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“Il profeta deve molestare la società, quando la società non ama Dio”

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San Óscar Arnulfo Romero y Galdámez è nato in un paesino di montagna chiamato Ciudad Barrios, con una popolazione non superiore ai mille abitanti, alla frontiera con l’Honduras. Un piccolo paese in una piccola nazione, qual è il Salvador, (per la precisione 21mila kmq; un pulgarcito,” piccolo pollice” come la chiama affettuosamente la poetessa cilena Gabriela Mistral); una terra del Centro America per decenni insanguinata  a causa di una endemica e sotterranea guerra civile che ebbe inizio dagli anni Trenta del secolo scorso. 

San Romero visse nel desiderio gratuito, puro e semplice di essere tutt’uno con la sua gente che soffre, e per questo fu costante e instancabile nell’impegno pastorale di includere, integrare, rialzare chi è caduto, grazie alla straordinaria forza dell’annuncio della Parola di Dio e, allo stesso tempo, nella franca denuncia delle ingiustizie e dei soprusi, a cui era sottoposta la maggioranza della popolazione indigena contadina salvadoregna. 

Soffrendo insieme al suo amato popolo, si espose sempre più alle critiche e all’odio feroce della ridottissima oligarchia latifondista del Salvador (cinquantasei famiglie, meno del 2%, su una popolazione a metà degli anni Settanta del secolo scorso di 4 milioni e duecentomila). Egli stesso lo aveva intuito e profetizzato per il suo mandato episcopale, dopo appena sei mesi dall’essere stato eletto arcivescovo della capitale, dichiarando in una omelia: “Il profeta deve molestare la società, quando la società non ama Dio”. 

La morte del Padre Rutilio Grande

Monsignor Romero fu modello di sacerdote fedelissimo alla tradizione, rigido nella disciplina ecclesiastica e, non ultimo, sospettoso delle conclusioni offerte dal documento finale della seconda conferenza dell’Episcopato Latino-Americano in Medellin e della “scelta preferenziale per i poveri”. Senza dubbio, dunque, egli visse nella propria carne il drammatico avvenimento accaduto la sera del 12 marzo 1976.  In quell’infausto giorno, viene ucciso ad Aguilares, una cittadina di trentamila persone, il padre gesuita Rutilio Grande. In questa cittadina, a stragrande maggioranza costituita da contadini, P. Rutilio svolgeva il servizio di parroco, vivendo poveramente tra i poveri con altri tre confratelli, ed era diventato una guida e un punto di riferimento morale per la comunità cittadina.

 Dopo aver ricevuto personalmente dall’allora Presidente della Nazione Molina la tragica notizia dell’assassinio, Monsignor Romero si reca a notte fonda nella Chiesa parrocchiale, dove concelebra la Eucaristia con altri quindici sacerdoti, alla presenza di centinaia di campesinos riuniti silenziosamente per pregare e, nello stesso tempo invocare aiuto e protezione a causa della spietata repressione dell’esercito. La risposta di Monsignor Romero a quella invocazione silenziosa dei campesinos in quella tragica notte fu di diventare, a cinquantanove anni, il loro difensore, o meglio, la voce dei senza voce. Già due giorni dopo il ricordato funerale, il 14 di marzo, per la prima volta in un’omelia apertamente si erge contro i mandanti dell’omicidio difendendo la evangelicità della posizione pastorale del compianto parroco. 

Inizia così la lunga notte di dolore e solitudine dell’arcivescovo, che continuerà fino all’ultimo ad annunciare parole di speranza e perdono, ma anche di forte denuncia e di vibrante richiesta di giustizia per tutte le vittime di ogni atto criminale, che, in una spirale progressiva di violenza, insanguinerà per più di una decade tutto il Paese.

Il Martirio

Il prossimo 24 marzo, ricorrono 41 anni dall’assassinio di Monsignor Óscar Arnulfo Romero y Galdámez arcivescovo di San Salvador,  assassinio avvenuto la sera di lunedì 24 marzo 1980, alle ore 6 e 27 minuti, nella cappella dell’Ospedale La Divina Provvidenza. Un piccolo ospedale per malati terminali in cui Monsignor Romero aveva deciso di abitare quando era stato nominato arcivescovo di San Salvador, per vivere povero tra i poveri. Mentre l’Arcivescovo terminava di pronunciare la sua ultima omelia, commentando le letture, in particolare il Vangelo di Giovanni 12,23-26: “Se il grano di frumento caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produrrà grande frutto”, con un brano della Costituzione Conciliare sulla Chiesa nel mondo moderno, intitolata Gaudium et spes, un sicario sconosciuto apparve sulla porta della piccola Cappella e lo uccise sparandogli un solo proiettile diretto al cuore. Le ultime parole di Monsignor Romero, prima di morire, furono proprio sulla speranza:

“Questa è la speranza che sostiene noi cristiani. Sappiamo che ogni sforzo per migliorare la società, soprattutto quando è così grande l’ingiustizia, è uno sforzo che Dio benedice, che Dio vuole, che Dio esige da noi”. 

