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Gaza e Amazzonia - lo stesso grido della terra, lo stesso grido dei poveri

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Quando parliamo di Gaza, non possiamo più limitarci a una tragedia umanitaria. Siamo di fronte anche a una ferita inferta alla casa comune: un disastro ecologico che molti chiamano ecocidio. In questi mesi, la guerra ha devastato ecosistemi, infrastrutture vitali e risorse naturali: si stimano oltre 31 milioni di tonnellate di CO₂ equivalente fra bombardamenti, mezzi militari e distruzione urbanapiù delle emissioni annue di oltre cento Paesi.

Ogni giorno il collasso dei depuratori scarica più di 130.000 m³ di acque reflue non trattate nel Mediterraneo; quasi metà delle terre agricole è stata resa inutilizzabile e l’80% della copertura arborea è scomparsa; macerie, plastiche e rifiuti sanitari si accumulano e spesso vengono bruciati a cielo aperto, con effetti tossici per l’aria e la salute. Questi dati raccontano un crollo sistemico, non “danni collaterali”.

Organizzazioni civili hanno usato il termine ecocidio per descrivere la distruzione deliberata o sconsiderata della biosfera di Gaza: habitat costieri degradati da sversamenti, corridoi ecologici spazzati via dai bulldozer, biodiversità minacciata nella sua stessa esistenza. È un crimine contro il creato che grida alla coscienza del mondo.

Da pastore in Amazzonia, riconosco in quel grido lo stesso suono che ascoltiamo ogni stagione di incendi, ogni fiume avvelenato dal mercurio dell’estrazione illegale, ogni foresta abbattuta per traffici che disprezzano popoli e futuro.

Gaza e Amazzonia sono lontane, ma sono unite dalla stessa dinamica: quando si calpestano i poveri, si calpesta la terra; quando si devasta la terra, si ferisce il povero. È la grammatica dell’ecologia integrale che papa Francesco ci consegna: il grido della terra e il grido dei poveri è uno solo.

Le domande che ci poniamo qui, in riva al Rio delle Amazzoni, sono le stesse che la Chiesa deve porsi guardando Gaza:

  • Come interpretare, alla luce del Vangelo, la parola “ecocidio” davanti a una devastazione ambientale provocata dal conflitto?
  • Quale responsabilità morale ha la Chiesa quando la distruzione della natura si intreccia con la negazione dei diritti umani?
  • In che modo l’ecologia integrale può guidare risposte che tengano insieme cura del creato, pace giusta e dignità dei popoli?

Da vescovo saveriano, vedo tre conversioni urgenti

1) Conversione dello sguardo. Non è possibile separare umanitario ed ecologico. A Gaza, la contaminazione dell’acqua e del suolo non finisce quando tacciono le armi: i metalli pesanti e i residui di esplosivi continueranno a minacciare salute, cibo, biodiversità per anni. Allo stesso modo, in Amazzonia la deforestazione non è un “tema verde”, ma un tema umano e spirituale: riguarda i popoli originari, la cultura, la pace sociale. L’ecologia integrale chiede di tenere tutto insieme: persone, territori, futuro.

2) Conversione delle prassi. Le comunità cristiane possono incarnare Laudato Si’ in gesti concreti: educazione ecologica, accompagnamento delle vittime, advocacy informata. Per Gaza, questo significa sostenere richieste precise: indagini ambientali indipendenti e accountability; ripristino ecologico con riforestazione, bonifiche e infrastrutture idriche sostenibili; sistemi di monitoraggio per inquinanti e perdita di biodiversità; sostegno alle ONG locali; inserire la giustizia ambientale nei futuri percorsi di pace e ricostruzione. Sono passi che parlano anche all’Amazzonia: ciò che chiediamo per Gaza è ciò che imploriamo per la foresta e i suoi popoli.

3) Conversione della voce. La Chiesa non può tacere. La nostra voce – insieme a quella di altre fedi – può tessere alleanze tra giustizia ecologica e diritti umani, contribuire a politiche pubbliche lungimiranti, difendere chi protegge la terra e paga spesso con la vita. Pastori e fedeli hanno il compito di formare coscienze, perché l’indifferenza non sia l’ultima parola.

