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Martirio in Burundi. Articoli di stampa

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Articolo apparso in Comix 63, 1995, pp. 28-30

QUEI FRATELLI COCCIUTI
COSI LI RICORDO

Li ho incontrati e ho parlato a lungo con loro poche settimane fa a Bujumbura. In quei giorni i Saveriani del Burundi celebravano la loro assemblea annuale. C'erano tutti. Il titolo era provocatorio: “Perché restare?”.

Dietro questa domanda c'era la loro storia. Molti di loro avevano sulle spalle anni di Burundi. Alcuni erano stati espulsi dal Paese ai tempi del dittatore Bagaza. Poi, cambiato il governo, erano tornati. Avevano vissuto, ma era stata una breve parentesi, l'euforia del miracolo burundese, quando erano state fatte le prime elezioni e si era insediato un governo eletto dalla gente. Poi, di nuovo, l'inferno. Il colpo di stato. Il ritorno dell'odio e delle lotte etniche. La guerra.

Non si contano ormai più gli anni in cui in Burundi regna la violenza: la guerra è ormai compagna abituale di vita. Una guerra che attraversa anche le comunità cristiane, che entra dentro a chi è costretto a viverla e subirla. Si respirava questa tensione durante l'assemblea. In ogni conversazione. In ogni momento di dialogo e di incontro. Una tensione che entrava anche in chiesa e diveniva preghiera durante le celebrazioni.
Chi ormai da anni vive in un mondo di violenza; chi è costretto ogni giorno, ogni settimana, ogni mese a dover seppellire morti, curare feriti, a inseguire per aiutarli, gli sfollati che fuggono braccati dall'esercito, ad un certo punto non è più capace di pensare ad altro.

Chi guarda da fuori fa fatica a capire. Facevo fatica in quei giorni a comprendere la loro fissazione, il loro tornare continuamente nelle conversazioni sui fatti di violenza e di morte di cui erano stati testimoni.

Perché restare

Ne parlai con padre Ottorino. La sua risposta mi colpì: “E' vero. Una sana igiene mentale consiglierebbe ogni tanto di staccare la spina, di uscire dal Paese e per un po' di tempo pensare ad altro. Ma come si fa? Loro non possono permetterselo. Perché dovremmo permettercelo noi?”.
Padre Ottorino era fatto così. Appariva timido e schivo, ma era cocciuto nelle sue convinzioni. All'inizio dell'assemblea aveva contestato il titolo: “E' sbagliato mettere il punto interrogativo: "perché restare?". Non dobbiamo mettere in discussione se restare, ma solamente in che modo restare”.
Poi Padre Aldo e Padre Ottorino erano tornati nella loro missione a Buyengero. La loro attività, dopo che avevano costruito dal nulla la parrocchia, era ormai tutta dedita al ministero della riconciliazione.

Un laboratorio di convivenza

Buyengero era solo parzialmente toccata dalla violenza. Poteva diventare un laboratorio di convivenza. Pochi giorni dopo, in uno dei frequenti collegamenti via radio, ho ascoltato Padre Ottorino raccontare entusiasta l'esperienza riuscita di tre giorni di convivenza a cui avevano partecipato ottanta giovani, tra Hutu e Tutsi. Era la loro sfida. Essere presenti loro stranieri, figli di una cultura tutta diversa, che avevano dovuto studiare a lungo per apprendere una lingua difficile come il Kirundi per dire con la vita che è possibile ed è bello vivere insieme.
L'aveva capito Catina Gubert. Una donna anziana colpita dal mal d'Africa. Era stata volontaria in un progetto di cooperazione. Poi, una volta andata in pensione, aveva deciso di tornare.

Epopea missionaria

Certo ora, dopo questa tragedia, è giusto interrogarsi. Quella del Burundi è ormai una tragedia senza fine. La guerra etnica in un Paese a maggioranza cattolica sembra mettere in crisi tutta l'epopea missionaria. Vescovi, sacerdoti e religiosi che perseguono il dialogo sono continuamente minacciati di morte. Si vive nell'intimidazione.
Ma forse sta proprio qui il grande paradosso della missione. Nel voler restare a condividere gioie, speranze, tristezze e angosce della gente a cui si è stati mandati. Anche quando è pericoloso. Anche se tutto sembra congiurare contro.

E' per questo che hanno deciso di seppellirli lì dove sono stati assassinati. Un atto estremo di cocciutaggine missionaria. E' vero. Per i missionari non è mai in discussione se restare, ma solo come restare.

