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La prima partenza

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La prima partenza

Avendo deciso di dare voce ad alcuni Saveriani nati nei primi due decenni del Novecento, ci troviamo di fronte a tanto materiale, che spesso appartiene ad un ambito che non è accademia, non è letteratura e non è teologia. È storia della missione, più precisamente storia delle missioni saveriane.
In questo caso il linguaggio è quello che poteva essere adoperato nell’Italia degli Anni Trenta, sotto il regime fascista, nell’ambito di una narrazione semplice, autobiografica, destinata ad essere compresa da ragazzi provenienti per lo più dalle campagne. Oggi, al “lettore” moderno, può suonare strano, antico o francamente antiquato.

Ciò non toglie all’”uomo” moderno, ai Saveriani in particolare, la possibilità di rileggere questi passi, immaginando il contesto, riconoscendo idee, sentimenti e motivazioni. Callisto Vittorino Vanzin, considerato da un punto di vista generazionale, potrebbe comodamente essere il “nonno” dei Saveriani che oggi hanno fra i 50 e i 60 anni di età. Per questo poi il resto della storia narrata nel libro Il Campo Lontano appare ancor oggi interessante. E forse merita di essere riletto. In fondo, se non si è scrittori, romanzieri o giornalisti per vocazione o professione, si scrive spesso per comprendere e cercare di dire qualcosa a qualcuno, per lasciare un segno anche piccolo, a testimonianza di una vita nella quale si è trovato un senso e non solo per se stessi.


VANZIN V.C., Il Campo Lontano, Parma, ISME, 1936 (pp. 17-23 - cap. II).

I punti erano due, molto semplici. Stabilito irrevocabilmente il traguardo bisognava raggiungerlo con ogni mezzo, senza tentennamenti, non ammettendo deviazioni. Ora i sentieri erano molti e la via maestra, asfaltata e chilometrata, una sola.
Ordini religiosi semi-missionari o quasi, congregazioni con finalità diverse, compresa l’apostolica, non ne mancavano, ma io volevo trovare una istituzione puramente, esclusivamente, fondamentalmente missionaria. Per cui entrati là dentro non si poteva sfociare che in un qualche isolotto selvaggio o in una banda inospitale.
I pochi religiosi che io l’ebbi l’ardire di affrontare decisamente, non mi soddisfecero, o meglio non capirono la mia intransigenza.
- Ma voialtri, andate tutti in Missione?
- Ecco; sì, cioè no, o meglio vanno quelli che chiedono e se i Superiori sono d’accordo.
- Ho capito!
E me ne andavo a cercare miglior fortuna.
Finalmente, per un caso che io non esito a chiamare miracoloso, mi trovai davanti alla porta che si apriva indubbiamente sul campo sognato e bramato.
Passiamo così al secondo punto. Quando, dopo alcuni anni, seppi i casi e le avventure di molti dei miei confratelli, mi meravigliai di me stesso.
Lotte epiche si erano svolte nelle famiglie dei miei compagni. I genitori di alcuni non avevano esitato ad adoperare mezzi estremi. I carabinieri erano stati messi in movimento e si erano presentati all’Istituto a reclamare imperiosamente i rampolli fuggiti.
Altri ragazzi, avevano posto in funzione le glandole lacrimogene inondando la casa dei loro piagnistei. . . fino a che i parenti, per non vederli liquefare o intisichire, si erano decisi a lasciarli partire.
Ricordo di uno che fece lo sciopero della fame. «Mamma, non ho fame» a mezzogiorno; «mamma, non ho fame» alla sera; «prendo solo caffè» al mattino. Un giorno, due, tre. E poi la mamma capisce, sgrida, grida, s’impressiona, cede. Il babbo tiene duro per qualche giorno; diventa buio, non parla e finalmente viene la frase sospirata : « vattene pure, ma ricordati!. .. ».
Per me le cose andarono assai più prosasticamente.
Eravamo in settembre, quando il pensiero della scuola cominciava ad intorbidire le gioie delle vacanze, quando i libri ricevono, ad intermittenza, occhiate severe e melanconiche. In famiglia si rivedeva il corredo, si iniziava la serie delle raccomandazioni.
Troncai netto:
- In collegio non ci vado più!
La mamma è abituata a simili uscite e non risponde neppure.
- Non ci vado più, hai capito? Non ci vado.
Mamma mi guarda negli occhi e rimane quasi spaventata. Comprende che dico davvero.
- Ma, cosa hai? Diventi pazzo? Dove vuoi andare?
- Vado via!
Mamma si avvicina, mi prende la testa arruffata, vuole fissarmi in viso. Io resisto, mi volto da un lato perchè voglio conservare il sangue freddo.
- Dove vuoi andare, cosa pensi in questa testa balzana?
Taccio: un nodo si è formato nella gola: cosa imprevista. E poi, improvvisamente un velario cade.
Non ci avevo mai pensato: cioè sì, ci avevo tanto pensato, più di quanto potevano farlo supporre i miei tredici anni.
Il  missionario deve abbandonare la patria, i parenti, la mamma! . . . anche la mamma! Nei miei sogni avevo già visto la scena d’addio, avevo già pianto alcune delle lacrime del gran giorno della partenza. Ma, come gli eroi della storia, mi ero sentito lusingato di poter compiere un sacrificio così straordinario. Le lacrime lasciavano vedere il sorriso del trionfatore, gli occhi piangenti avevano la fiamma che rischiara le grandi vittorie ... E poi nei momenti in cui il dolore umano sembrava soverchiare il mio ideale, avevo saputo trovare un rifugio, segreto e supremamente confortante.
Io non ero mai stato abbonato alle pile di acqua santa, non mi ero inebbriato solo d’effluvi d’incenso e particolarmente non mi ero mai sentito solleticato ad infilare diecine di rosari a tempo perso. Ci vuol altro!
Però i miei doveri di buon cristiano e qualche cosa di più, sì. Di più io me la intendevo, per così dire, con nostro Signore. Tutti i miei progetti li avevo discussi con Lui e quando le cose andavano male sapevo dove andare. Era il mio segreto.
Naturalmente la questione della mia vocazione missionaria era un argomento che tornava spesso nelle nostre conversazioni (parlavo solo io, è vero, ma capivo o almeno mi pareva di capire le Sue risposte).