Da Belém do Pará, dove il grande fiume incontra l’oceano, desidero unire le mani con chi oggi piange a Gaza e con chi lotta per l’Amazzonia. Chiedo alla comunità internazionale e ai responsabili politici di riconoscere l’ecocidio come crimine; di fermare la logica della distruzione; di finanziare la riparazione ambientale come parte essenziale di ogni processo di pace; di ascoltare la scienza e i popoli che abitano i territori. A tutti i credenti, chiedo di pregare e agire: la fede diventa credibile quando si china sulle ferite della terra e dei poveri.

Il Signore ci affidi la responsabilità di custodire la vita: che la nostra voce, umile e ferma, contribuisca a spegnere l’incendio dell’odio e ad accendere la luce della giustizia.

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+Paolo Andreolli, sx

Vescovo ausiliare di Belém (PA), Brasile

Gaza and the Amazon: the same cry of the earth, the same cry of the poor

When we speak about Gaza, we can no longer reduce it to a humanitarian tragedy. We are also facing a wound inflicted on our common home: an ecological disaster that many call ecocide. In recent months, the war has devastated ecosystems, vital infrastructure, and natural resources: an estimated more than 31 million tonnes of CO₂ equivalent from bombardments, military vehicles, and urban destructionmore than the annual emissions of over one hundred countries.

Every day, the collapse of wastewater treatment releases more than 130,000 m³ of untreated sewage into the Mediterranean; nearly half of the farmland has been rendered unusable and 80% of tree cover has disappeared; rubble, plastics, and medical waste pile up and are often burned in the open air, with toxic effects on air and health. These figures describe a systemic collapse, not “collateral damage”.

Civil society organizations have used the word ecocide to describe the deliberate or reckless destruction of Gaza’s biosphere: coastal habitats degraded by spills, ecological corridors bulldozed away, biodiversity threatened in its very existence. It is a crime against creation that cries out to the conscience of the world.

As a pastor in the Amazon, I recognize in that cry the same sound we hear every fire season, every river poisoned by mercury from illegal mining, every forest felled by trafficking that despises peoples and the future.

Gaza and the Amazon are far apart, yet they are united by the same dynamic: when the poor are trampled, the earth is trampled; when the earth is devastated, the poor are wounded. This is the grammar of integral ecology that Pope Francis entrusts to us: the cry of the earth and the cry of the poor is one.

The questions we ask ourselves here, on the banks of the Amazon River, are the same ones the Church must ask when looking at Gaza:

  • How do we interpret, in the light of the Gospel, the word “ecocide” in the face of environmental devastation caused by war?
  • What moral responsibility does the Church bear when the destruction of nature intertwines with the denial of human rights?
  • How can integral ecology guide responses that hold together care for creation, just peace, and the dignity of peoples?

As a Xaverian bishop, I see three urgent conversions

1) Conversion of vision. It is not possible to separate the humanitarian from the ecological. In Gaza, contamination of water and soil does not end when the guns fall silent: heavy metals and explosive residues will continue to threaten health, food, and biodiversity for years. Likewise, in the Amazon, deforestation is not a “green issue,” but a human and spiritual one: it concerns indigenous peoples, culture, and social peace. Integral ecology asks us to hold everything together: people, territories, future.

2) Conversion of practices. Christian communities can embody Laudato Si’ in concrete gestures: ecological education, accompaniment of victims, informed advocacy. For Gaza this means supporting specific demands: independent environmental investigations and accountability; ecological restoration with reforestation, remediation, and sustainable water infrastructure; monitoring systems for pollutants and biodiversity loss; support for local NGOs; and embedding environmental justice in future paths of peace and reconstruction. These are steps that also speak to the Amazon: what we ask for Gaza is what we implore for the forest and its peoples.

