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Alcune sfide urgenti per il futuro del nostro Istituto

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Mi è stato chiesto, e volentieri condivido alcune riflessioni nel cammino di preparazione al prossimo Capitolo generale (CG) della nostra Famiglia. Preferisco rispondere e concentrarmi su due domande: cosa chiedo al Capitolo, cosa mi aspetto; e quali sono – secondo me – le scelte importanti ed urgenti per il cammino futuro della nostra Famiglia.

Se devo essere sincero quando per la prima volta ho letto il motto del XVIII CG (Amare la nostra vocazione saveriana) sono rimasto allibito. Questo tema lo vedrei più come tema di un convegno fatto magari in preparazione ad un CG, sulla falsariga di quanto è stato fatto per il XV CG (2007) preceduto dal convegno sulla spiritualità saveriana nel lontano 2006.

Il CG dovrebbe essere una assemblea munita di poteri elettorali, legislativi, amministrativi e giudiziari, incaricata di definire le basi della vita anche spirituale dell’istituto ma non soltanto. Dovrebbe anche essere lo strumento per eccellenza per controllare unificare ed equilibrare le forze in gioco, cioè coloro che sono eletti per governare ed i governati che li hanno eletti.

Spero innanzitutto che in questo Capitolo non ci sia una riesumazione e ripetizione di riflessioni già fatte e strafatte sul CARISMA SAVERIANO (basta leggere i non pochi interventi fatti e scritti sulla Lettera Testamento). Credo che la cosa più importante che questo capitolo dovrà fare sia quella di rimodellare in modo nuovo le basi fondanti della vocazione saveriana in rapporto agli imprinting culturali non più omogenei dei membri della Congregazione.

A volte diamo per scontata la universalità di una proposta vocazionale che, nata nei suoi valori fondanti alla fine del 1800 ed inizi del 1900, non sembra a mio avviso, essere stata sufficientemente rielaborata o meglio rinnovata con valenze più attuali.

Ad esempio, nelle nostre riflessioni si sente parlare di FAMIGLIA, di POVERTÀ, di CASTITÀ, di OBBEDIENZA… Ma quali accezioni dare a queste parole visto che questo concetto nelle varie culture è visto e considerato con dinamiche diverse non tanto concettualmente ma soprattutto nel vivere quotidiano? Diamo per scontata una uniformità di visione pur sapendo, per esperienza, la impossibilità di avere un sentire comune. Quanti salti mortali abbiamo fatto e continuiamo a fare per continuare una strada che si fa sempre più stretta ed impercorribile?

Un altro argomento su cui vorrei ben più di una riflessione è quello legato alla vecchiaia (dico di proposito vecchiaia che viene spesso esorcizzata con il termine anzianità) e quello ancor più complesso legato alla malattia e alla perdita della propria autosufficienza sia fisica che mentale (deterioramento cognitivo). Non credo di essere fuori tema nel proporlo in una congregazione che al 50% ha dei membri che possono essere considerati “vecchi” in termini di età! E non credo di essere lontano dal vero nell’affermare che i passati Capitoli Generali hanno sì prodotto riflessioni ed esortazioni ma nulla dal punto di vista legislativo, amministrativo ed organizzativo, cioè decisionale.

Non vorrei dirlo troppo forte, ma nei miei dodici anni passati in Casa Madre al IV piano, non ho mai trovato una seria presa di coscienza delle non poche riflessioni non solo dette, ma anche scritte in quegli anni, e che dovrebbero essere presenti negli archivi.

Qui riporto soltanto il finale del mio intervento sull’argomento al Capitolo Generale del 2013 che ha avuto come reazione un “agghiacciante” applauso e niente più. Dicevo e scrivevo:

“A conclusione di questo mio intervento mi permetto una domanda provocatoria: Non potrebbe la scelta di condividere con gli ammalati e gli anziani dei vari RSA (Residenza Sanitaria Assistenziale) od ospizi sparsi sul territorio delle nostre regioni, essere una scelta di condivisione di vita, una scelta missionaria nel vero senso della parola? Non potrebbe essere anche questa considerata una continuazione della missione a cui potremmo essere chiamati quando l’età e la malattia ci renderanno inabili alla missione attiva che abbiamo vissuto fino a ieri nei vari paesi del mondo?

Qualcuno nel sentire questa mia proposta potrebbe sorridere ma vorrei invitarvi ad iniziare una riflessione seria. Una scelta come questa sarebbe una scelta dirompente, sarebbe la scelta non di suicidarsi ma di immolarsi per rendere visibili e reali quei valori che abbiamo predicato e che diciamo di aver voluto scegliere accettando la professione dei consigli evangelici. È davvero una proposta senza senso? Non potrebbe essere questa una risposta alla domanda sulle modalità della missione a cui siamo chiamati quando avremo perso la nostra autonomia e le nostre migliori energie vitali?”

E dopo 10 anni da questa utopica proposta cosa potrei di nuovo proporre?

