La notizia della morte di don Carlo Molari, avvenuta lo scorso 19 febbraio, ha risvegliato nel mio cuore ricordi cari e sentimenti di simpatia e gratitudine per quest’uomo che ha fatto del bene alla Chiesa e anche alla nostra famiglia missionaria. Don Carlo era un uomo intelligente, buono, generoso e, da buon romagnolo, di grande umanità. Io sentii parlare di lui quando ero ancora un giovane missionario in Burundi; leggevo i suoi articoli sulle riviste di teologia e pastorale nel periodo del post Concilio, idee molto preziose per la missione e più ancora quando fui di ritorno in Europa. Gli articoli che cercavo erano di teologia fondamentale, pastorale e catechetica, articoli interessanti che mostravano un uomo dagli orizzonti vasti e coraggiosi. Ne ricordo uno in particolare in cui affermava che di Dio non si può a stretto rigore dir nulla e che una buona teologia dovrebbe accettare una forma di afasia.
Parlava un linguaggio teologico nuovo che affascinava e affrontava temi di frontiera. Ricordo in particolare un libro, La fede e il suo linguaggio (1972) che era allora quasi clandestino. Sapevo che faceva parte del comitato di redazione di Concilium e che proprio per il suo coraggio e il suo linguaggio libero anche se sempre rispettoso, era stato in passato – parlo degli anni ‘70-80 – oggetto di qualche riserva da parte del Sant’Ufficio pur senza incorrere mai in una condanna. Per questo ci fu sconsigliato di chiederlo come insegnante per il nostro ITS (Istituto Teologico Saveriano) di Parma: sarebbe stato difficile ricevere l’affiliazione da parte dell’Università Urbaniana di Roma. Tutto questo però bastava per noi, giovani missionari, per rendercelo… simpatico. Si capiva che don Carlo faceva parte di quel gruppetto di teologi italiani (pochi allora) che tentavano vie nuove della teologia al fine di renderla attuale e ispiratrice per una pastorale rinnovata nel dopo Concilio.
Quando fui nominato direttore del corso di formazione permanente dei Saveriani a Tavernerio, i cosiddetti “Tremesi”, don Carlo era già parte del team di insegnanti del corso e per sette, otto anni, fu uno dei maestri immancabili. Era incaricato di offrire ai missionari una visione nuova e insieme complessiva della vita spirituale a partire dalla rinnovata teologia postconciliare. Erano gli ultimi anni ’90 e già la teologia aveva aperto i suoi orizzonti, ma per noi missionari, assenti in quegli anni dall’Italia e dall’Europa, spesso si trattava ancora di argomenti abbastanza nuovi.
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