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La seconda partenza

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La seconda partenza

Proseguiamo a dare voce a P. Callisto Vittorino Vanzin sx  (1900 -1976), attraverso il racconto autobiografico contenuto nel  IV capitolo del  suo libro "Il Campo Lontano". 

C'è una seconda partenza nella vita di un missionario, dopo la prima dalla propria casa: quella che condurrà nella terra di missione.
Collocandola temporalmente nel tratto di cammino che unisce le due partenze, Vanzin narra l'esperienza di due ostacoli da superare: l'impatto emotivo del distacco dalla famiglia d'origine, centrato sulla figura della madre come legame primario, e l'impatto dell'esercizio appassionato della ragione durante gli studi umanistici e scientifici.

Questo tipo di esperienza, sembra volerci dire, non si può e non si deve evitare; va vissuta, affrontata e superata, intensificando la vita spirituale.
Il tono è quello di una schietta rivelazione di sé.
Abituati, come oggi siamo, ad un mito idealizzato di uomo forte, concreto, veloce, efficiente, liberato dalla costrizione delle emozioni, spesso svalutate e ridotte a sentimentalismi ottocenteschi, è utile armarsi di umanità e rispetto, per immedesimarsi nel discorso e afferrare la profondità della lotta combattuta, in ciò che viene detto.
Ci sembra che ne valga la pena.


VANZIN V.C., Il Campo Lontano, Parma, ISME, 1936 (pp. 31-34, cap. IV).

 

Avrei potuto terminare il capitolo precedente con le parole fatidiche: «… e finalmente spuntò il giorno della partenza e dall'alto della poppa io mandai un saluto commosso e definitivo al suolo natio; lentamente l'Europa scomparve dal mio sguardo soffuso di lacrime, per sempre».
Invece bisogna che racconti due o tre episodi, se si possono chiamare così, della mia adolescenza missionaria.

Era il primo inverno che passavo all'istituto: neve, pallate, febbre altissima. Quando, dopo due giorni di intorpidimento, mi vidi sul letto dell'infermeria, solo, debilitato, triste, un singhiozzo salì d'improvviso alla mia gola e parve strozzarmi. Piansi disperatamente.
Perché ero solo? No, i Superiori, i compagni mi erano tanto spesso vicino e mi curavano come un fratello e forse con più ansia ed amore. Perché ero ammalato? Neppure; la morte non mi impressionava perché non l'avevo mai vista in faccia e poi quando si è giovani si muore volentieri, anche per provare nuove emozioni.
Piangevo perché sul mio capezzale non era curvo il volto di mia madre. Soltanto.
È poco? Dopo diventa quasi indifferente, ma la prima volta è molto, è moltissimo, non ci si può consolare. Tutti ci passano, è vero, e nessuno lo dice: è troppo intimo, anzi incoerente con la vita d'ogni giorno; ma è terribile e talvolta fatale. Se la malattia si prolungasse, forse si farebbe l'abitudine, io non lo so. So, e non lo dimentico più, che quelle lacrime mi hanno bruciato le ciglia e mi sono scese non solo lungo le guance infiammate, ma anche, ricacciate in gola, sono cadute come gocce di piombo fuso, sul mio povero cuore.
Fu il primo tormento della mia carne straziata e dolorante, che mi fece comprendere ·di essere uomo anche con la vocazione· missionaria.

Questa prova era un preludio. Il dramma si svolse, poi, come in tutti i teatri umani: gli assalti si susseguono ininterrottamente, sotto le più svariate forme, con etichette diverse, metodi contraddittori; ma sotto, sempre una cosa sola: la carne e il sangue.

Ultimo anno di liceo. L'orizzonte si è schiuso improvvisamente su tutti i campi del sapere umano. Gli studi letterari hanno tracciato una linea senza fine davanti agli occhi stupefatti: è una via sulla quale si affollano i geni dell'antichità e delle età moderne con le loro opere immortali, che abbagliano, che ci accasciano nella nostra meschinità e ci avviliscono. Che cosa è la vita se non uno sforzo per avere un posto su quella strada che sembra personificare, sola, l'esistenza dell'uomo?
Poi le scienze spalancano le loro porte di bronzo dorato al di là delle quali c'è un lago immenso, profondo. Bisogna tuffarvisi, rimanerne quasi soffocati, certo inebriati e permeati.
Ecco la terribile ubriacatura dello studio. L'uomo si seppellisce vivo, perde il contatto con l'umanità e con la realtà. I suoi occhi vedono unica­mente ciò che studia.

Allora l'ideale splendente che mai un istante aveva cessato di brillare si appannò. E irruppero furibondi gli interrogativi che avevano avuto tante volte una risposta convincente e definitiva. Sembravano nuovi; avevano l'aria di essere affermazioni inoppugnabili, rafforzate dalla ragione e dalla scienza.  Le risposte d'un tempo non osavano nemmeno presentarsi davanti ad un apparato formidabile che l'umanità intera aveva fabbricato. Dinnanzi alla luce fredda del laboratorio scientifico gli entusiasmi giovanili si agghiacciavano, si sformavano, divenivano utopie irraggiungibili. Il calcolo esatto delle matematiche, il ragionamento inconfutabile della filosofia erano un bisturi spietato che sezionava, sfrondava, uccideva.
Era il momento in cui tanti giovani perdono la fede e tanti ideali tramontano per sempre lasciando un rimpianto infinito.

Non fu cosi per me. Compresi che la via del trionfo era una sola: aumentare la vita spirituale in proporzione della scienza che immagazzinavo. Sarebbe stata inevitabile una catastrofe, se mi fossi accontentato delle nozioni religiose apprese nell'infanzia e specialmente se non avessi dato alla mia vita cristiana e religiosa una consistenza ed un dinamismo sempre maggiore. Affaticarsi a rispondere a domande sempre rinascenti o, peggio, insultare e sottrarsi allo studio quasi fosse una tentazione, è inutile. Quando l'uomo ha sentito il desiderio prepotente di conoscere, di studiare, di interrogare, non può sottrarsi al suo pungolo incessante. Non· deve sottrarsi: l'indagine però deve essere completa ed equilibrata; allora gli ideali divini che nutre nel suo cuore non verranno offuscati o spenti, ma vivificati da tutto quanto Iddio ha creato unicamente per esso.

Molti piangono quando lasciano per sempre la famiglia: ed è naturale.
È il giorno, per i genitori, in cui assistono ai funerali di un figlio ed il loro pianto assai facilmente provoca una risposta uguale nel partente.
Io non piansi, perché non ne ho avuto il tempo.
Bisognava far presto, troncare quell'agonia che mi toglieva il respiro: partire. Partii, quindi, precipitosamente, abbracciando tutti con gli occhi chiusi, senza dire una parola.
Forse chi piange soffre meno.

A cura del CDSR
28 Luglio 2017
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