- Ecco, dicevo, io non so, ma non me la sento di vivere come tanti miei compagni che sognano solo campionati, promozioni, passeggiate e divertimenti. Anche a me piacciono le gite belle e lunghe ; anche io gusto due ore intense di cinema; anch’io sferro calci tremendi e filo in bicicletta a 30 all’ora, anch’io ... sì, ma sento che tutto ciò non mi sazia, non mi calma. Tutta così, la vita? Tutte lì, le soddisfazioni? — Ci sono gli studi. Posso diventare avvocato e calpestare tutti i fori, sfolgorando gli avversari, annichilendo i giudici; medico celeberrimo, chiamato in consulto agli antipodi, scopritore di germi, inventore di farmaci, di arti; ingegnere, geniale ed ingegnosissimo, capace di gettare i ponti più fantastici e slanciare nelle nubi i grattacieli più babelici, distruggere le distanze, stabilire un itinerario astrale per viaggi settimanali nella luna e simili generi. E poi? Forse io sono troppo esigente, troppo orgoglioso, non comprendo che l’esistenza dell’uomo sulla terra non è una « vita » ma una breve corsa verso di essa.

- Certo, mi rispondeva l’Interlocutore Divino, è un viaggio la vita degli uomini ; essi, però possono darle un senso ed un sapore tale da soddisfare le loro più alte e più intime aspirazioni. Ma bisogna sacrificare e sacrificarsi . . .

