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Comunità e amicizie

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Riflessioni e considerazioni di un’esperienza prossima ai quarant’anni

Autopresentazione e prospettiva

Sono nato a Brescia, nord Italia, nel 1970. Nel settembre 1982 entro in seconda media nella comunità saveriana di Brescia. In sei ci uniamo al gruppo di ventiquattro studenti entrati in prima media. Dopo i cinque anni di superiori a Cremona (settembre 1984 – giugno 1989), segue l’anno di noviziato ad Ancona (settembre 1989 – agosto 1990), il biennio filosofico a Parma (settembre 1990 – giugno 1992), gli studi di teologia a Chicago (settembre 1992 – giugno 1997). Sono ordinato e inviato in Giappone nello stesso anno. Attualmente sono al ventiquattresimo anno di ordinazione e di missione.

Dei trenta compagni ai tempi delle medie, siamo arrivati in due all’ordinazione sacerdotale. Ancora oggi manteniamo un forte e profondo legame di amicizia coltivata e condivisa tanto in presenza quanto a distanza: per dieci anni nel cammino di vocazione e formazione vivendo nella stessa comunità durante le medie, le superiori, il noviziato e il biennio filosofico; per diciassette anni, invece, lontani, in due continenti diversi, ciascuno impegnato nel lavoro missionario, incontrandoci solo una volta durante le vacanze.

In questo scritto non è mia intenzione mettere in discussione il valore della comunità, che è parte fondante della nostra identità e carisma. Piuttosto, la mia prospettiva si limita alle mie riflessioni e considerazioni sulla concretizzazione dei valori di “comunità” e di “amicizia” che ho vissuto, sperimentato e gustato in quasi quarant’anni attraverso l’incontro con saveriani e con altre persone.

Comunità: parola dalle molteplici interpretazioni ed esperienze

Negli oltre vent’anni di missione in Giappone, mi sono convinto sempre più che quando usiamo la parola “comunità” ci illudiamo pensando che tanto chi parla quanto chi ascolta si riferisca alla stessa idea o esperienza. Infatti, la realtà vissuta mi dice che non è affatto così, perché ognuno ha una sua esperienza di comunità che spesso gli altri non conoscono. Ad esempio, a motivo delle turbolente vicende accadute durante gli anni Settanta nella regione del Giappone, la parola “comunità”, e tutto l’universo di valori che evoca, è stata segnata e ha segnato non pochi saveriani, creando anche divisioni e timori. Infatti, in quel periodo, quasi una decina di membri hanno lasciato la missione o la congregazione, mentre la stessa direzione generale negli anni successivi non ha inviato missionari in Giappone. Questo è un dato storico, non un giudizio a posteriori.

Inviato in Giappone, mi sono ritrovato nella situazione in cui, da una parte, saveriani di quel periodo e di quello successivo hanno vissuto esperienze di scontri e divisioni le cui ferite sono rimaste per decenni, lasciando non pochi traumi “comunitari”. Un paio di questi sono: il rifiuto sistematico di condivisione del proprio lavoro per non esporsi al giudizio, non chiedere né interessarsi delle attività dell’altro per non correre il rischio di essere accusato di controllarlo e così via. Dall’altra parte, dopo alcuni anni dalla ripresa degli invii, i nuovi missionari, con un bagaglio di esperienze comunitarie positive e costruttive, hanno portato e realizzato la pratica e l’invito alla condivisione. Tuttavia, pur non essendoci stati scontri o divisioni, si è fatta molta fatica a preparare un terreno accogliente e rilassato, spesso ci si è trovati davanti al muro del sospetto, del disinteresse o del distacco, con qualche strascico ancora nel presente.

Comunità: ombre della sua realizzazione

Mi rifaccio alla mia esperienza “comunitaria” di relazioni con i saveriani in Giappone. Ogni mese ci si incontra, si celebra la messa, si condividono i pasti, ma non per questo possiamo dire di conoscerci. Infatti, non siamo andati in profondità nel nostro rapporto riguardo, ad esempio, alla conoscenza della storia vocazionale di ciascuno o delle rispettive famiglie di provenienza. Spesso l’unico criterio di valutazione dell’impegno comunitario di un saveriano è “quanto si vede”, ovvero la sua presenza o meno, come a scuola. Ma ciò che è più importante, la motivazione, non si vede. Per esempio, la partecipazione all’incontro saveriano è libera? O “forzata” per via della presenza del regionale? La partecipazione non è solo questione di presenza. Ad esempio, ai tempi della scuola, quante volte pur essendo presente alle lezioni, quando mi sentivo annoiato o disinteressato, facevo “le mie cose” leggendo altro o pensando a cosa fare nel pomeriggio! La struttura e l’orario comunitario non assicurano necessariamente, e neppure favoriscono necessariamente la pratica della condivisione, l’aprirsi senza timore o il mostrare le proprie fragilità senza sentirsi a rischio.