Sono pienamente convinto che questa speranza evangelica è ancora fondamentale oggi in America Latina fondamentale per tutti i discepoli di Gesù Cristo. Lo è anche per noi, consacrati ad gentes che testimoniamo la misericordia del Signore per mezzo dell’annuncio della Buona Novella in un contesto che continua a essere di forte conflittualità e violenza, causata da ingiustizie sociali che persistono. Il tutto, aggravato purtroppo dall'attuale flagello della pandemia del Covid 19 che, acuendo la crisi socio-economica, rende ancor più dura e penosa la vita degli strati più poveri della società latino-americana. 

Alessandro Feruglio sx


“El Profeta debe molestar a la sociedad, cuando la sociedad no ama a Dios”

San Óscar Arnulfo Romero y Galdámez nació en un pueblo de la montaña, denominado Ciudad Barrios, con una población no superior a los mil habitantes, en la frontera con la nación de Honduras. El Salvador es un país pequeño (21 mil km2), un pulgarcito, como es denominado con cariño por la poetisa chilena Gabriela Mistral. Sin embargo, por décadas, se trata de una tierra de Centroamérica, ensangrentada por una endémica y subterránea guerra civil que tuvo inicios en los años treinta del siglo pasado.   

San Óscar Arnulfo Romero y Galdámez vivió en el deseo gratuito, puro y simple de querer ser una sola cosa con su pueblo que sufre y, por eso, se involucra de manera constante e incansable en el compromiso pastoral de incluir, integrar, levantar a los caídos, con la extraordinaria fuerza de su anuncio de la Palabra de Dios y, al mismo tiempo, de la franca denuncia de las injusticias y abusos a la que estaba sujeta la mayoría de la población indígena campesina de El Salvador. 

Sufriendo junto a su amado pueblo, se expuso cada vez más, a las críticas y al odio feroz de la exigua oligarquía latifundista de El Salvador (cincuenta y seis familias, menos del 2% de su población, se impusieron a mitad de los años setenta del siglo pasado sobre una población de alrededor de 4 millones y doscientos mil habitantes). Él mismo lo había comprendido y profetizado en su mandato episcopal, después de menos de seis meses dehaber sido elegido arzobispo de la capital, declaraba en una homilía: “El profeta debe molestar a la sociedad, cuando la sociedad no ama a Dios”.

La muerte del Padre Rutilio Grande

Sin duda, la vida y el testimonio apostólico de Monseñor Romero, modelo de sacerdote muy fiel a la tradición, estricto en la disciplina eclesiástica, y también incierto ante las conclusiones presentadas por el Documento final de la Segunda Conferencia del Episcopado Latino Americano en Medellín y de la “opción preferencial por los pobres”, vivió en su propia carne un doloroso acontecimiento en el atardecer del 12 de marzo de 1976. 

En aquel doloroso día, viene asesinado en Aguilares, una pequeña ciudad de treinta mil personas, el padre jesuita Rutilio Grande. En esta ciudad, en su gran mayoría constituida por campesinos, realizaba su servicio de párroco, viviendo pobremente entre los pobres con otros tres hermanos, volviéndose guía y punto de referencia moral para la comunidad a su cuidado. 

Recibiendo personalmente del entonces presidente de la nación, el Sr. Molina, la dolorosa noticia del asesinato, Mons. Romero se dirige por la tarde, hacia la Iglesia parroquial, donde junto con otros quince sacerdotes concelebra la Eucaristía, en presencia de centenares de campesinos, reunidos en silencio para rezar y al mismo tiempo pedir ayuda y protección a causa de la despiadada represión del ejército. La respuesta de Monseñor Romero a aquel silencioso grito de ayuda, en aquella trágica noche, lo convierte, a cincuenta y nueve años de edad, en su defensor o, mejor dicho, en la voz de los sin voz.  A dos días después de las exequias del P. Rutilio, el 14 de marzo, por primera vez, en una homilía, Mons. Romero se enfrentó abiertamente a los que habían organizado el asesinato, defendiendo el carácter evangélico de la actividad pastoral del amado párroco. 

