Skip to main content

“Ai margini e nel cuore”. Il volto umano nella vita religiosa

3788/500

“Ai margini e nel cuore”. Il volto umano nella vita religiosa

RITIRO SPIRITUALE COMUNITARIO DEI SAVERIANI DI BRESCIA

Lunedì 14 Marzo 2016

con f. Faustino Ferrari del Centro “Carmen Street” dei Padri Maristi – Brescia

Un titolo simile presuppone che esistano altre dimensioni nella vita religiosa. Spirituale, psicologica, religiosa, mistica, ecc. In realtà dobbiamo abituarci a non vedere queste dimensioni come diverse tra loro o lontane o contrastanti, ma solamente differenti prospettive, punti di osservazione su di un’unica realtà. Parlando della dimensione umana della VR credo che possiamo parlare della VR nel suo complesso.

Se la dimensione umana è relazione – con se stessi, con gli altri, con il creato e con Dio – ecco che abbiamo in gioco tutti gli aspetti della VR. Secondo una certa prospettiva – mai tramontata e sempre pronta a riemergere – la dimensione umana è la parte meno importante, a cui bisogna prestare scarsa attenzione, poiché quello che conta è la dimensione spirituale. La dimensione verticale rispetto all’orizzontale.

Un certo culto del corpo che è andato ad affermarsi in questi ultimi decenni all’interno della nostra società (tatuaggi, percing, salutismo, ecc.) non è soltanto frutto dello sviluppo di un approccio materialista o di un indubbio narcisismo prepotentemente affermatosi a livello sociale, ma rappresenta una forte reazione ad un processo di negazione causato da un eccessivo spiritualismo.

A ben vedere questa separazione tra mondo spirituale e materiale ha origine da una visione che ha il suo fondamento più nella filosofia platonica e neoplatonica che nella prospettiva biblica ed evangelica. Il mistero dell’incarnazione ci immette in una dimensione che non è quella della divisione e della separazione o della contrapposizione, ma in quella dell’assunzione e della trasfigurazione. In Cristo l’umano non è negato o svilito, ma assunto e trasfigurato (nature inconfuse). I padri orientali ci parlano di divinizzazione.

Dato che il tema è molto vasto, cercherò di soffermarmi su tre punti particolari:

  • - la dimensione del limite
  • - l’aspetto della relazione e dell’affettività
  • - l’ambito del potere.

Per ciascuno di questi temi, parto da un testo biblico. Che fa da sfondo per la riflessione personale. Non mi soffermo ad esaminarli, ma li interpreto come punti iniziali (input) per questi pochi pensieri che vi propongo.

Naturalmente, quando si parla a dei preti o religiosi, c’è sempre un paio di motivi che restano nel sottofondo.

a) La distanza tra il dire ed il fare. Nel senso che ciascuno di noi sa molto bene che è facile parlare rispetto ad alcune cose, ma non altrettanto facile viverle. Chiedo venia, in maniera preventiva.

b) Il secondo aspetto è più delicato e profondo. Secondo certi maestri spirituali, noi siamo degli inconvertibili. Vale a dire, noi siamo gente del mestiere. Ne sappiamo già abbastanza. Abbiamo studiato teologia e ci esercitiamo in tante altre faccende religiose… Ma non solo. Sembra quasi che sosteniamo un tacito accordo con Dio. Della serie: noi abbiamo lasciato tutto (?) per seguirti e, quindi, che cosa vorresti ancora di più? Sicuramente, questo è un processo meno cosciente e che ci può portare, appunto, a diventare degli inconvertibili…

Ma anche qui devo chiedere venia. Poiché questo pericolo di essere inconvertibile lo posso prendere in considerazione soltanto per me stesso.

1. la dimensione umana e religiosa del limite

a) Testo biblico: Ger 45

«Questa è la parola che il profeta Geremia comunicò a Baruc figlio di Neria, quando egli scriveva queste parole in un libro sotto la dettatura di Geremia nel quarto anno di Ioiakìm figlio di Giosia, re di Giuda: “Dice il Signore, Dio di Israele, su di te, Baruc: Tu hai detto: Guai a me poiché il Signore aggiunge tristezza al mio dolore. Io sono stanco dei miei gemiti e non trovo pace. Dice il Signore: Ecco io demolisco ciò che ho edificato e sradico ciò che ho piantato; così per tutta la terra. E tu vai cercando grandi cose per te? Non cercarle, poiché io manderò la sventura su ogni uomo. Oracolo del Signore. A te farò dono della vita come bottino, in tutti i luoghi dove tu andrai”».