Condizione indispensabile per un’autentica vita comunitaria è che ciascuno dei suoi membri voglia dare spontaneamente il proprio contributo per la costruzione di un clima e di un ambiente di fiducia e di accoglienza. Non ci può essere vera vita comunitaria che non sia sostenuta dalla volontà di collaborazione attiva dei singoli per il bene di tutti. Parafrasando la celebre frase di John Kennedy, primo presidente cattolico americano, il giorno del suo insediamento alla Casa Bianca, potremmo affermare: «Non chiederti cosa può fare la comunità per te, chiediti cosa puoi fare tu per la tua comunità». Penso che sia un eccellente stimolo per la riflessione da porre a ogni programmazione o inizio di anno comunitario.

Purtroppo, non è raro incontrare comunità in cui vige un buon clima apparente tra i membri, i quali in realtà sono piuttosto superficiali e disinteressati gli uni verso gli altri. La comunità può anche rischiare di diventare il luogo in cui far sentire e far valere solo i propri diritti, naturalmente in nome della missione. Tentazione sempre forte e costante, con belle e buone motivazioni, come fece il serpente con il frutto “buono, bello e desiderabile” (Genesi 3,6). Altra tentazione molto comune è quella di diventare esperti parassiti della comunità in varie modalità ma con un unico principio ispiratore, ovvero quello “dell’uso e consumo della comunità a proprio piacere o tornaconto”. Una volta ho sentito un’espressione molto eloquente riguardo alla parrocchia, che penso si adatti bene pure alla comunità: «È come una mucca che tutti mungono a piacere, ma nessuno si sogna mai di nutrire».

Lettura dell’amicizia secondo il vangelo

Il vangelo ci presenta il gruppo dei dodici, all’interno del quale c’è quello più ristretto dei tre discepoli, ovvero Pietro, Giacomo e Giovanni, che Gesù vuole con sé per fare delle esperienze speciali come la trasfigurazione, la rianimazione della figlia di Giairo, la preghiera nel Getsemani. Dentro questo ristretto gruppo di tre abbiamo poi il discepolo amato, Giovanni. Ancora, il vangelo ci presenta la folla, spesso anonima e lunatica, che segue Gesù per i più svariati motivi. Per contrasto, non possiamo non ricordare la famiglia dei tre amici, Marta, Maria e Lazzaro, con cui Gesù aveva un rapporto speciale. Egli stesso di frequente si recava da loro a Betania, nome che significa “casa dell’amicizia”.

Durante l’ultima cena, Gesù usa la parola “amici” per esprimere la sua relazione con i discepoli come parte del suo testamento (Giovanni 15). Interessante pure notare come, presentando l’amore più grande, prenda l’esempio dell’amico che offre la propria vita. Infine, usa la parola “amici” parlando di invio, perché portino frutto e un frutto duraturo. Andare e portare frutto: un ammonimento affinché la comunità non diventi un rifugio autoreferenziale, o peggio, esclusivista. Potremmo parlare di chiamata a diventare sempre più comunità generativa e in uscita.

Amicizie speciali

Agli inizi del primo anno delle superiori, nel 1984, il formatore mi disse che gli altri padri non vedevano di buon occhio che io e un altro compagno stessimo ogni giorno allo stesso tavolo durante i pasti. Mi disse questa frase: «le amicizie particolari non sono belle». Non diedi peso alla frase perché la nostra amicizia non era tanto “particolare” quanto “speciale”. Infatti, da allora questa amicizia è sempre più cresciuta e si è rafforzata, è divenuta per me un sostegno e un confronto vitale nella mia vita saveriana. Questo nostro rapporto, sanissimo, non si è mai chiuso né nascosto, ma, al contrario, ha coinvolto le nostre famiglie tanto da dar vita anche tra loro a un legame sempre più consolidato fino a diventare più forte e sincero di un legame di parentela.

Ancora a proposito di amicizie speciali, durante il noviziato conobbi un novizio di origini vietnamite con passaporto americano. I nostri orari di lavoro nell’orto coincidevano, così ci trovavamo a lavorare insieme e potevamo parlare di tante cose. Grazie a questo tempo e rapporto ho conosciuto la realtà saveriana degli USA. Mi invitò lui stesso a continuare là gli studi di teologia, proposta che accettai. Dopo il biennio filosofico a Parma, ci ritrovammo insieme nella comunità di Chicago per completare la formazione.