Siamo, infatti, ormai in forte ritardo. È mancato il coraggio decisionale legislativo, amministrativo ed organizzativo di enucleare delle proposte concrete rimanendo ancorati alla falsa sicurezza che il prevedibile “ciclone” dell’invecchiamento e delle malattie ci avrebbe in qualche modo risparmiato. Purtroppo, e non solo in questo, si continua a procedere costantemente in emergenza.

A questo riguardo, vorrei aggiungere, quasi come una appendice, un nuovo argomento da prendere in considerazione: le DAT, cioè Disposizioni Anticipate di Trattamento.

Cosa sono?

In previsione di un'eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle proprie scelte, la Legge prevede la possibilità per ogni persona di esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto su: accertamenti diagnostici, scelte terapeutiche e singoli trattamenti sanitari.

Possono fare le DAT tutte le persone che siano maggiorenni e capaci di intendere e di volere.

Le disposizioni anticipate di trattamento, comunemente definite "testamento biologico" o "biotestamento", sono regolamentate, in Italia, dall’art. 4 della Legge 219 del 22 dicembre 2017, entrata in vigore il 31 gennaio 2018.  Per saperne di più sul tema vedi qui.

Perché accenno a questo?

Negli anni passati al IV piano e ancora oggi, nei momenti in cui ci si confronta con la malattia ho trovato troppo spesso un comprensibile disorientamento quando si viene richiesti di manifestare un consenso ad interventi medici, chirurgici o altro.                

Per rendere il mio concetto più chiaro riporto l’esempio di P. Zucchinelli che, colpito dalla SLA (Sclerosi laterale Amiotrofica), aveva espresso davanti a due medici specialisti e al sottoscritto la volontà di non essere tracheotomizzato e quindi intubato nella eventualità di una paralisi respiratoria causata dalla sua malattia (la SLA). Questo è un esempio di DAT.

Ho sofferto ogni volta che sono stato chiamato a decidere della vita degli altri nel rispetto di aridi protocolli, senza conoscere nulla di quanto il malato stesso poteva desiderare o chiedere. Ho ancora nella memoria giorni e giorni di sofferenze prima dell’ultimo respiro perché il protocollo mi imponeva di continuare a far “sopravvivere” chi era ormai senza speranza. Tengo a precisare che non sto parlando di EUTANASIA quanto di una sorta di compartecipazione alle decisioni che qualcuno potrebbe essere chiamato a fare per noi in probabili momenti critici del nostro “fine vita”. 

A questo proposito mi è venuta alla memoria l’“apparecchio alla buona morte” che recitavamo mensilmente durante il noviziato. Non potrebbe essere interpretato come un inizio embrionale di ciò che oggi chiamiamo DAT?

Spero vivamente di non essere frainteso in quanto sto scrivendo. Il mio è un invito affinché ci si accorga di questa realtà ancora sconosciuta.

Quando, quasi scherzando, affermo di aver avuto una vita piena e che quindi la morte non verrebbe a rubarmi nulla, qualcuno mi prende per spostato, come se fossi un aspirante suicida; mi accorgo così come queste parole pronunciate istintivamente rivelano in profondità il mio rapporto con il passato ed il presente, nella apertura al futuro.

Parecchi anni fa, una parente di Padre De Cillia mi aveva pregato di scannerizzare un librettino dal titolo Suor Emmanuelle. Ricordo ancora una frase che facilmente mi è rimasta nel subconscio: «Non ho mai sentito la vita vuota e sono persuasa che ovunque ci si trovi, anche soli, ammalati, in un letto d’ospedale, ci si può sempre interessare agli altri, alle persone che ci circondano, e si può pregare» (Suor Emmanuelle, Sono una delle donne più felici della terra, Cinisello Balsamo 2011, p. 47). Per non essere o sembrare troppo negativo, grazie a Dio sono testimone che più di un saveriano che è passato al IV piano ha percorso questa strada!

E ancora oggi, ritrovandomi senza parole o medicine per dare sollievo a chi giace su un letto di sofferenza continuo a consigliare la preghiera, qualunque preghiera: quella cioè che mettendoci in contatto con Dio ci aiuta a riscoprire noi stessi.

E concludo

Quanto scritto porta in sé il vissuto dei 14 anni passati nel servizio ai confratelli toccati in diversi modi dalla malattia e dalla vecchiaia. Come dicevo sopra è stata una vita piena come quella vissuta in Bangladesh pur nelle situazioni e nelle diverse modalità in cui mi sono trovato.

Buon lavoro. E mi scuso per aver divagato troppo su temi che comunque mi stanno a cuore.

dott. Gildo Coperchio


Some urgent challenges for the future of our Institute

I have been asked to share some reflections on the path of preparation for the next General Chapter (GC) of our Family. I prefer to respond and focus on two questions: what I am asking of the Chapter; what I expect; and what are - in my opinion - the important and urgent choices for the future journey of our Family.

To be honest, when I first read the theme of XVIII GC (Loving our Xaverian Vocation), I was surprised. I saw this theme more as a preparatory conference for a GC, as what was done for XV GC (2007), preceded by the conference on Xaverian spirituality in 2006.