Non mi soffermo a spiegare il testo ed il contesto. Geremia vive in un periodo di profonda crisi. Siamo ormai giunti al crollo di un’intera società. Con la caduta di Gerusalemme e del tempio salomonico viene meno una nazione. Ma soprattutto viene meno un modo di intendere la religione, il culto e la vita spirituale.

b) La vita come bottino

Viviamo, indubbiamente, all’interno di un contesto di crisi. Papa Francesco parla di una terza guerra mondiale ormai combattuta per frammenti. A ben vedere, c’è da essere preoccupati per ciò che incombe sul nostro orizzonte. Il tema del futuro ci fa paura ed è per questo che quasi più nessuno ne parla. Siamo ripiegati sul presente e sull’oggi. Sui piccoli (o grandi) problemi del nostro oggi. Prevalgono i conflitti, sempre più terribili – invece di ricercare soluzioni comuni. Il tessuto sociale si sta dissolvendo. L’altro viene visto, ormai, come minaccia nei nostri confronti. Non importa quale nome abbia questo altro. Si tratta di un fenomeno che si è sviluppato, sottilmente ed in modo pervasivo, con la diffusione dell’Aids, negli anni ’80. L’altro ha cominciato a essere percepito come oscura minaccia. A partire dalla nostra intimità. Madri che hanno iniziato a rifiutare compagni dei propri figli. Colleghi che sono stati allontanati dal proprio posto di lavoro. Basti pensare come è cambiato il mestiere del dentista o l’attenzione dovuta alle trasfusioni del sangue, ecc. La minaccia si è insinuata in noi, ha preso corpo, è diventata di volta in volta il terrorista, l’immigrato, lo straniero, l’islamico… Un altro trasformato unicamente in oggetto. E non più soggetto con cui entrare in relazione.

La minaccia rappresentata dall’altro trova rispondenza nelle nostre porte blindate, negli onnipresenti sistemi di videosorveglianza, nella continua richiesta di sicurezza… Ricordo che una volta fui chiamato dal preside della scuola media, il quale pretendeva di sottoporre all’esame HIV un ragazzo che avevo in comunità minori poiché era venuto alle mani con un compagno di classe: i genitori erano sul piede di guerra ed avevano paura che il proprio figlio si fosse beccato l’Aids. Ma si può rispondere a livello politico o materiale a ciò che ha origine da un problema di ordine psicologico?

Qualcuno, ormai, parla di morte del prossimo. L’idea di poter essere prossimi agli altri ci sta diventando estranea, aliena. Ed anche i cosiddetti social network possono essere i migliori strumenti che ci facilitano in questo processo di isolamento.

Proprio il giornale di ieri pubblicava un’intervista ad uno psicoterapeuta, Claudio Risé, circa il tragico episodio di Roma, di coloro che hanno ucciso un ragazzo per «fare del male a qualcuno» e vedere che cosa si prova. Nella nostra società spariscono i limiti. «Si parla solo di diritti. Così c'è chi pensa di poter fare qualunque cosa. Come fosse Dio».

Si tratta di un processo continuo, che coinvolge ed avvolge tutti. Corriamo il rischio di diventare sempre più distanti dagli altri. Anche dai nostri confratelli.

Siamo più preoccupati di salvare un delfino spiaggiato piuttosto dei tanti bambini che, fuggendo dalla guerra, annegano davanti alle nostre spiagge. C’è qualcosa che non funziona. O, meglio, ci prendiamo cura di piccole cose per salvaguardare il nostro disinteresse rispetto ai grandi problemi, quelli che ci coinvolgerebbero radicalmente, nei nostri interessi e nel nostro stile di vita, gettandoci in uno stato di profonda angoscia.

E poi abbiamo le nostre crisi. Quelle nel nostro ambito religioso ed ecclesiastico. Quelle che maggiormente avvertiamo: la mancanza di ricambio, l’invecchiamento, la diminuzione, il venir meno della distribuzione degli impegni, ecc.

Il rischio è quello di rimpiangere il tempo delle vacche grasse o, irrealisticamente, di sperare che la china si possa all’improvviso invertire e si ritorni a crescere.

La dimensione umana della vita religiosa ci mette di fronte a queste difficoltà. Stiamo attraversando una stagione che non pensavamo di vivere. Ma, realisticamente, questa è la nostra stagione. Non ne abbiamo altre. Possiamo lamentarci di molte cose. Senza ammettere che in realtà ci staremmo lamentando con Dio. Non siamo schietti come Geremia, che dava voce diretta alle sue lamentazioni. Anche lui si aspettava cose grandi dalla vita e da Dio. Ma ad un certo punto capisce che ha di fronte un’altra strada.

