La speranza declinata nelle lingue della missione nella diocesi di Mymensingh, dove vivono diversi gruppi etnici e i cristiani rappresentano l'uno per cento della popolazione. “Asha”, ripete padre Giovanni Gargano, saveriano nel Paese asiatico da oltre 18 anni, alla gente tra cui semina parole e gesti di Vangelo.
“Asha” nella lingua bengalese significa “speranza”. Ma la traduzione più vicina alla realtà è quella che si cala nella vita delle persone. È l’impegno costante di padre Giovanni Gargano, missionario saveriano in Bangladesh da 18 anni: “Essere non solo pellegrini di speranza, ma soprattutto testimoni. È la grande sfida che in questo Paese facciamo nostra, giorno dopo giorno”.
In cammino con il Signore
Padre Giuà, come lo chiamano tutti da quando nel 1988 è entrato nella comunità saveriana di Desio (“eravamo in due con lo stesso nome”), è originario di Salerno, dove ha maturato la scelta di farsi missionario “frequentando il gruppo giovanile, i campi di lavoro, le scuole di preghiera e il territorio”. A 30 anni, nel 1998, l’ordinazione sacerdotale, poi il servizio come animatore missionario e vocazionale a Desio e a Salerno e, nel 2007, la partenza per “un cammino in cui il Signore mi ha sempre accompagnato, fin da quando ho sentito il desiderio di essere dono per gli altri”.
Una comunità mista
Il Bangladesh è diventato la sua seconda casa: il luogo in cui “si sta creando un’unica famiglia e tutti possono sentirsi accolti”. Si riferisce alla varietà di culture presenti nella diocesi di Mymensingh, dove – oltre al gruppo tribale dei “Mandi” che rappresenta la maggioranza – vivono “Santal”, “Urai”, “Pahari”, “Chakma” e “Tripura”. “Stiamo diventando una comunità mista: questa è una ricchezza che favorisce la conoscenza reciproca”. In quella zona, a 70 chilometri dalla capitale, vivono soprattutto gli operai del settore tessile e della ceramica. Molto forte anche il campo delle costruzioni. Infine, a Dhaka, abitata da più di 20 milioni di abitanti, le donne lavorano nei “beauty parlour” (centri estetici) o come infermiere.
Industrie, lavoro e… inquinamento
“Di fatto, nella nostra missione di Noluakuri, molti vengono a lavorare nelle fabbriche”, dice il missionario, spiegando che lo sviluppo industriale e in particolare la lavorazione della pelle, oltre ad aver soppiantato quasi del tutto l’attività agricola ancora praticata nei villaggi, è causa di due gravi problemi: l’inquinamento dei fiumi e lo smaltimento dei rifiuti. A ciò si aggiunge una forte corruzione. In attesa delle prossime elezioni politiche, attraverso le quali “la gente spera in un governo che si impegni a far crescere il Paese”, la Chiesa del Bangladesh fa la sua parte e si fa prossimo.
L’annuncio del Vangelo
“Ci sono diversi progetti educativi, di sanità, agricoltura in collaborazione con la Caritas e altre istituzioni cattoliche. Anche l’Opera di San Vincenzo è molto attiva e le suore di Madre Teresa svolgono un ruolo importante tra i poveri. Poi, ogni congregazione religiosa mette in atto iniziative per sostenere le situazioni locali”. Padre Giuà racconta di essersi inserito bene e di vivere in comunione con il clero locale, che è molto giovane. Le sue giornate da parroco, nei tre villaggi della missione, trascorrono “tra visite ad ammalati, scuola, corso tecnico della Caritas e gruppi di catechesi, in una diocesi in cui il Vangelo è stato annunciato ma va sempre rinnovato”. Soprattutto, si mette in ascolto. “Essere pellegrini di speranza in Bangladesh si concretizza nell’essere vicini alla gente, in un atteggiamento di dialogo e accoglienza. Significa entrare nelle case per pregare, per offrire l’occasione di un incontro in cui poter condividere le gioie e le tristezze della propria vita”.
Germogli di speranza
Anche la strada o una sala da the diventano luoghi “per essere segno della presenza di Dio, pur tra il frastuono dei clacson; per incoraggiare i giovani a vivere in pienezza; per immergersi nel mondo di chi lotta ogni giorno per un piatto di riso”. In un Paese così sovrappopolato, con 174 milioni di abitanti, e che si è reso indipendente da poco più di 50 anni, serve “far nascere germogli di speranza non solo per pochi”, in nome della fraternità universale. “Per me, essere missionario in Bangladesh è testimoniare che Dio è Padre di tutti e ama tutti e, nello stesso tempo, donare loro quella speranza che libera il cuore”.