Ed io avevo trovato la via che avrebbe realizzato l’ideale sospirato ed avevo deciso di sacrificare tutto, anche la mamma.
Ora, però, solo ora cominciavo a comprendere il significato del mio passo.
Oh! non vacillavano i miei propositi, non si oscurava la mèta radiosa; ma le lacrime, frapponendosi, davano una sagoma diversa al miraggio lontano.
Insensibilmente piegai il capo sul seno materno, e sentii dei palpiti che si aggiungevano ai miei e volevano spezzarmi il cuore. Compresi che la mamma aveva, forse da lungo tempo, intravvisto nel mio spirito quel lavorio ch’io credevo conosciuto solo da Dio, ed aveva assistito, apparentemente disinteressandosi, alla formazione di quella cosa o fenomeno misterioso che viene chiamato « vocazione ». Attendeva il momento della rivelazione. Era giunto.
La sua bocca non pronunciò una parola; solo mi strinse fortemente nelle sue braccia, quasi per difendermi, per paura di perdermi. Senza dubbio una lotta titanica si svolse nel suo cuore: l’istinto materno si ribellava violentemente al comando imperioso ed offuscava, per brevi istanti, la luce della Fede.
Io partecipavo sensibilmente a quella battaglia muta e disperata e capivo il senso delle parole dell’Interlocutore Divino: non solo sacrificarsi, ma anche sacrificare.
È terribile ed umanamente inumano sacrificare la mamma, ma è quasi inconcepibile poter obbligare la madre a sacrificare il figlio. Altri lo sacrificheranno ed essa si lancerà come una iena per proteggerlo o si rassegnerà; ma non alzerà, la lama della immolazione.
Io invece chiedevo alla mamma di sacrificarmi come io credevo di averla sacrificata.
Ci separammo, quasi di colpo : essa ritornò alle sue occupazioni ed io mi immersi nella luce dei campi, nel profumo dei prati.
Non ci furono scene. Il mio genitore principale ci vide un capriccio un po’ straordinario; mi squadrò da capo a piedi per vedere se la statura era in proporzione della decisione che avevo preso, e rimise l’affare alla consorte, riservandosi di intervenire prima che le cose maturassero. Tanto, ce ne era del tempo!
Fu cosi che in una giornataccia d’ottobre io abbandonai la mia famiglia e la mia casa per sempre. Rividi ancora quegli esseri amati, quelle mura vetuste, quei luoghi cari.
Ma come era tutto lontano, tanto lontano da me! Ero diventato un ospite, gradito, graditissimo, ma un ospite. Quella notte segnò una screpolatura decisiva e profonda nella mia esistenza; la lama del sacrificio era passata per la prima volta.
Non piansi, non parlai. Avevo freddo e fretta. Guardavo la mamma affannata e piangente, i fratelli che mi fissavano quasi con ostilità, il babbo faceto ed ilare. Mi dimenticavo che il protagonista ero io: credevo d’essere al cinema.
Il fischio della locomotiva (allora fischiavano ancora le locomotive) mi scosse e mi fece male al cervello. Non lo dimenticherò più. Fu brutale e volgare.