Abbiamo la vita. Questa vita e questi giorni. Che siano tanti o pochi, non importa. Sono il dono che Dio ci fa. Sono sempre più convinto che Dio ci sta visitando in questo nostro tempo di fragilità e di debolezza. Finora c’eravamo fidati di noi stessi. Delle nostre opere e delle nostre capacità. Tiravamo in ballo la Provvidenza quando raccoglievamo capitali per le nostre opere e le nostre missioni. Mentre, in realtà, facevamo esclusivamente affidamento su noi stessi. Su quello che eravamo capaci di fare. D’altra parte, le nostre opere (attività, seminari, congregazioni) crescevano numericamente. Non era questo un segno della benedizione di Dio?

Ora questo è venuto meno. E siamo in crisi.

Ma siamo sicuri che proprio questa nostra debolezza e fragilità non siano il segno della grazia che Dio ci sta oggi offrendo? Sì, io penso che questo sia per noi un tempo di grazia.

Dobbiamo guarire da una sorta di pelagianesimo che in questi decenni ci ha portati a credere che ci basta quello che siamo in grado di mettere in opera. E che, in fondo, non abbiamo neppure bisogno di Dio.

Noi pensiamo a cose grandi. Alle nostre opere. Ma i pensieri di Dio, ci ricorda Isaia, non sono i nostri. E le sue vie sono diverse da quelle su cui muoviamo i nostri passi.

La dimensione umana della vita religiosa sta nel riconoscere il limite. Sono i limiti rappresentati dalla vita (nascita, crescita, morte). Dalle stagioni della vita. È curioso come nelle nostre congregazioni a 60 anni si sia ancora considerati dei giovani. È qualcosa di profondamente perverso. Riconoscere le età della vita vuol dire riconoscere il tempo proprio di ciascuno e per ogni cosa. Fare i conti con il mio diventare vecchio e riconoscere l’età propria degli altri.

E poi, ci sono i limiti personali. Noi, in genere, siamo cresciuti all’interno di una pedagogia del dover essere. Abbiamo, inoltre, dei ruoli da ricoprire e delle strutture da difendere. Ciò ci porta, spesso, a negare limiti anche molto evidenti. Dobbiamo imparare a conoscerci e a riconoscerci per quello che siamo e non per quello che dovremmo essere. Dio ci ama per quello che siamo – e non in base alle nostre promesse o al nostro impegno ad essere diversi da quello che siamo. Non possiamo pretendere che gli altri (a partire da quelli con cui condividiamo la nostra vita) siano diversi da quello che essi sono. Ed in ciò creati ed amati da Dio. Sono chiamato ad amare l’altro per quello che è e non con le mie pretese che sia diverso da ciò che è.

«Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini» (Fil 2, 5-7).

Con il mistero dell’incarnazione non siamo messi di fronte ad un uomo ideale (secondo il modello platonico) con cui misurarci, ma ad una persona concreta. I vangeli di Matteo e Luca ci presentano una genealogia. Gesù parla la lingua del popolo e non il greco o il latino delle elite. Conosce la polvere delle strade e la fatica del cammino. Ha sete e siede a banchetto con i peccatori e le prostitute… Incontra le persone, così come sono e non pone condizioni a priori. Ebbene, Paolo ci invita ad avere in noi gli stessi sentimenti di Cristo. Il suo stesso modo di sentire.

Ma nel nostro rapporto con gli altri – si tratta di un aspetto umano, molto umano – abbiamo la tendenza a difenderci affermando che non possiamo tollerare che gli altri ne approfittino o restino fermi nel proprio immobilismo. Noi sappiamo cosa è bene per loro! Incombe, quindi, in noi la necessità di agire, la richiesta verso gli altri che siano diversi, un po’ meglio di quello che sono.

Ma la grazia che ci trasforma è l’amore di Dio che agisce in noi. Non credo che dipenda da tutti i nostri sforzi e dai nostri impegni, ma soltanto dalla nostra disponibilità a lasciar agire questo amore in noi.

Ed ancora, abbiamo il limite estremo rappresentato dalla morte. Morte individuale e morte collettiva. Abbiamo la tendenza ad affrontare la propria morte con il convincimento, molto umano, che tuttavia qualcosa di noi rimane. Ho fatto la mia parte, muoio, ma ho edificato una chiesa (ho dato avvio ad una missione, ho aperto una scuola…) e la congregazione continua… Ciò era, un tempo, sicuramente più consolante che oggi. Oggi ci poniamo la domanda: che ne sarà dopo di noi?

Ci siamo dimenticati che anche le organizzazioni sociali, i gruppi (e le congregazioni sono gruppi) nascono, crescono e muoiono. Ci dicono gli storici che alla fine del 1700 circa il 70% degli ordini religiosi sono scomparsi nel volgere di pochi anni. Questo nascere e venire meno fa parte delle dinamiche della storia. Anche della storia religiosa. E dobbiamo porci di fronte a questa prospettiva con una grande libertà interiore. Perché la nascita, la crescita e la morte sono tempi di grazia.