Inicia así la larga noche de tristeza y soledad del arzobispo, que continuará hasta el final a anunciar palabras de esperanza y de perdón, y al mismo tiempo vibrantes denuncias y peticiones de justicia en favor de todas las víctimas de cada acto criminal que, en una espiral de progresiva violencia, manchará de sangre por más de una década a todo el país.  

El Martirio

El próximo 24 de marzo, recorrerán 41 años del asesinato de Óscar Arnulfo Romero y Galdámez. arzobispo de la capital de El Salvador. Asesinato acontecido el lunes 24 de marzo de 1980, en la tarde, a las 6 y 27 minutos, en la capilla del Hospital La Divina Providencia. Un pequeño hospital para enfermos terminales en el que Monseñor Romero había decidido vivir cuando fue nombrado arzobispo, para vivir pobre entre los pobres.

Mientras Romero terminaba su última homilía, reflexionando sobre las lecturas, en particular el pasaje del Evangelio de Juan 12,23-26: “Si la semilla de trigo caído en tierra no muere, se queda solo, pero si muere producirá mucho fruto”, uniendo estas palabras a un texto de la Constitución Conciliar sobre la Iglesia en el mundo moderno, Gaudium et Spes, un sicario desconocido apareció en la puerta de la capilla y le quitó la vida, disparándole una sola bala, derecho al corazón. Sus últimas palabras, antes de morir, son exactamente sobre la esperanza, afirmando textualmente: “Esta es la esperanza que afianza a nosotros los cristianos”.

Sabemos que todo esfuerzo por mejorar la sociedad, sobre todo cuando es grande la injusticia sufrida, es un esfuerzo que Dios bendice, que Dios quiere y que Dios exige de nosotros. Estoy plenamente convencido de que esta esperanza evangelica, es todavía hoy en América Latina fundamental para todos los discípulos de Jesucristo y, desde luego, para nosotros, consagrados ad gentes, llamados a testimoniar la misericordia del Señor por medio del anuncio de la Buena Nueva, en un contexto que sigue siendo - con tintes oscuros - de fuerte conflictividad y violencia, originadas por injusticias sociales que aún persisten, más pesadas aún en esta hora del azote de la pandemia del Covid-19, que ha agravado una crisis socio-económica ya existente, volviendo aún más dura y sufrida la vida de los más pobres de la sociedad latinoamericana.

Alessandro Feruglio sx


“When society doesn’t love God, the prophet must become a nuisance to society”

Saint Óscar Arnulfo Romero y Galdámez was born in a mountain hamlet called Ciudad Barrios, which lies along the border with Honduras and has a population of less than 1000 people. It is a small village in a small nation such as El Salvador is (the precise surface of the state is 21 square kilometres: a pulgarcito or “small thumb”, as the country is called with affection by the Chilean poetess Gabriela Mistral). However, for decades, an endemic and underground civil war, which started in the 1930s, has stained this Central American land with blood.   

Saint Romero lived with a free, pure and simple desire to be completely one with his suffering people. For this reason, by dint of the extraordinary power that comes from the proclamation of the Word of God, he was constant and restless in his pastoral effort to welcome and integrate everyone, and even raise those who had fallen. At the same time, he frankly denounced the injustices and abuses suffered by the majority of the Salvadoran indigenous peasants. 

Because he took side and suffered with the people he loved, he progressively became the target of criticism and fierce hatred unleashed against him by El Salvador’s tiny oligarchy of landowners (56 families, namely, less than 2% of the whole population that in mid 1970s consisted of about 4,200,000 people). Just six months after he had been elected bishop of the capital city, he himself had anticipated and foreseen that this uneasy situation would determine his episcopal ministry. In a homily he stated: “When society doesn’t love God, the prophet must become a nuisance to society.”