3) Conversion of voice. The Church cannot be silent. Our voice — together with that of other faiths — can weave alliances between ecological justice and human rights, contribute to far‑sighted public policies, and defend those who protect the land and often pay with their lives. Pastors and faithful are tasked with forming consciences, so that indifference will not have the last word.

From Belém do Pará, where the great river meets the ocean, I want to join hands with those who weep today in Gaza and with those who struggle for the Amazon. I ask the international community and political leaders to recognize ecocide as a crime; to stop the logic of destruction; to fund environmental repair as an essential part of any peace process; to listen to science and to the peoples who inhabit these lands. To all believers I ask for prayer and action: faith becomes credible when it bends over the wounds of the earth and of the poor.

May the Lord entrust us with the responsibility to guard life: may our voice, humble and steadfast, help extinguish the fire of hatred and light the lamp of justice.

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+Paolo Andreolli, sx

Auxiliary Bishop of Belém (PA), Brazil

Gaza e Amazônia: o mesmo clamor da terra, o mesmo clamor dos pobres

Quando falamos de Gaza, já não podemos reduzi‑la a uma tragédia humanitária. Enfrentamos também uma ferida infligida à casa comum: um desastre ecológico que muitos chamam de ecocídio. Nestes meses, a guerra devastou ecossistemas, infraestruturas vitais e recursos naturais: estimam‑se mais de 31 milhões de toneladas de CO₂ equivalente provenientes de bombardeios, veículos militares e destruição urbanamais do que as emissões anuais de mais de cem países.

Todos os dias, o colapso do tratamento de esgoto despeja mais de 130.000 m³ de águas residuais não tratadas no Mediterrâneo; quase metade das terras agrícolas foi tornada inutilizável e 80% da cobertura arbórea desapareceu; entulho, plásticos e resíduos médicos se acumulam e muitas vezes são queimados a céu aberto, com efeitos tóxicos para o ar e para a saúde. Esses números descrevem um colapso sistêmico, e não “danos colaterais”.

Organizações da sociedade civil utilizaram a palavra ecocídio para descrever a destruição deliberada ou temerária da biosfera de Gaza: habitats costeiros degradados por derramamentos, corredores ecológicos arrasados por tratores, biodiversidade ameaçada em sua própria existência. É um crime contra a criação que clama à consciência do mundo.

Como pastor na Amazônia, reconheço nesse clamor o mesmo som que ouvimos a cada temporada de incêndios, em cada rio envenenado pelo mercúrio do garimpo ilegal, em cada floresta derrubada por tráficos que desprezam os povos e o futuro.

Gaza e a Amazônia estão distantes, mas unidas pela mesma dinâmica: quando se pisa nos pobres, pisa‑se na terra; quando se devasta a terra, fere‑se o pobre. É a gramática da ecologia integral que o Papa Francisco nos confia: o clamor da terra e o clamor dos pobres é um só.

As perguntas que fazemos aqui, às margens do Rio Amazonas, são as mesmas que a Igreja deve se colocar ao olhar para Gaza:

  • Como interpretar, à luz do Evangelho, a palavra “ecocídio” diante de uma devastação ambiental provocada pela guerra?
  • Que responsabilidade moral tem a Igreja quando a destruição da natureza se entrelaça com a negação dos direitos humanos?
  • De que modo a ecologia integral pode orientar respostas que mantenham unidas o cuidado da criação, a paz justa e a dignidade dos povos?

Como bispo xaveriano, vejo três conversões urgentes

1) Conversão do olhar. Não é possível separar o humanitário do ecológico. Em Gaza, a contaminação da água e do solo não termina quando as armas se calam: metais pesados e resíduos explosivos continuarão ameaçando a saúde, o alimento e a biodiversidade por anos. Do mesmo modo, na Amazônia, o desmatamento não é um “tema verde”, mas humano e espiritual: diz respeito aos povos originários, à cultura e à paz social. A ecologia integral pede que mantenhamos tudo unido: pessoas, territórios e futuro.