L’esperienza del limite è l’esperienza umana di essere creatura. Scaturita dalla mano provvidente di Dio. Sostenuta dal suo soffio vitale. È l’esperienza dell’umiltà. Umiltà: da humus=terra. Dell’avere i piedi ben piantati in terra. E di essere creatura, parte di questa terra.

La coscienza del limite ci permette di conservare uno sguardo di stupore e di meraviglia. Di guardare a questa creazione non come il luogo dello sfruttamento e della prevaricazione, ma come dono e casa comune, da curare e custodire. L’idea del progresso non conosce il limite. Ci presenta un divenire in continua, inarrestabile crescita. È la frontiera del far west, sempre mobile e sempre in espansione. Ma è un’idea che ci rovina, poiché ha cancellato il senso del limite.

Sono convinto che come religiosi/e si debba coltivare questo senso del limite. Tuttavia, corriamo il rischio di essere fagocitati dal fare. Diminuendo come numero, aumentano per noi gli incarichi e le incombenze. Il senso del limite ci deve anche far considerare attentamente la sostenibilità. Ciò che umanamente possiamo ancora fare e quello che dobbiamo abbandonare.

Non cercare cose grandi per te stesso. Grandi sono le opere di Dio. E queste non si possono barattare, non si possono confondere con i fini personali. Maria nel Magnificat può a ragione affermare: «Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente» (Lc. 1,49) e proclamare la santità di Dio perché è Dio che compie le grandi cose. Le opere per se stessi sono destinate al fallimento, sono l’esito negativo di ogni processo critico.

Tempo di grazia. Perché Dio mi sta chiedendo: ma tu, Faustino, hai proprio scelto me, oppure ti sei lasciato affascinare da tante altre cose? Hai voluto proprio porti alla sequela del mio Figlio, oppure eri abbagliato da tanti altri idoli? Ma il tuo amore per me, fin dove è capace di arrivare?

2. La dimensione affettiva della vita religiosa

a) Testo biblico: Gv 21,15-17

Quand’ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene».

Quando leggiamo questo brano il nostro pensiero è già orientato. C’è una precomprensione che ci proietta a leggervi, quasi esclusivamente, il primato pietrino. Come se il brano in questione riguardasse un solo apostolo – Pietro – e quanti seggono sulla cattedra di Pietro. Nel recente passato, poi, in tempi di conflitti con le altre confessioni cristiane, diventava lo scudo, insieme con il brano di Matteo della Chiesa edificata sulla pietra, per procedere polemicamente in tante nostre battaglie… In realtà il brano è rivolto a ciascun discepolo. Pietro è figura di ciascun lettore che si accosta al testo. L’uomo spirituale si sente interpellato dal Cristo risorto con le stesse domande rivolte a Pietro e cerca, in cuor suo, di poter rispondere con le parole di Pietro – o con parole simili.

b) Mi vuoi bene?

Si tratta di un brano che conosciamo fin troppo bene. Anche nelle sottolineature del testo greco. Le differenze dei verbi agapao e fileo. La vita spirituale – nella sua più profonda autenticità – ci coinvolge totalmente da un punto di vista affettivo. Si tratta di un’esperienza che nel cammino della storia della salvezza viene per la prima volta testimoniata da Geremia, là ove ci parla del fuoco che lo divora interiormente.

Ma la dimensione affettiva è quanto di più umano possiamo sperimentare. Noi siamo essenzialmente, costitutivamente, relazione. E viviamo grazie a relazioni affettive, grazie a relazioni d’amore. Nessuno di noi è un’isola. Siamo stati chiamati alla vita nell’amore (dei nostri genitori e – da un punto di vista di fede – da Dio) e conduciamo la nostra vita sotto il segno dell’amore. A volte crescendo. Ma, altre volte, sotto lo scacco dell’amore. Sperimentando il fallimento. O consumati dal desiderio.

La nostra esperienza dell’amore nasce dal nostro sentirci amati da Dio. Senza questa relazione iniziale, fondante, le altre nostre esperienze umane restano sotto il segno del possibile fallimento. Questo lo dico dal punto di vista di persone che hanno scelto il valore del celibato nella propria vita. Ma non possiamo dimenticare la dimensione umana. Abbiamo bisogno di sentirci amati e di amare: è fondamentale nelle nostre relazioni e per la nostra crescita spirituale. Nelle scorse settimane la stampa ha dato risalto ad una delle tante non-notizie con cui si riempiono le pagine. Mi riferisco alla trentennale corrispondenza tra Giovanni Paolo II e Teresa Tymieniecka. Nonostante molti commenti, non c’è nulla di straordinario. È vero che a lungo sono state condannate e stigmatizzate le cosiddette amicizie particolari. Erano ritenute pericolose. Assolutamente da evitare. Eppure, se consideriamo la storia della vita religiosa vediamo che accanto a figure notevoli ci sono personaggi altrettanto notevoli. Faccio soltanto degli esempi: Francesco e Chiara, Teresa e Giovanni della Croce, Francesco di Sales e Giovanna Francesca de Chantal, Von Balthasar e Adrienne de Speyr... Non si tratta di alcuni casi eccezionali. Ma soltanto delle punte di diamante di un’esperienza più diffusa.