Father Rutilio Grande’s Death

Monsignor Romero typified the priest that is faithful to tradition and follows ecclesiastical discipline strictly. Moreover, he was suspicious of the conclusions offered in the final document of the second conference of Latin American Bishops in Medellín and of the “preferential option for the poor.” However, it goes without saying that he experienced in his own flesh the dramatic event which happened on March 12th, 1976. In that ill-fated day, Jesuit priest Fr. Rutilio Grande was murdered in Aguilares, a small town of 30,000 people. In that town, whose vast majority of inhabitants is made up of peasants, Fr. Grande was working as a parish priest. Together with other three confreres, he was living in poverty among the poor, and had become a leader and a moral point of reference for the local community. In the middle of the night, upon receiving personally from Molina, then President of the Nation, the tragic news of the murder, Mons. Romero rushed to the parish church. There, he concelebrated a Mass with other fifteen priests, in the presence of hundreds of campesinos that had gathered in silence to pray and, at the same time, invoke help and protection against the ruthless military repression. In that tragic night, Mons. Romero answered the campesinos’ silent invocation by becoming, at the age of 59, their defender or, to put it better, by becoming a voice for those without voice. Two days after that funeral, on March 14th, for the first time in his homilies, he openly stood against those who had ordered the murder by affirming that the late parish priest’s ministry was grounded in the Gospel. 

This is how the Archbishop’s long night of sadness and loneliness began. It was a period during which he would keep announcing words of hope and forgiveness while making strong denunciations and demanding justice for the victims of all criminals acts that, in a progressive spiral of violence and cruelty, would stain with blood the whole country for more than a decade.

Martyrdom

This year March 24th marks the 41st anniversary of the murder of Monsignor Óscar Arnulfo Romero y Galdámez, Archbishop of San Salvador, the capital city of the homonymous state. The Archbishop’s assassination occurred on Monday, March 24th, 1980, at 6:27 p.m., in the chapel of La Divina Providencia Hospital. This is a small hospital for terminally ill patients where Mons. Romero decided to live as poor among the poor after his appointment as Archbishop of San Salvador. Towards the end of the Archbishop’s last homily, while he was commenting the readings and especially the verses from the Gospel of John 12: 23-26 – “Unless a wheat grain falls into the earth and dies, it remains only a single grain; but if it dies it yields a rich harvest” – by referring to a passage from the Council’s Constitution on the Church titled Gaudium et spes, a gunman appeared at the door of the small chapel. He shot and killed the Archbishop with a single bullet at his heart. The Archbishop’s last words before dying were about hope. His actual words were: 

“This is the hope which sustains us, the Christians. The fact that we know that every effort to improve society is blessed by God, is something God wants and demands from us, especially when great are the injustices.” 

I am fully convinced that, in today’s Latin America, this hope that comes from the Gospel is still fundamental for all the disciples of Jesus Christ and, of course, for us, ad gentes missionaries, as well. We give testimony to the Lord’s mercy through the proclamation of the Good News in a gloomy context that continues to be ravaged by conflicts and violence. Social injustices persist behind all of this. Unfortunately, they are now exacerbated by the scourge of the Covid-19 pandemic that aggravates the socio-economic crisis, which in its turn creates harder and more painful living conditions for the poorest in Latin American society. 

Alessandro Feruglio sx


« Quand la société n’aime pas Dieu, le prophète doit harceler la société »

Saint Óscar Arnulfo Romero y Galdámez est né dans un village de montagne appelé Ciudad Barrios, qui se trouve le long de la frontière avec le Honduras et ayant une population d’environs 1000 personnes. C’est un petit village dans une petite nation qu’est l’El Salvador dont la superficie précise de l’État est de 21 kilomètres carrés (un pulgarcito ou « petit poucet », comme le pays est appelé avec affection par la poétesse chilienne Gabriela Mistral). Cependant, pendant des décennies, une guerre civile endémique et souterraine, remontant aux années 1930, a taché cette terre d’Amérique centrale de sang.   

Saint Romero vivait avec un désir libre, pur et simple d’être complètement un avec son peuple souffrant. Pour cette raison, à force de la puissance extraordinaire qui vient de l’annonce de la Parole de Dieu, il était constant et infatigable dans son effort pastoral d’accueillir et d’intégrer tout le monde, et même de relever ceux qui étaient tombés. Dans le même temps, il a franchement dénoncé les injustices et les abus subis par la majorité des paysans indigènes salvadoriens. 

