Santo Domingo è costretta ad affermare che la maggior parte dei battezzati in America Latina non ha mai dato la propria adesione personale a Gesù Cristo (DSD 33b): e allora, chi sarebbero i non-cristiani?

Da qui capiamo che la missione oggi è a tutto campo e non vi sono dei territori, popoli o persone che non siano soggetti di un profondo e fondamentale dialogo missionario: tuttavia, e qui dovremmo riflettere un po' di più, esistono ambiti, situazioni, contesti, frontiere, periferie, fuori dal raggio d’azione delle Chiese locali, che dovrebbero costituire l’oggetto di interesse per gli istituti missionari. 

3. Il primo annuncio. 

Ci definiamo come missionari a partire dal primo annuncio del Vangelo a chi non lo conosce. Le Costituzioni non parlano quasi mai di primo annuncio. Affermano più chiaramente e sostanzialmente: “La nostra missione ci chiede di proclamare il Regno là dove non è ancora riconosciuto, di denunciare quanto vi si oppone, di indicarlo già presente nei segni, di collaborare alla sua venuta (LG 5.16; AG 11; GS 39; RH 11)” (C 7).

Papa Ratzinger nell’Enciclica Spe Salvi osserva che Il cristianesimo non è una comunicazione di contenuti fino a quel momento ignoti: il messaggio cristiano non è “informativo”, ma “performativo” (SS 2). Ciò significa che il Vangelo non è soltanto una comunicazione di cose che si possono sapere, ma è una comunicazione che produce fatti e cambia la vita.

Il XVI Capitolo Generale ha trattato del primo annuncio in senso chiaramente “performativo” (46-55). Il XVII Capitolo ha ripreso e confermato i passaggi del precedente. L’Evangelii Gaudium ci ricorda che il primo annuncio “non significa che sta all’inizio e dopo si dimentica o si sostituisce con altri contenuti. È il primo in senso qualitativo, perché è l’annuncio principale, quello che si deve sempre tornare ad ascoltare in modi diversi” (EG 164).

In questo senso, il primo annuncio non riguarda appena i cosiddetti “non-cristiani”, ma anche la Chiesa stessa perché, come dice la Conferenza di Aparecida, “per convertirci in una Chiesa piena di slancio e audacia evangelizzatrice, dobbiamo essere nuovamente evangelizzati” (DAp 549). 

Quindi, l’annuncio kerigmatico è chiamato a permeare tutta la relazione comunicativa dell’incontro con l’altro in termini di reciprocità: non è affatto una questione di “ardore, metodo e espressione senza alterare o modificare il contenuto del messaggio evangelico” (DSD, Discorso inaugurale, 10). come voleva Giovanni Paolo II, ma al contrario il primo annuncio ci invita a una apertura nella ricerca e nella scoperta sempre nuova e sorprendente del volto di Dio a partire dall’incontro con l’altro. Il primo annuncio è sempre qualcosa che comunichiamo e che ci viene comunicato: altrimenti si riduce a una interazione egemonica.

Mi auguro che la COSUMA tenga presente queste problematiche, e soprattutto che rifletta sui presupposti della missione ad gentes.

Curitiba, Brasile, 10 luglio 2021

Stefano Raschietti sx
25 July 2021
834 Views
Available in
Tags

Link &
Download

Area reserved for the Xaverian Family.
Access here with your username and password to view and download the reserved files.