E come non pensare a quel prezioso libretto di Aelredo di Rievaulx, il De amicitia?

Non dobbiamo credere che invecchiando questa dimensione venga meno. Anzi, succede proprio il contrario. C’è un detto che afferma che la paglia stagionata s’incendia meglio di quella fresca.

Noi siamo fatti per amare. E l’amore di Dio passa attraverso l’amore per le sue creature ed il suo creato. Noi siamo chiamati a generare vita. Erik Erikson, con la sua concezione sui cicli della vita, ci ricorda che la generatività è una dimensione/tappa fondamentale per tutti. Nell’età della maturità ogni persona può essere datrice di vita o rinchiusa nella sterilità (stagnazione). E ciò dipende dal fatto di aver modellato o meno la propria vita all’interno di un orizzonte di valori solidi e positivi. Per Erikson generare vita non significa semplicemente mettere al mondo dei figli, ma essere persone che a livello relazionale sono capaci di comunicare vita, indipendentemente dai propri legami sociali e familiari. Secondo questa prospettiva, si può rischiare di essere sterili pur avendo messo fisicamente al mondo dei figli. Mentre si può sperimentare una maternità o una paternità quando instauriamo un rapporto fecondo e arricchente con le persone che la provvidenza pone sul nostro cammino. Quando si è capaci, appunto, di comunicare vita e di ricevere vita.

Ma ci sono ostacoli.

Vorrei accennare ad un aspetto in particolare. A partire dall’esperienza di due monaci che hanno avuto la sincerità di parlarne. Nella nostra vita religiosa si dà per scontato che questa esperienza non debba accadere. Meglio, che non se ne parli. Parum dicetur (se ne parli il meno possibile): era il consiglio che veniva continuamente ripetuto. Al tempo stesso, non possiamo pensare che superata la soglia di una certa età, si sia ormai fuori pericolo…

Uno di questi monaci è stato Thomas Merton. Ammalato, si trovò ricoverato in ospedale per alcune settimane. E si accorse di essersi innamorato di una delle infermiere che si prendevano cura di lui… Il secondo, anche lui molto conosciuto, è Marcelo Barros, monaco brasiliano ed esponente della Teologia della Liberazione. Anche lui, ad un certo punto, si rende conto di essersi innamorato. Merton era in quel momento all’apice del successo. I suoi libri erano best sellers tradotti in varie lingue e pubblicati in molte nazioni. Era ritenuto uno dei maggiori maestri spirituali del tempo e non era più neppure giovane. Ne parla nel suo diario. Il monaco, il contemplativo dell’Assoluto, sperimenta un travaglio. Si sentiva «tormentato dalla graduale consapevolezza che ci amavamo e non sapevo come avrei potuto vivere senza di lei». Ha dovuto di nuovo mettersi in gioco. Fare i conti con l’Assoluto, vivendo la crisi, per scoprirsi ancora capace di ricambiare l’amore di Dio attraverso la vita monastica. Barros, abate del monastero, decise di parlarne alla sua comunità. Non tenne la crisi per se stesso. Ha chiesto l’aiuto ed il sostegno della comunità.

Due modi diversi per misurarsi con la crisi. Esperienze che hanno comportato sofferenza, ma che probabilmente hanno aiutato queste persone a diventare capaci di trasfigurare il proprio amore.

Nelle relazioni affettive può capitare che c’innamoriamo. È nella natura delle cose. Fa parte della nostra dimensione umana.

«Al cuore si comanda, perché amare è una scelta, una promessa e un impegno» (Erich Fromm).

Notiamo bene i termini che Fromm usa per definire l’amore: scelta, promessa, impegno. Una scelta non viene semplicemente fatta una volta per tutte, ma va rinnovata quotidianamente.

Non è il tempo, oggi, per parlare di promesse. Per la società contemporanea l’orizzonte si richiude sul soddisfacimento immediato dei propri desideri. Pensare al futuro non ha senso. Non ha senso neppure vincolare la propria esistenza con una promessa, un giuramento o un voto. Ciò va contro il nostro modo di intendere la libertà. Essere liberi viene interpretato con il non avere alcun genere di vincoli.