I cristiani sono l’1% della popolazione
A gennaio, è stato inaugurato l’Anno giubilare nelle otto diocesi del Bangladesh. Nella cattedrale di Dhaka erano presenti centinaia di fedeli, espressione di una comunità in cammino da più di 500 anni. La diffusione del Vangelo si deve, infatti, all’ingresso dei primi mercanti portoghesi a Chittagong nel 1517 (a Sud, nella zona di Ishoripur, nel 1600). Nel Paese, a maggioranza islamica, sono 400mila i cattolici presenti; i cristiani rappresentano l’1% della popolazione. Padre Giuà, anche pensando “al clima politico attuale e alle continue manifestazioni di protesta”, parla di “una Chiesa in minoranza che testimonia la speranza cristiana e dialoga con le altre religioni”.
Articolo di Loredana Brigante per "Popoli e Missione" - marzo 2025, pp. 20-21.
Jubilee in Bangladesh: The Mission of Father Giuà, a Voice of Hope
Hope declined in the languages of mission in the Diocese of Mymensingh, where various ethnic groups live and Christians make up just one percent of the population, hope is spoken in many languages. “Asha,” repeats Father Giovanni Gargano, a Xaverian missionary in the Asian country for over 18 years, as he sows words and gestures of the Gospel among the people.
“Asha” in Bengali means “hope.” But the most accurate translation is the one that is embedded in people’s lives. It is the constant commitment of Father Giovanni Gargano, a Xaverian missionary in Bangladesh for 18 years: “Not just being pilgrims of hope, but above all, witnesses. This is the great challenge we take on in this country, day after day.”
Walking with the Lord
Father Giuà, as everyone has called him since he joined the Xaverian community in Desio in 1988 (“there were two of us with the same name”), is originally from Salerno, where he made the choice to become a missionary “by participating in the youth group, work camps, prayer schools, and engaging with the community.” At the age of 30, in 1998, he was ordained a priest, then served as a missionary and vocational animator in Desio and Salerno before departing in 2007 for “a journey in which the Lord has always accompanied me, ever since I felt the desire to be a gift to others.”
A Mixed Community
Bangladesh has become his second home: a place where “a single family is being created, and everyone can feel welcomed.” He refers to the variety of cultures in the Diocese of Mymensingh, where, in addition to the majority tribal group, the “Mandi,” there are also the “Santal,” “Urai,” “Pahari,” “Chakma,” and “Tripura.” “We are becoming a mixed community: this is a richness that fosters mutual understanding.” In this area, 70 kilometers from the capital, most people work in the textile and ceramics industries, with a significant presence in construction as well. In Dhaka, a city of over 20 million people, many women work in “beauty parlors” or as nurses.
Industry, Work, and… Pollution
“In our mission in Noluakuri, many come to work in factories,” says the missionary, explaining that industrial development, particularly leather processing, has almost completely replaced traditional agriculture, which is still practiced in some villages. However, it has also led to two major problems: river pollution and waste disposal. On top of this, corruption is rampant. As the country awaits the next political elections, through which “people hope for a government that will commit to the country’s growth,” the Church in Bangladesh does its part and stands by the people.
Proclaiming the Gospel
“There are various educational, health, and agricultural projects in collaboration with Caritas and other Catholic institutions. The work of St. Vincent is also very active, and the sisters of Mother Teresa play an important role among the poor. Every religious congregation carries out initiatives to support local situations.” Father Giuà shares that he has integrated well and lives in communion with the local clergy, which is very young. His days as a parish priest, in the three villages of the mission, are spent “visiting the sick, teaching, running a technical course with Caritas, and leading catechism groups in a diocese where the Gospel has been proclaimed but must always be renewed.” Above all, he listens. “Being pilgrims of hope in Bangladesh means being close to people, with an attitude of dialogue and acceptance. It means entering homes to pray, offering moments of encounter where joys and sorrows of life can be shared.”
Sprouts of Hope
Even the streets or a tea house become places “to be a sign of God’s presence, even amid the noise of car horns; to encourage young people to live fully; to immerse oneself in the world of those who struggle every day for a plate of rice.” In such an overpopulated country, with 174 million inhabitants and barely more than 50 years of independence, “we must foster sprouts of hope not just for a few,” in the name of universal fraternity. “For me, being a missionary in Bangladesh means witnessing that God is the Father of all and loves everyone, while at the same time giving them the hope that frees the heart.”
Christians Make Up 1% of the Population
In January, the Jubilee Year was inaugurated in Bangladesh’s eight dioceses. Hundreds of faithful gathered in the Dhaka Cathedral, representing a community that has been journeying for over 500 years. The spread of the Gospel here dates back to the arrival of the first Portuguese merchants in Chittagong in 1517 (and in the Ishoripur area in the south in 1600). In this predominantly Muslim country, there are 400,000 Catholics, with Christians making up just 1% of the population. Father Giuà, reflecting on “the current political climate and ongoing protests,” describes “a minority Church that bears witness to Christian hope and engages in dialogue with other religions.”
Article by Loredana Brigante for "Popoli e Missione" – March 2025, pp. 20-21.
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