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Marcire o rinascere

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Marcire o rinascere

Ero in Brasile quando la foto del latitante dallo sguardo sfidante, brindando con un bicchiere di birra in mano, ha fatto il giro di tutti i giornali di qua e di là dell’oceano. Sono ancora in Brasile quando lo stesso é finalmente tradotto in Itália per scontare la sua pena. E ascolto la parola “marcire in galera”.

Ho visto la prima foto quando ero su un mezzo pubblico. Accanto a me un signore leggeva il giornale e, per i saluti che ci rivolgemmo, comprese subito che ero italiano. Quasi  con atteggiamento di sfida mi mostrò la foto... “Ecco, lá... gli italiani!”. Il disprezzo del mio vicino di viaggio, la foto del Battisti fecero emergere il peggio di me stesso e mi venne alla memoria il grido di Lamech: «Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette» (Gn 4,24).

Riuscii a mantenere la calma volgendo lo sguardo in altre direzioni. Nella poltrona davanti a me stava un giovanotto con un ciondolo all’orecchio: una croce. Fu  sufficiente per lasciare il mio vecchio Lamech nelle parti più nascoste e negative di me stesso e ritornare al Nuovo Testamento, alla Croce, alla parola di Gesù: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). E ancora: «In verità ti dico, oggi sarai con me in paradiso» (Lc 23,43).

Nel frattempo il signore del giornale mi chiedeva di uscire (io stavo nel corridoio). Mi alzai e facendo i movimenti necessari per lasciarlo passare sentii di avere i tasca la corona del rosario. Fu una seconda ispirazione: Maria, madre della misericordia. Pregai come faccio sempre quando passo davanti al carcere de Hortolândia: «Mamma, che ti sei sentita dire: niente è impossibile a Dio, tocca il cuore di questa gente perchè tornino ad essere gente per bene».

Abbiamo celebrato il quarto anniversario della nascita della nostra parrocchia (17 gennaio): San Guido Maria Conforti a Hortolândia (SP). Facendo un calcolo approssimativo, 30/35 mila anime alle quali bisogna aggiungerne undici mila, tanti sono (approssimativamente) i detenuti nel carcere Ataliba Nogueira.

L’entrata e parte del territorio del carcere si trovano nella nostra parrocchia. Nella celebrazione del quarto anno di vita non potevano dimenticare i detenuti.

Per più di due anni i nostri parrocchiani si sono messi in fila con i visitatori: madri, sorelle, anche qualche papà e fratello dei carcerati, per offrire loro un caffé, un te a volte biscotti e panini.

I lettori di Missionari Saveriani si ricorderanno del piccolo progetto con il quale abbiamo potuto comperare biscotti e panini da offrire a chi sosta sotto il sole per ore per riuscire ad incontrare il congiunto in carcere. Ora una norma di sicurezza ci vieta di metterci in fila, perché noi non siamo parenti!

A noi però, missionari del Vangelo di Gesù Cristo, non ci è precluso educare la nostra gente alla misericordia e alla coscienza della fraternità universale, al pensiero che là dentro vi sono delle persone che soffrono. Come soffrono le madri che sono in fila ad attendere il loro turno e superare un umiliante controllo.

Una di loro un giorno mi disse: «Adam é proprio un poco di buono, ne ha fatte di tutti i colori, ha fatto assalti, ha venduto droga... Ma...(con un sospiro) è mio figlio».

Ecco, “é mio figlio” dice il Creatore di ogni uomo e donna della terra. Io sono andato in quel carcere per incontri personali: dialogo, confessione, fare compagnia... Mi sono convinto che per molti, moltissimi, vi sia la possibilità di una rinascita. Certamente il carcere di Hortilândia ha difficoltà a risponde a quello che recitano le Costituzioni dei nostri Paesi: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Lo dice anche la Costituzioni della Repubblica Federale del Brasile. Ma certo qui a Hortolândia non siamo nel carcere di Massama; le celle contengono otto ripiani di cemento come letto a castello e quasi sempre i detenuti arrivano a più di dieci.

Anche qui peró vi sono dei piccoli ma validi tentativi di reinserimento nella societá con scuola, lavori dentro e fuori dal carcere. Anche qui si può sognare.

Il pensiero va al Serenelli, l’assassino di Maria Goretti, o anche a Pranzini che prima di salire i gradini che lo separano dalla ghigliottina manda un messaggio a Santa Teresina del Bambino Gesù, baciando tre volte il crocifisso...

E allora perchè non sognare per tutti, anche per Battisti, la possibilità di una crisi, di una presa di coscienza delle sue responsabilità, di una revisione critica della sua vita, pentimento provato, vero e sopratutto non per avere sconti di pena o migliori trattamenti.

Comunque, con il Vangelo in mano e la corona in tasca, continuo a insegnare alla mia gente che ogni persona umana è mio fratello, è mia sorella, dei quali neanche Gesù Cristo si vergogna (Cfr. Eb 2,11).

Per andare dalla nostra città di periferia alla cittá vicina molto più grande dobbiamo sempre passare davanti al carcere.

Continuo a chiedere di pregare per quella massa di detenuti, e di sognare che almeno qualcuno di loro confessi che la spavalderia di un braccio alzato con il bicchiere di birra non era che un modo per nascondere il tormento di una coscienza che chiedeva drammaticamente: «Dov’è Abele tuo fratello?» (Gn 4,9).

Se la risposta non sará ancora una volta quella di Caino, se non sarà ancora una volta la difesa acritica di sè e della proprie azioni, se la risposta non sarà: «Sono forse io il guardiano di mio fratello?» allora il reo avrá ritrovato la sua umanità, continuerà in cella, certo, ma avremo un uomo che testimonia la possibilità di non marcire, ma di rifiore, o, per me che credo, di risorgere.

Alfiero Ceresoli sx
23 Enero 2019
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