2) Conversão das práticas. As comunidades cristãs podem encarnar Laudato Si’ em gestos concretos: educação ecológica, acompanhamento das vítimas e advocacy informada. Para Gaza, isso significa apoiar pedidos específicos: investigações ambientais independentes e responsabilização; restauração ecológica com reflorestamento, remediação e infraestrutura hídrica sustentável; sistemas de monitoramento de poluentes e perda de biodiversidade; apoio às ONGs locais; e inserir a justiça ambiental nos futuros caminhos de paz e reconstrução. São passos que também falam à Amazônia: o que pedimos para Gaza é o que imploramos para a floresta e seus povos.

3) Conversão da voz. A Igreja não pode calar. Nossa voz — junto com a de outras fés — pode tecer alianças entre justiça ecológica e direitos humanos, contribuir para políticas públicas de longo alcance e defender quem protege a terra e muitas vezes paga com a vida. Pastores e fiéis são chamados a formar consciências, para que a indiferença não tenha a última palavra.

De Belém do Pará, onde o grande rio encontra o oceano, desejo dar as mãos a quem hoje chora em Gaza e a quem luta pela Amazônia. Peço à comunidade internacional e aos responsáveis políticos que reconheçam o ecocídio como crime; que detenham a lógica da destruição; que financiem a reparação ambiental como parte essencial de qualquer processo de paz; que ouçam a ciência e os povos que habitam os territórios. A todos os crentes, peço oração e ação: a fé torna‑se credível quando se inclina sobre as feridas da terra e dos pobres.

Que o Senhor nos confie a responsabilidade de guardar a vida: que a nossa voz, humilde e firme, ajude a apagar o fogo do ódio e a acender a luz da justiça.

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+Paolo Andreolli, sx

Bispo auxiliar de Belém (PA), Brasil

Gaza et l’Amazonie : le même cri de la terre, le même cri des pauvres

Quand nous parlons de Gaza, nous ne pouvons plus la réduire à une tragédie humanitaire. Nous sommes aussi face à une blessure infligée à la maison commune : une catastrophe écologique que beaucoup appellent écocide. Ces derniers mois, la guerre a dévasté des écosystèmes, des infrastructures vitales et des ressources naturelles : on estime à plus de 31 millions de tonnes de CO₂ équivalent les émissions dues aux bombardements, aux véhicules militaires et à la destruction urbaineplus que les émissions annuelles de plus d’une centaine de pays.

Chaque jour, l’effondrement de l’assainissement rejette plus de 130 000 m³ d’eaux usées non traitées en Méditerranée ; près de la moitié des terres agricoles a été rendue inutilisable et 80 % du couvert arboré a disparu ; gravats, plastiques et déchets médicaux s’accumulent et sont souvent brûlés à l’air libre, avec des effets toxiques sur l’air et sur la santé. Ces chiffres décrivent un effondrement systémique, et non des « dommages collatéraux ».

Des organisations de la société civile ont employé le mot écocide pour décrire la destruction délibérée ou inconsidérée de la biosphère de Gaza : habitats côtiers dégradés par des déversements, corridors écologiques rasés par les bulldozers, biodiversité menacée dans son existence même. C’est un crime contre la création qui interpelle la conscience du monde.

Comme pasteur en Amazonie, je reconnais dans ce cri le même que nous entendons à chaque saison des incendies, à chaque fleuve empoisonné par le mercure de l’extraction illégale, à chaque forêt abattue par des trafics qui méprisent les peuples et l’avenir.

Gaza et l’Amazonie sont éloignées, mais unies par la même dynamique : lorsque l’on piétine les pauvres, on piétine la terre ; lorsque la terre est dévastée, le pauvre est blessé. C’est la grammaire de l’écologie intégrale que le pape François nous confie : le cri de la terre et le cri des pauvres ne font qu’un.

Les questions que nous nous posons ici, sur les rives de l’Amazone, sont les mêmes que l’Église doit se poser en regardant Gaza :

  • Comment interpréter, à la lumière de l’Évangile, le mot « écocide » face à une dévastation environnementale provoquée par la guerre ?
  • Quelle responsabilité morale l’Église assume‑t‑elle lorsque la destruction de la nature s’entrelace avec la négation des droits humains ?
  • De quelle manière l’écologie intégrale peut‑elle orienter des réponses qui tiennent ensemble le soin de la création, une paix juste et la dignité des peuples ?