Per il cristiano, però, il fondamento delle promesse è Dio stesso. «Dio non adempie tutti i nostri desideri, ma tutte le sue promesse», ci ricorda il teologo Dietrich Bonhoeffer. Mentre sperimentiamo nella nostra esistenza la fragilità, il limite e l’infedeltà, Dio si manifesta a noi attraverso la sua fedeltà. La condizione di peccato – il nostro richiuderci su noi stessi, tentando di fare di noi il centro del mondo – incontra la libertà che c’è donata dal Dio che resta fedele alle promesse nonostante tutti i nostri agiti.

Le nostre promesse si fondano sull’esperienza che facciamo di Dio. E ci sentiamo sorretti nelle nostre esistenze poiché si sta sperimentando che la fedeltà di Dio non viene mai meno.

Nell’orizzonte di Dio la promessa umana si apre all’attesa del futuro che è sempre dono di Dio. Le nostre promesse non possono contare sulle proprie forze e capacità, ma esse possono diventare gli strumenti con cui dichiariamo la disponibilità ad accogliere nel nostro oggi il futuro che Dio ci dona.

Sperimentare la fedeltà di Dio ci permette di trovare un’ancora di salvezza dentro la vacuità e la fluidità che circondano le nostre esistenze. Fonda il nostro impegno, che va rinnovato quotidianamente e dà corpo alla nostra scelta d’amare e alla promessa di mantenerci nell’orizzonte di questa scelta.

Siamo portati a distinguere tra l’amore umano e quello divino. Quello umano appare quasi pericoloso. Abbiamo questa strana idea. Mentre quello divino resta un’esperienza molto personale ed intima e, in un certo qual modo, poco verificabile. Il rischio che si corre – è molto frequente nella vita religiosa – è quello di trasformarci a poco a poco in persone anaffettive. Esiste la possibilità di declinarlo in vari modi: misantropia, misoginia, attaccamento agli animali… A volte si può restare colpiti per certi conflitti che possono scoppiare nelle comunità religiose intorno agli animali. Altro aspetto che può emergere con prepotenza con il crescere degli anni è quello di mendicare qualche briciola d’affetto a chi sta intorno a noi. Oggi, poi, la fuga dalle relazioni può essere favorita dall’accesso a internet, un mondo ove può essere facile rincorrere certe compensazioni affettive o sessuali. Non dobbiamo mai dimenticare che navigando in internet si possa incappare in qualche naufragio spirituale.

Si può, quindi, cadere nel pericolo di costruirsi intorno una corazza di difesa dalle relazioni che sono considerate da evitarsi poiché ci possono far soffrire o farci rimettere in discussione le nostre scelte.

Dobbiamo invece accettare il rischio dell’amare – e anche delle sofferenze dell’amare.

La vita religiosa dovrebbe aiutarci ad assumere le nostre esperienze umane d’amore come il luogo in cui Dio ci comunica il suo amore. Non negare o sminuire, ma trasfigurare. Certo, siamo messi di fronte ad un compito non facile. E che dura tutta una vita…

Vorrei, prima di affrontare l’ultima parte, accennare ancora ad un elemento, che può servire di passaggio. Nella nostra esperienza umana può capitare di incontrare persone che abbiano un’evidente simpatia nei nostri confronti o anche che s’innamorino di noi. Questo non solo è possibile, ma è frequente. Non stiamo qui ad esaminare il perché ciò avvenga. Ma è frequente, anche per lo status particolare che veniamo ad assumere di fronte agli altri con la scelta volontaria del celibato. C’è un aspetto su cui, credo, dobbiamo porre molta attenzione. Quando ce ne accorgiamo, possiamo reagire in maniera differente. A volte, allontanando da noi queste persone. Abbiamo paura di ciò che sta avvenendo e poniamo una distanza al possibile pericolo.

Ma c’è anche un’altra situazione in cui possiamo incorrere, forse più frequente. E, cioè, approfittare del contesto che si viene a creare. Non fraintendetemi. Si tratta di un processo che interviene spesso a livello inconscio, mentre il nostro narcisismo ne resta gratificato. Incominciamo ad usare queste persone per i nostri fini. Fini che presi in sé sono tutti ottimi: pastorali, organizzativi, catechetici, ecc. Ma che nel caso specifico si rivelano un abuso di potere da parte nostra e non aiutano l’altra persona a crescere. Usiamo dei vincoli a nostro vantaggio. Teniamo imprigionate affettivamente delle persone. Questo è terribile. Dobbiamo porre molta attenzione perché rischiamo di produrre molto male. Non possiamo approfittare dei sentimenti degli altri. Eppure si tratta di un processo in cui s’incappa più spesso di quanto si possa immaginare.

La cosa migliore sarebbe né fuggireapprofittarne. Ma cercare di chiarire, in modo franco e aperto, le ragioni della nostra scelta – che andiamo a rinnovare.

