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Da perseguitati a missionari

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La fondazione della comunità di Antiochia

Ad una lettura attenta, ci si rende conto che nel passo sopra menzionato accade qualcosa di straordinario, poiché l’evangelista afferma esplicitamente che la persecuzione scoppiata a Gerusalemme – e culminata con il martirio di Stefano – ha provocato, sì, una “dispersione” dei cristiani, ma ha “provvidenzialmente”consentito al Vangelo di raggiungere Antiochia, la terza città più importante dell’impero, dopo Roma e Alessandria d’Egitto. In tal modo Luca ha voluto mostrare che, nonostante gli innumerevoli ostacoli, l’annuncio del Vangelo ha incontrato una benevola accoglienza da parte di molti uomini e donne di buona volontà.

Il contenuto essenziale del primo annuncio

È poi significativo che Luca indichi esplicitamente il contenuto essenziale del primo annuncio: “Gesù è il Signore” (v. 20). Si tratta di una formula sintetica, una sorta di “mini-credo” nel quale riecheggia la fede della prima comunità cristiana, che vede in Gesù l’unico vero Signore del mondo e della storia. Sarebbe interessante, a duemila anni di distanza, chiedersi se la Chiesa di oggi, la “nostra” Chiesa, vede ancora in Gesù l’unico Signore, il centro e il senso ultimo della propria esistenza. 

Il successo della missione dei primi cristiani perseguitati è espresso con un’immagine che Luca prende dall’Antico Testamento, per mostrare che sussiste una sorta di continuità tra le vicende dell’antico Israele e quelle della comunità dei discepoli e delle discepole di Gesù: “La mano del Signore era con loro” (cfr. 2Sam 3,12; 1Re 18,46; Lc 1,66). Con queste parole l’evangelista indica l’approvazione e la benedizione di Dio nei confronti del suo popolo. La benedizione divina è poi confermata dal “grande numero” di coloro che credettero e si convertirono al Signore: ancora, al centro della fede dei primi cristiani non c’è tanto un insegnamento, quanto una persona, il Signore Gesù.

La missione di Barnaba

 L’evangelizzazione di Antiochia conosce poi una seconda fase, caratterizzata dall’invio dell’apostolo Barnaba da parte della Chiesa madre di Gerusalemme. Sbaglieremmo se intendessimo l’invio di Barnaba come espressione di un’indebita ingerenza da parte della comunità gerosolimitana. A ben vedere, l’obiettivo della missione apostolica è duplice: garantire la comunione e confermare nella fede. Barnaba, che il lettore degli Atti già conosce (cfr. At 4,36-37), svolge tale compito non da mero esecutore, ma da autentico pastore: “quando giunse e vide la grazia di Dio, si rallegrò ed esortava tutti a restare, con cuore risoluto, fedeli al Signore, da uomo virtuoso qual era e pieno di Spirito Santo e di fede” (vv. 24). È importante sottolineare che l’espressione “con cuore risoluto” significa “con profonda e intima determinazione”. Il lettore dell’opera lucana sa quanto sia caro all’evangelista il tema della perseveranza (cfr. Lc 8,15). Luca, infatti, scrive in un periodo in cui se da un lato il cristianesimo conosce una notevole diffusione, dall’altro corre il rischio di annacquarsi e di perdersi in un mosaico di fedi e di religioni alternative che a quel tempo erano molto diffuse, soprattutto in una metropoli come Antiochia. Ad una riflessione attenta anche noi, oggi, spesso corriamo il rischio di aderire in maniera molto superficiale alla fede in Gesù, soprattutto quando “prendiamo” del cristianesimo ciò che “ci piace” ed escludiamo, senza troppe remore, ciò che invece risulta scomodo. L’esortazione di Barnaba, pertanto, è ancora oggi valida e attuale. 