Comme évêque xavérien, je vois trois conversions urgentes

1) Conversion du regard. Il n’est pas possible de séparer l’humanitaire de l’écologique. À Gaza, la contamination de l’eau et des sols ne s’arrête pas quand les armes se taisent : les métaux lourds et les résidus d’explosifs continueront de menacer la santé, l’alimentation et la biodiversité pendant des années. De même, en Amazonie, la déforestation n’est pas un « sujet vert », mais humain et spirituel : elle concerne les peuples autochtones, la culture et la paix sociale. L’écologie intégrale nous invite à tenir ensemble personnes, territoires et avenir.

2) Conversion des pratiques. Les communautés chrétiennes peuvent incarner Laudato Si’ par des gestes concrets : éducation écologique, accompagnement des victimes, plaidoyer éclairé. Pour Gaza, cela signifie soutenir des demandes précises : enquêtes environnementales indépendantes et redevabilité ; restauration écologique avec reboisement, dépollution et infrastructures hydriques durables ; systèmes de suivi des polluants et de la perte de biodiversité ; soutien aux ONG locales ; et inscription de la justice environnementale dans les futurs chemins de paix et de reconstruction. Ce sont des pas qui valent aussi pour l’Amazonie : ce que nous demandons pour Gaza est ce que nous implorons pour la forêt et ses peuples.

3) Conversion de la voix. L’Église ne peut pas se taire. Notre voix — avec celle d’autres traditions religieuses — peut tisser des alliances entre justice écologique et droits humains, contribuer à des politiques publiques clairvoyantes et défendre celles et ceux qui protègent la terre et paient souvent de leur vie. Pasteurs et fidèles sont appelés à former les consciences, afin que l’indifférence n’ait pas le dernier mot.

Depuis Belém do Pará, où le grand fleuve rejoint l’océan, je veux joindre mes mains à celles de ceux qui pleurent aujourd’hui à Gaza et de ceux qui luttent pour l’Amazonie. Je demande à la communauté internationale et aux responsables politiques de reconnaître l’écocide comme crime ; d’interrompre la logique de destruction ; de financer la réparation environnementale comme partie essentielle de tout processus de paix ; d’écouter la science et les peuples qui habitent les territoires. À tous les croyants, je demande prière et action : la foi devient crédible lorsqu’elle se penche sur les blessures de la terre et des pauvres.

Que le Seigneur nous confie la responsabilité de garder la vie : que notre voix, humble et ferme, contribue à éteindre l’incendie de la haine et à allumer la lumière de la justice.

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+Paolo Andreolli, sx

Évêque auxiliaire de Belém (PA), Brésil

Gaza y la Amazonia: el mismo clamor de la tierra, el mismo clamor de los pobres

Cuando hablamos de Gaza, ya no podemos reducirla a una tragedia humanitaria. También estamos ante una herida infligida a la casa común: un desastre ecológico que muchos llaman ecocidio. En estos meses, la guerra ha devastado ecosistemas, infraestructuras vitales y recursos naturales: se estiman más de 31 millones de toneladas de CO₂ equivalente por los bombardeos, los vehículos militares y la destrucción urbanamás que las emisiones anuales de más de cien países.

Cada día, el colapso del saneamiento vierte más de 130.000 m³ de aguas residuales sin tratar en el Mediterráneo; casi la mitad de las tierras agrícolas ha quedado inutilizable y el 80% de la cobertura arbórea ha desaparecido; los escombros, los plásticos y los residuos médicos se acumulan y a menudo se queman al aire libre, con efectos tóxicos para el aire y la salud. Estas cifras describen un colapso sistémico, no “daños colaterales”.