Rispondere ancora una volta alla domanda del Cristo: mi vuoi bene?

3. L’esperienza del potere

a) Testo biblico: Mc 10,42-45

«Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».

I figli di Zebedeo hanno appena chiesto a Gesù di sedere, quando sarà nella gloria, uno alla sua destra e l’altro alla sua sinistra. Per quanto riguarda il potere, non ci si può rifare ai modelli umani. Politici o economici che siano. L’unico modello è il Figlio dell’uomo.

b) Tra voi però non è così

Secondo alcune ricerche oltre il 60% delle persone sogna di avere poteri segreti sugli altri. Non solo. Un potere visibile, aperto, dichiarato e su tutti, a livello economico e politico è sognato dal 73% delle persone. E questo, se non in maniera frequente, è successo almeno una volta. Non so se facciamo parte di queste percentuali… Sono, comunque, interessanti.

La questione del potere è molto umana. Ed è estremamente importante nell’esperienza della vita religiosa. C’è l’obbedienza e ci sono le strutture. Esiste una miscela tra elezioni e nomine. C’è una macchina oliata che funziona, di solito, molto bene. Ogni esperienza umana si costruisce intorno a dei modelli. Si sviluppano così le strutture e le strutture di potere.

In genere, non c’è molta attenzione ad un discorso sul potere nelle nostre comunità e nelle nostre congregazioni. Siamo già strutturati. I ruoli sono definiti. Ma si rischia di nasconderci dietro al dito, quando affermiamo che il potere è una questione di servizio. Queste ultime sono belle parole che non servono a niente. I padri ed i maestri spirituali hanno sempre ricordato che il potere ha una dimensione diabolica. E se veramente il potere viene presentato come servizio, l’unico modo per poterlo fare è cingere il grembiule (per citare la bella immagine di d. Tonino Bello, là ove abbina la stola al grembiule).

Come mettere insieme questo aspetto molto umano del potere (in fondo, nel nostro inconscio, noi ci riteniamo sempre un po’ meglio degli altri e, quindi, superiori) e le esigenze di una vita autenticamente evangelica? «Tra voi però non è così».

Di fatto, esercitiamo un potere nelle nostre comunità ecclesiali. Abbiamo il potere della parola. E quello dei sacramenti. È molto triste sentire un parroco affermare: «Qui si fa come dico io». Oppure, le tante omelie in cui non viene spezzato il pane della parola, ma diventano il momento per esternare le proprie opinioni, i propri giudizi. Qualche mese fa un curato della città mi diceva che è ora di smetterla di dare il battesimo a chiunque. Bisogna amministrarlo soltanto ai bambini di famiglie ben formate…

Abbiamo il potere legato al ruolo e all’istituzione e che si traduce in un lungo elenco di privilegi. E lo usiamo in continuazione. Convinti di farlo a fin di bene. Recentemente alcuni miei confratelli sostenevano l’idea che ormai, questi privilegi, erano andati scomparendo. Ho avuto buon gioco facendo una breve carrellata.

Non abbiamo bisogno di fare la fila nelle code di attesa, ad esempio. Abbiamo conti a condizioni molto favorevoli in banca. Se abbiamo problemi di salute, c’è la Poliambulanza…

Non vorrei essere frainteso. Sono mie riflessioni personali che mi portano a domandarmi: tutto ciò migliora la mia testimonianza evangelica oppure si traduce soltanto in un vantaggio per me stesso?

Si afferma spesso – e c’è stato anche un documento della Congregazione dei religiosi – che il voto dell’obbedienza sia oggi in crisi. Personalmente non sono convito di molte analisi fatte a riguardo. Per un semplice aspetto. Nel corso di questi decenni post-conciliari, soprattutto con le nuove costituzioni, si è passati a considerare l’obbedienza sotto un punto di vista funzionale. Si tratta di una variazione non indifferente. L’obbedienza, da ricerca della volontà di Dio e, quindi, frutto di un discernimento spirituale (fatto a livello personale, un tempo, soprattutto con il confessore o il direttore spirituale) è diventata lo strumento funzionale per il raggiungimento di tutta una serie di fini (ottimi di per sé, ma non sufficienti). Una sorta di pragmatismo che ci ha portati ad affermare: l’obbedienza serve per la missione, per una migliore pastorale, per il carisma dell’istituto…

Ma questo modo di procedere ci lascia in balia (a volte si tratta solo di impressioni soggettive e non di aspetti veramente agiti dalle persone) di un esercizio del potere che rischia di essere troppo umano.