Eugenio Melandri

Da "Il Mattino", 2 ottobre 1995


Articolo apparso in Comix 63, 1995, pp. 23-24

COME UN GIORNALISTA RICORDA P. ALDO

Padre Aldo sosteneva di temere i giornalisti tanto quanto il Diavolo. Eppure nel caldo afoso del Burundi, piccolo, misero e violento Paese dell'Africa equatoriale, era ben presto divenuto un punto di riferimento per i cronisti italiani. Gli inviati che lo scorso anno sono stati “paracadutati” a raccontare il genocidio nel vicino Ruanda, non possono aver dimenticato Aldo Marchiol, 65 anni, missionario saveriano, veterano del Continente nero, che ha amato fino all'estremo sacrificio della vita. Sabato notte, assieme a Ottorino Maule e la laica Catina Gubert è stato giustiziato dalla gente di questa terra selvaggia e affascinante, che voleva redimere.

Quando arrivavamo sperduti a Bujumbura, la capitale del Burundi, padre Aldo ci accoglieva nel quartier generale dei Saveriani con una smorfia dettata dal suo carattere burbero e scontroso. Tutta apparenza: le semplici stanze che ci avrebbero ospitato avevano il letto pronto, il bagno pulito e per noi c'era già un posto a tavola, dove si mangiava in compagnia di missionari o suore di passaggio.

Padre Aldo ci guardava come se fossimo dei marziani venuti in cerca dei guai nell'inospitale pianeta africano, ma fin dai primi giorni di convivenza, pur con qualche grugnito di protesta, cominciava spontaneamente a ricoprire il ruolo di perfetto segretario di redazione.

Raccoglieva le telefonate per tutti i giornalisti, che erano in continuo aumento, ci faceva spedire gli articoli via fax a qualsiasi ora e si prodigava per trovarci la carta dove scrivere i pezzi, cambiarci i soldi a un prezzo di favore oltre a fornirci mappe, contatti e indicazioni di ogni genere sul suo piccolo mondo africano.

Come dimenticare questo anziano missionario, che brontolando ci cercava dappertutto con il telefono portatile in mano, perché dall'altro capo del filo c'era la redazione. Oppure, geloso del suo ufficio che chiudeva sempre a doppia mandata lo metteva a nostra completa disposizione guardando la scena con “orrore”. Padre Aldo, maniaco dell'ordine e della tranquillità, sembrava essere stato travolto dall'ondata di giornalisti, ma quando mandavamo i servizi in Italia, lanciava una sbirciatina e in fondo era compiaciuto che qualcuno denunciasse gioie e miserie della sua terra d'Africa. Non pretendeva nulla in cambio e ci intimava di non fare il suo nome, perché aveva già abbastanza guai.

Da friulano tutto d'un pezzo era introverso e riservato, ma con il passare dei giorni si capiva che questi giornalisti, intrusi e sempre fra i piedi, cominciavano a diventargli simpatici. Mise addirittura a nostra disposizione una efficiente jeep giapponese, abbandonata da alcune suore in fuga di fronte ai massacri tribali in Ruanda.

Da buon missionario viveva con i ritmi dell'Africa, svegliandosi all'alba e coricandosi presto, ma sopportava senza fiatare i nostri rientri a tarda notte, dopo l'ultimo drink nell'unico hotel decente della città. Al mattino, invece, quando dovevamo partire per qualche lungo e pericoloso reportage ci faceva trovare sempre il caffè caldo e la colazione pronta. In questi viaggi ci accompagnava con le sue preghiere e vedendoci tornare incolumi gli “scappava” all'angolo della bocca un abbozzo di sorriso, subito represso per non dare a vedere che era contento di rivederci. Talvolta gli altri ospiti della missione si lamentavano sentendosi un po' abbandonati e lui pronto replicava. “C'è la stampa, devo occuparmi di loro prima”. Padre Aldo non sarà più ad attenderci, ma il suo ricordo resterà indelebile. Sotto il sole cocente con la schiena curva su un fisico smilzo e gli occhiali dalla montatura troppo pesante che nascondevano uno sguardo vispo e intenso nonostante il peso degli anni. E soprattutto non possiamo dimenticare quel suo affettuoso brontolare nei nostri confronti, che si concludeva così: “Ah, questi diavoli di giornalisti”.

Fausto Biloslavo e Gian Micalessin
Da "Il Giornale", 3 ottobre 1995

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30 Septiembre 2015
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