Pour avoir pris parti et souffert avec les gens qu’il aimait, il est progressivement devenu la cible de critiques et de haine féroces déclenchées contre lui par la minuscule oligarchie des propriétaires terriens du Salvador (56 familles, soit moins de 2% de la population totale qui, au milieu des années 1970, était composée d’environ 4 200 000 personnes). Six mois seulement après sa désignation comme archévêque de la capitale, il avait lui-même anticipé et prévu que cette situation difficile déterminerait son ministère épiscopal. Dans une homélie, il déclara: « Quand la société n’aime pas Dieu, le prophète doit devenir une nuisance pour la société. »

La mort du Père Rutilio Grande 

Mgr Romero était indubitablement un prêtre modèle très fidèle à la tradition, rigide dans la discipline ecclésiastique et, en dernier, méfiant des conclusions offertes par le document final de la deuxième conférence de l’épiscopat latino-américain à Medellin du « choix préférentiel pour les pauvres », jusqu’a ce quil vécut de sa propre chair l’événement dramatique du soir du 12 mars 1976.  

En ce jour malheureux, le père jésuite Rutilio Grande, fut tué à  Aguilares, une petite ville de trente mille habitants, dont la grande partie était de paysans. Le père Rutilio y avait été curé, et avec ses trois confrères, y vivait en pauvre parmi les pauvres. Il était devenu un guide et un centre de référence morale dans la memoire de la communauté.

 Après qu’il eut reçu personnellement le nouveau tragique de l’assassinat de Mr. Molina, le président de l’époque, Mgr Romero se rendit tard dans la nuit à l’église paroissiale, où il célèbra l’Eucharistie avec quinze autres prêtres, et en présence d’une centaine de paysans agriculteurs rassemblés en silence pour prier et, en même temps, invoquer l’aide et la protection en raison de la répression impitoyable de l’armée. Et la réponse de Mgr Romero à cette invocation silencieuse des agriculteurs en cette nuit tragique allait devenir, à cinquante-neuf ans, leur défenseur, ou plutôt la voix des sans-voix. Deux jours après ces funérailles, le 14 mars, pour la première fois dans ses homélies, il s’ éleva ouvertement contre ceux qui avaient ordonné le meurtre en affirmant que le ministère du défunt curé était fondé sur l’Évangile. 

Ainsi commenca la longue nuit de tristesse et de solitude de l’archevêque, une période au cours de laquelle il continua à annoncer des paroles d’espoir et de pardon tout en faisant de fortes dénonciations et en exigeant justice pour les victimes de tous les actes criminels qui pour plus d’une décennie trainait le pays dans une spirale continue de violence et de cruauté, qui ensanglatait tout le pays.

Le martyre

En cette date du 24 mars, 41 ans sont passés depuis l’assassinat de Mgr Óscar Arnulfo Romero y Galdámez, archevêque de San Salvador, capitale de l’État du même nom ; car l’assassinat eut lieu dans la soirée du lundi 24 mars 1980, à 6 et 27 minutes, dans la chapelle de l’hôpital de la Divine Providence, un petit hôpital pour les malades en phase terminale dans lequel Mgr Romero avait décidé de vivre après sa nomination comme archevêque de San Salvador, pour vivre pauvre parmi les pauvres. 

Vers la fin de la dernière homélie de l’archevêque, alors qu’il commentait les lectures et surtout les versets de l’Évangile de Jean 12 : 23-26 – « À moins qu’un grain de blé ne tombe dans la terre et meurt, il ne reste qu’un seul grain ; mais s’il meurt, il donne une riche moisson » – en se référant à un passage de la Constitution du Concile sur l’Église intitulé Gaudium et spes, un homme armé inconnu apparut à la porte de la petite chapelle. Il tira et tua l’archevêque d’une seule balle dans le cœur. Les derniers mots de l’archevêque avant de mourir étaient sur l’espérance. Ses propres mots furent : 

« Celle-ci est l’espérance qui nous soutient, nous les chrétiens. Nous savons que tout effort pour améliorer la société, surtout quand l’injustice est si grande, est un effort que Dieu bénit, que Dieu veut, que Dieu exige de nous ».

Je suis pleinement convaincu que, dans l’Amérique latine d’aujourd’hui, cette espérance qui vient de l’Evangile est toujours fondamentale pour tous les disciples de Jésus-Christ et, bien sûr, pour nous, missionnaires ad gentes, aussi, qui témoignons la miséricorde du Seigneur par l’annonce de la Bonne Nouvelle dans un contexte sombre qui continue d’être ravagé par les conflits et la violence. Les injustices sociales persistent derrière tout cela. Malheureusement, elles sont aujourd’hui exacerbées par le fléau de la pandémie covid-19 qui aggrave la crise socio-économique qui, à son tour, crée des conditions de vie plus difficiles et plus douloureuses pour les plus pauvres de la société latino-américaine.

Alessandro Feruglio sx

 

Alessandro Feruglio sx
05 March 2021
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