Il nostro fondatore avrebbe voluto che i superiori (le persone che esercitano il potere) agissero secondo alcuni orientamenti:

  1. avessero una disponibilità a consultarsi su tutto;
  2. esprimessero il proprio parere per ultimi. Non perché fosse il più importante, ma perché ci fosse l’ascolto di tutti e questo parere non diventasse orientativo per gli altri;
  3. La richiesta al superiore di preferire il parere dei consiglieri a quello personale, soprattutto nel caso di parità.

La prassi, tuttavia, nella nostra congregazione è stata di altro tipo e soprattutto il terzo aspetto è stato osteggiato e accantonato.

Ho fatto questa citazione non per porla come modello, ma per cercare di meglio illustrare quello che mi sembra una carenza del nostro vivere in comune oggi. E cioè, l’aspetto demoniaco del potere ci obbliga ad un attento processo di discernimento, per scoprire nella nostra vita e nelle nostre comunità quale possa essere la volontà di Dio.

Processo faticoso ed impegnativo, ma necessario. Fare appello al voto di obbedienza rischia di essere una scorciatoia che non porta da nessuna parte – e che non risparmia chi in quel momento è in carica dalla tentazione del potere. Vivo in una congregazione in cui, attualmente, il ricorso al voto di obbedienza viene ritenuto un caso estremo e da evitarsi il più possibile. Ciò comporta sicuramente rallentamenti, ripensamenti, fatiche nei momenti decisionali. Ma non mi sembra che le cose non funzionino. Certo, si apre qui un discorso che sarebbe molto lungo…

Con l’anno santo della Misericordia siamo sollecitati a rileggere questi nostri atteggiamenti. Misericordia: portare nel proprio cuore chi si ritrova in una situazione di svantaggio. Mettersi al suo posto. Vestire dei suoi panni. Immedesimarsi in lui…

Il potere, invece, estrania. Ci allontana dagli altri. Crea barriere e fratture. Basti pensare all’immagine del palazzo come luogo di un potere lontano dal popolo.

Scrive papa Francesco:

«In questo contesto, si alimenta la vanagloria di coloro che si accontentano di avere qualche potere e preferiscono essere generali di eserciti sconfitti piuttosto che semplici soldati di uno squadrone che continua a combattere. Quante volte sogniamo piani apostolici espansionisti, meticolosi e ben disegnati, tipici dei generali sconfitti! Così neghiamo la nostra storia di Chiesa, che è gloriosa in quanto storia di sacrifici, di speranza, di lotta quotidiana, di vita consumata nel servizio, di costanza nel lavoro faticoso, perché ogni lavoro è “sudore della nostra fronte”. Invece ci intratteniamo vanitosi parlando a proposito di “quello che si dovrebbe fare” – il peccato del “si dovrebbe fare” – come maestri spirituali ed esperti di pastorale che danno istruzioni rimanendo all’esterno. Coltiviamo la nostra immaginazione senza limiti e perdiamo il contatto con la realtà sofferta del nostro popolo fedele.

Chi è caduto in questa mondanità guarda dall’alto e da lontano, rifiuta la profezia dei fratelli, squalifica chi gli pone domande, fa risaltare continuamente gli errori degli altri ed è ossessionato dall’apparenza» (Evangelii gaudium 96-97).

Immersi nei nostri ruoli, possiamo essere portati a pensare che l’anno santo sia uno strumento pastorale ed un’occasione per gli altri. Per i fedeli e per coloro a cui è rivolta la nostra azione pastorale. Un’opportunità in più per fare il bene. Se questo fosse il nostro pensiero, sbaglieremmo. È occasione unicamente per noi stessi. Per me. Un tempo che mi è dato per sperimentare l’amore di Dio in me e per me. Per lasciare spazio in me a questo amore che, lui solo, può trasformare la mia esistenza.

Il potere umano ha molti artifici e mette in gioco molte maschere. L’apparente debolezza dell’amore divino ci libera, invece, da noi stessi.

Il padre misericordioso della parabola non mostra di essere autoritario. E neppure, paternalista. Si mostra attento, aperto, disponibile. Non giudica. È capace di amare. È capace di amare il figlio ancor prima del suo pentimento. Grazie a questo amore, il figlio perduto è ritrovato.

Ed io? Io sono quello rimasto a casa?

E con questo, concludo. La dimensione del limite, dell’affettività e l’ambito del potere, sono aspetti umani che ci riconducono ai tre voti religiosi. Ad una rilettura della povertà, della castità e dell’obbedienza. Ho provato a farlo in una maniera forse un po’ inusuale…

Faustino Ferrari, sm

fausfer@tiscali.it

Ferrari Faustino
18 Marzo 2016
3788 visualizzazioni
Disponibile in
Tag

Link &
Download

Area riservata alla Famiglia Saveriana.
Accedi qui con il tuo nome utente e password per visualizzare e scaricare i file riservati.