The first departure 

There were two, very simple, points to be kept in mind. Once I had chosen my destination I was to pursue it at all costs, without any hesitation or detours. There were many possible routes, but only one was open to me.
Semi-missionary orders, congregations with different purposes, some of them apostolic: there was so much to choose from, but I wanted one that was exclusively missionary.
The answers given by the few religious I spoke to did not satisfy me; perhaps they never really understood my intransigence.
- Do you all go to the Missions?
- Yes, well no, I mean that those who ask can go to the Missions, provided the Superiors give their approval.
- I see!
And off I went in search of a better answer.
At last, by a stroke of luck that I consider to be miraculous, I found myself at a door that would lead me to where I wanted to go.
This brings me to the second point. A few years later, when I heard of the experiences of my confreres, I was rather surprised.
There had been epic struggles in some of their families. Some parents had taken extreme measures, sending the police to the Institute to bring their fugitive sons back home.
Other boys had burst into tears. . . forcing their families to relent and let them leave.
One boy even went on hunger strike, drinking just coffee in the morning and refusing to eat at mealtimes. After three days, his mother was ready to give in, but his father held out for a few more days before he relented and allowed his son to leave.
Things went more smoothly for me.
It was the month of September when the thought of school began to cast its shadow over the vacations. My family began to get things ready and offer the usual advice for going back to school, but I cut them off:
- I’m not going to school anymore!
My mother was used to these outbursts and said nothing.
- Did you hear me, I’m not going anymore.
My mother looked me in the eye and understood that I was serious.
- What’s wrong with you? Are you out of your mind? Where do you want to go?
- I’m going away!
- Where do you want to go, what’s going on inside your head?
I didn’t speak: I felt an unexpected knot in my throat, and then, suddenly, I began to understand.
Although it had crossed my mind more than once,  I had never really thought about it until now.
The missionary must leave his homeland, family and mother! In my dreams I had already played out the scene of a tearful farewell. Just like the heroes in historical tales, making such a great sacrifice had made me feel really good and, whenever the difficulties seemed to overwhelm the ideal, I had discovered a secret and very comforting refuge.
I was never one for holy water, incense or the rosary. I needed more!
Yet I had always carried out my duties as a good Christian. I had a good understanding with our Lord. I had discussed all my plans with him and when things went badly I knew I could go to Him. This was my secret.
Of course the question of my vocation was a topic that came up often in our conversations (I did all the talking, but I believed I understood his answers).
- I don’t really want to live like many of my peers, who are only interested in championships, promotions, strolling and entertainment. I too enjoy a good stroll, or a couple of hours at the cinema and I enjoy football and cycling ... but it is not enough. Is this all there is to life? Does it have nothing else to offer? — There is always study. I could become a successful lawyer, physician or engineer. And then? Perhaps I am too demanding, too proud, I don’t understand that human existence on earth is not a « life », but a short race towards it.
- Of course, my Divine Interlocutor replied, human life is a journey; however, people can give it a meaning and satisfy their most noble and intimate aspirations. But this requires sacrifice: the sacrifice of self and other things too. . .
I had discovered how I could fulfill my ideal, bit it meant I had to give up everything, even my mother.
Now, only now, was I beginning to understand the meaning of the step I was about to take.
Oh! My intentions never wavered and I still held my goal in my sights, but it was blurred by tears.
I realized that my mother had been aware of what was going on in my heart for some time, while I was convinced that only God knew about it; she had sensed the presence of the mysterious phenomenon we call « vocation » and was waiting for me to reveal it. The time had come for me to do so.
She spoke no words, but clasped me in her arms, almost as if to defend me or because she was afraid of losing me: her maternal instinct violently rebelled against my vocation and, for a few brief moments, blurred the vision of Faith.
I took part in the silent and desperate battle going on within her and I understood the meaning of the words spoken by my Divine Interlocutor: not only self-sacrifice, but the sacrifice of others too.
It is terrible and inhuman thing to sacrifice one’s mother, but it is almost inconceivable to oblige a mother to sacrifice her son. If others try to sacrifice him she will throw herself upon them like a hyena to protect him, or she may surrender, but she will never sacrifice her son.
I instead was asking my mother to sacrifice me just as I had sacrificed her.
We went our separate ways that day, each one to his/her occupations and interests. There were no scenes. My father looked upon it as just a whim and left everything in the hands of my mother, reserving the right to intervene if things went too far. There was plenty of time anyway!
On an October day I left my family and my home forever. I would see them again, those beloved people and places, the old walls of my home, yet they were so different and distant from me. I had become a welcome guest, but a guest nonetheless. That night marked the point of no return in my life. The sacrificial blade had caused its first wound.
I did not cry, nor did I speak. I was cold and in a hurry. I looked at my distressed and crying mother, my siblings looked at me almost with hostility, my father was witty and cheerful. I forgot that I was in the leading role: I thought I was at the cinema.
The whistle of the locomotive shook me to the core. I will never forget that brutal and vulgar noise.

A cura del CDSR
20 Luglio 2017
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