Senza invidie e gelosie

C’è un altro aspetto della missione di Barnaba che deve sollecitare la nostra riflessione, e cioè il fatto che egli si rallegri per il progresso nella fede e nell’adesione a Gesù della neonata comunità cristiana. Di Barnaba, infatti, l’evangelista dice che “quando questi giunse e vide la grazia di Dio, si rallegrò” (v. 22). Nella missione dell’apostolo non c’è spazio per invidie o gelosie, ma solo per un autentico sentimento di gioia e di gratitudine che scaturiscono dall’esperienza della “grazia”, una grazia che, in questo caso, si manifesta nell’adesione entusiasta di così tanti fratelli e sorelle al Vangelo di Gesù. Forse è proprio questa mancanza di invidia e di competizione che spinge Barnaba a partire alla ricerca di Saulo, per associarlo a sé nel delicato compito del consolidamento della Chiesa di Antiochia: “rimasero insieme un anno intero in quella Chiesa e istruirono molta gente” (v. 26).

La centralità della persona di Gesù

Il racconto si conclude con un’annotazione particolarmente significativa: “Ad Antiochia per la prima volta i discepoli furono chiamati cristiani” (v. 26). Il termine “cristiano” indica l’appartenenza a Cristo, anche se è difficile pensare che esso fosse stato coniato dai primi discepoli di Gesù, poiché poteva evocare un significato politico-messianico (christos = messia), che nulla aveva a che fare con l’annuncio evangelico. Sembra piuttosto che tale appellativo fosse inizialmente utilizzato dai romani, forse con una sfumatura di disprezzo, per distinguere la “setta” dei “nazareni” dal giudaismo ufficiale. In ogni caso, è interessante notare che i discepoli e le discepole di Gesù venissero identificati proprio sulla base della loro adesione alla persona del Maestro, confermando così implicitamente la centralità della persona di Gesù per la fede della Chiesa.

Dalla “disgrazia” la “grazia” della missione

Come dicevamo all’inizio, la nascita della comunità cristiana di Antiochia costituisce un evento tutt’altro che secondario. La metropoli antiochena di fatto diventerà presto la seconda Chiesa madre dopo quella di Gerusalemme, perché proprio da essa partiranno i primi missionari del mondo pagano, Paolo e Barnaba. Ciò che colpisce è che all’origine di questa missione non stanno tuttavia i grandi protagonisti del libro degli Atti, ma una comunità anonima di cristiani perseguitati che, lungi dal perdersi d’animo davanti alle difficoltà, non hanno esitato a trasformare una situazione di “disgrazia” in un evento di “grazia”, come lo stesso Barnaba ha avuto modo di constatare. Non solo, ma la comunità antiochena mostrerà fin da subito di essere attenta ai bisogni e alle esigenze delle Chiese in difficoltà, in primis della Chiesa di Gerusalemme, dolorosamente piegata a causa di una grave carestia che era scoppiata nel frattempo (cfr. At 11,27-30). Evidentemente solo chi ha sofferto veramente e ha saputo trarre una dolorosa lezione di vita dai propri patimenti è in grado di cogliere immediatamente il dramma di chi, per i più svariati motivi, viene a trovarsi nella medesima situazione. 

La Scrittura “forma” più che “informare”

Come sarebbe bello se anche i cristiani di oggi, così duramente provati dalla pandemia, potessero trarre giovamento dalla testimonianza delle prime comunità cristiane. In fondo, se l’evangelista Luca si è preoccupato di conservare questo episodio così significativo del cristianesimo delle origini, è proprio per consegnare alle generazioni che sarebbero venute un modello di fede, speranza e carità. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che le pagine della Sacra Scrittura hanno come fine ultimo non semplicemente quello di “informare”, ma di “formare”, come dice bene la seconda Lettera a Timoteo: “conosci le sacre Scritture fin dall’infanzia: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene mediante la fede in Cristo Gesù. Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona” (2Tm 3,15-17).

Alessandro Gennari
10 Maggio 2021
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