Mi sembra di poter dire che in passato non si è data sufficiente importanza alla validità e necessità delle sane amicizie durante la formazione di base, anzi, si era legati a pregiudizi del tipo “amicizie particolari”. Tuttavia, già durante la formazione di base e ancor più frequentemente dopo, nella mia vita di religioso e missionario, ho sperimentato ripetutamente il valore inestimabile dell’amicizia, concreta e incarnata con un volto e un nome. Per esempio, con un paio di saveriani con cui avevo fatto vita comunitaria circa trent’anni fa, ho una relazione epistolare di due, tre lettere all’anno, con incontri in presenza solo ogni dieci anni circa. Eppure, ci siamo aperti a vicenda senza timore di essere fraintesi o ridicolizzati. Questi due saveriani hanno venticinque e trent’anni più di me. Nel caso della comunità, che richiede e vive della modalità “in presenza”, quando i suoi membri si lasciano, spesso si terminano i legami. Nelle amicizie speciali, invece, i legami si fortificano e si approfondiscono proprio nell’assenza.

Inoltre, non posso non menzionare anche altre amicizie speciali con un paio di sacerdoti, uno diocesano e l’altro religioso, insieme a un laico sposato, con i quali ci si incontra solo ogni tre anni in occasione delle mie vacanze, ma la reciproca profonda amicizia si rinvigorisce di anno in anno grazie anche ai social media di cui ci avvaliamo per condividere il vissuto, con le sue gioie e sofferenze.

Le amicizie durante la vita

Una volta ordinato presbitero, puntualmente e a più riprese, il Signore ha messo sul mio cammino confratelli e persone che mi hanno aiutato nelle situazioni difficili che stavo vivendo e che hanno condiviso con me un tratto della mia vita. Non solo hanno accolto la mia richiesta di aiuto o mi hanno dato la loro attenzione, ma hanno accolto me stesso con i miei limiti. Mi hanno donato il loro tempo, mi hanno donato se stessi ascoltandomi, consigliandomi, consolandomi, e allo stesso tempo, anche smontandomi e ridimensionandomi nelle fissazioni e visioni parziali della realtà comunitaria.

L’amicizia è come una palestra in cui gli amici sono dei preparatori atletici, ciascuno con una propria specializzazione. Ogni volta che ci si allena nell’amicizia, un aspetto di chi si lascia accompagnare può essere migliorato, riorientato, scoperto o dissotterrato. Inoltre, pur rivelando la propria debolezza e vulnerabilità, non ci si sente mai a rischio di essere feriti perché ci si fida e ci si affida all’amico.

Il legame di amicizia con il mio attuale allenatore è iniziato oltre cinque anni fa. Prima con alcuni incontri annuali in presenza per due anni, successivamente, essendo in due continenti lontani, attraverso il vecchio stile della lettera, ogni due mesi circa, inviata tramite Whatsapp, che ne assicura la recezione diretta in un attimo. Questa modalità mi dà occasione di rivedere cosa e come ho vissuto, e pensare a ciò che voglio condividere, ciò che mi sta a cuore. Le lettere scritte, poiché rimangono, sono occasione per vedere la crescita, il cambio avvenuto in un anno. Io mi sono aperto e lui ha accettato di camminare con me. Anche se in assenza, mi conosce e si interessa a me molto di più dei non pochi saveriani con cui mi incontro ogni mese in presenza.

Termino invitando ciascuno ad andare in profondità nelle proprie relazioni, a creare e mantenere amicizie speciali che sono possibili anche nell’assenza, anche a distanza, ma che influiscono sulla vita comunitaria e le danno maggiore autenticità e spessore. Diversamente si rimane solo compagni di classe, o della stessa nazionalità, o “compagni nella stessa missione”, espressione usata anche nell’esercito.

Lo scorso anno ho tagliato il traguardo del mezzo secolo di vita. Ho raggiunto questa tappa nel mio cammino grazie anche all’amicizia di saveriani e di altre persone, concretizzazione ed esperienza della provvidenza di Dio nella mia vita per la crescita e formazione come persona, come cristiano, come saveriano.

A ciascuno di loro va la mia gratitudine e riconoscenza speciale.

 

Renato Filippini –
Settembre 2021
Anno giubilare della professione perpetua
(Roma, san Paolo fuori le mura 1996)

Renato Filippini sx
20 Septiembre 2021
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