Organizaciones de la sociedad civil han usado la palabra ecocidio para describir la destrucción deliberada o temeraria de la biosfera de Gaza: hábitats costeros degradados por vertidos, corredores ecológicos arrasados por excavadoras y una biodiversidad amenazada en su misma existencia. Es un crimen contra la creación que clama a la conciencia del mundo.

Como pastor en la Amazonia, reconozco en ese clamor el mismo sonido que escuchamos en cada temporada de incendios, en cada río envenenado por el mercurio de la minería ilegal, en cada bosque talado por tráficos que desprecian a los pueblos y al futuro. Gaza y la Amazonia están lejos, pero unidas por la misma dinámica: cuando se pisotea a los pobres, se pisotea la tierra; cuando se devasta la tierra, se hiere al pobre. Esta es la gramática de la ecología integral que el papa Francisco nos confía: el clamor de la tierra y el clamor de los pobres es uno solo.

Las preguntas que nos hacemos aquí, a orillas del río Amazonas, son las mismas que la Iglesia debe plantearse al mirar a Gaza:

  • ¿Cómo interpretar, a la luz del Evangelio, la palabra “ecocidio” ante una devastación ambiental provocada por la guerra?
  • ¿Qué responsabilidad moral tiene la Iglesia cuando la destrucción de la naturaleza se entrelaza con la negación de los derechos humanos?
  • ¿De qué modo la ecología integral puede orientar respuestas que mantengan unidas el cuidado de la creación, la paz justa y la dignidad de los pueblos?

Como obispo xaveriano, veo tres conversiones urgentes

1) Conversión de la mirada. No es posible separar lo humanitario de lo ecológico. En Gaza, la contaminación del agua y del suelo no termina cuando callan las armas: los metales pesados y los residuos explosivos seguirán amenazando la salud, el alimento y la biodiversidad durante años. Del mismo modo, en la Amazonia la deforestación no es un “tema verde”, sino humano y espiritual: concierne a los pueblos originarios, a la cultura y a la paz social. La ecología integral pide mantener todo unido: personas, territorios y futuro.

2) Conversión de las prácticas. Las comunidades cristianas pueden encarnar Laudato Si’ en gestos concretos: educación ecológica, acompañamiento de las víctimas y un “advocacy” informado. Para Gaza, esto significa apoyar demandas concretas: investigaciones ambientales independientes y rendición de cuentas; restauración ecológica con reforestación, remediación e infraestructuras hídricas sostenibles; sistemas de monitoreo de contaminantes y pérdida de biodiversidad; apoyo a las ONG locales; e integrar la justicia ambiental en los futuros caminos de paz y reconstrucción. Son pasos que también valen para la Amazonia: lo que pedimos para Gaza es lo que imploramos para la selva y sus pueblos.

3) Conversión de la voz. La Iglesia no puede callar. Nuestra voz —junto con la de otras confesiones— puede tejer alianzas entre justicia ecológica y derechos humanos, contribuir a políticas públicas de largo alcance y defender a quienes protegen la tierra y muchas veces pagan con la vida. Pastores y fieles están llamados a formar conciencias, para que la indiferencia no tenga la última palabra.

Desde Belém do Pará, donde el gran río se encuentra con el océano, deseo estrechar las manos de quienes hoy lloran en Gaza y de quienes luchan por la Amazonia. Pido a la comunidad internacional y a los responsables políticos que reconozcan el ecocidio como delito; que detengan la lógica de la destrucción; que financien la reparación ambiental como parte esencial de cualquier proceso de paz; que escuchen a la ciencia y a los pueblos que habitan los territorios. A todos los creyentes les pido oración y acción: la fe se vuelve creíble cuando se inclina sobre las heridas de la tierra y de los pobres.

Que el Señor nos confíe la responsabilidad de custodiar la vida: que nuestra voz, humilde y firme, contribuya a apagar el fuego del odio y a encender la luz de la justicia.

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+Paolo Andreolli, sx

Obispo auxiliar de Belém (PA), Brasil

Dom Paolo Andreoli, Saveriano e Vescovo Ausiliare di Belém do Pará (Brasile)
04 Novembre 2025
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