The GC should be an assembly with electoral, legislative, administrative and judicial powers, responsible for defining the foundations of the life of the institute, including but not limited to its spiritual life. It should also be the instrument par excellence for controlling and balancing the forces at work, namely the elected who govern and the governed who have elected them.

I hope above all that this Chapter will not be a re-exhumation and repetition of reflections already made and re-made on the XAVERIAN CHARISM (one only has to read the numerous interventions made and written on the Testament Letter). I believe that the most important thing that this Chapter will have to do is to remodel in a new way the founding bases of the Xaverian vocation in relation to the cultural imprint that is no longer homogeneous of the members of the Congregation.

Sometimes we take for granted the universality of a vocational proposal which, born in its founding values at the end of the 1800s and the beginning of the 1900s, does not seem, in my opinion, to have been sufficiently reworked or rather renewed with more current values.

For example, in our reflections, we hear about FAMILY, POVERTY, CHASTITY, OBEDIENCE... But what meaning should we give to these words, given that this concept is seen and considered with different dynamics in the various cultures, not so much on a conceptual level, but above all in everyday life. How many somersaults have we made and continue to make in order to pursue a journey that is becoming increasingly narrow and impassable?

Another theme I would like to reflect on is that of old age (I say old age willingly, which is often substituted by the term seniority) and the even more complex theme of illness and loss of autonomy, both physical and mental (cognitive deterioration). I don't think I'm out of line in proposing this in a congregation that has 50% of its members who can be considered "old" in terms of age! And I don't think I am far off the subject in saying that past General Chapters have produced reflections and exhortations but nothing in terms of legislation, administration and organisation, i.e. decision making.

I don't want to say this too loudly, but in the twelve years I have been at the Motherhouse on the fourth floor, I have never seen any serious consideration of many of the reflections that have been not only spoken but also written during those years and which should be in the archives.

I report here only the end of my speech on the subject at the 2013 General Chapter, which received "chilling" applause and nothing more. I said and wrote:

"At the end of my speech, I would like to ask a provocative question: could not the choice of sharing with the sick and elderly in the various RSA (Residenza Sanitaria Assistenziale) or hospices scattered throughout our regions be a choice of sharing life, a missionary choice in the true sense of the word? Couldn't it also be a continuation of the mission to which we might be called when age and illness render us incapable of the active mission we have lived until yesterday in the various countries of the world?

Some may smile at my proposal, but I would like to invite you to start thinking seriously. Such a choice would be a disruptive choice, it would be the choice not to commit suicide but to immolate ourselves in order to make visible and real the values that we have preached and that we say we wanted to choose by accepting the profession of the evangelical counsels. Is this really an empty proposal? Is it not an answer to the question of how we are called to mission when we have lost our autonomy and our best vital energies?”

And ten years after this utopian proposal, what else could I propose?

In fact, we are long overdue. We have not had the legislative, administrative and organisational courage to make concrete proposals, remaining anchored in the false security that the predictable "cyclone" of ageing and illness would somehow spare us. Unfortunately, and not only in this respect, we continue to act in a constant state of emergency.

In this respect, I would like to add, almost as an appendix, a new topic for reflection: ATAs, or (Advance Treatment Arrangements).

What are these?

In anticipation of a possible future incapacity to self-determine and after having obtained adequate medical information on the consequences of one's choices, the law provides for the possibility for each person to express his or her wishes regarding medical treatment, as well as his or her consent or refusal regarding: diagnostic tests, therapeutic choices and individual medical treatments.

ATAs can be drawn up by any person of full age and capable of discernment. Advance treatment provisions, commonly known as "Biological Will" or "Biotestament", are regulated in Italy by Article 4 of Law 219 of 22 December 2017, which entered into force on 31 January 2018. For more information on the subject, click here.

Why do I mention this?

In my years on the IV floor and still today, when confronted with illness, I have too often experienced understandable disorientation when asked to give consent to medical, surgical or other interventions.                

To clarify my point, I will cite the example of P. Zucchinelli who, suffering from ALS (amyotrophic lateral sclerosis), had expressed to two specialist doctors and myself the wish not to be tracheotomised and therefore intubated in case of respiratory paralysis caused by his disease (ALS). This is an example of ATA.

I have suffered every time I have had to decide on the life of another person according to arid protocols, without knowing anything about what the patient himself might want or ask. I still remember days and days of suffering before my last breath because the protocol required me to continue to make the person "survive" without hope. I want to make it clear that I am not talking about euthanasia but rather a form of co-participation in the decisions that someone might be called upon to make for us at the likely critical moments of our "end of life".

In this regard, I was reminded of the "Good Death Prayer" that we recited every month during the novitiate. Could it not be interpreted as an embryonic beginning of what we now call the ATA?

I sincerely hope that what I am writing is not misunderstood. It is an invitation to become aware of this still unknown reality.

When, almost jokingly, I say that I have had a full life and that, therefore, death would not come and steal anything from me, some people take me for a madman, as if I were a potential suicidal person; I realise how deeply these words, spoken in the abstract, reveal my relationship with the past and the present, in my openness to the future.

A few years ago, someone close to Father De Cillia asked me to scan a small book entitled Sister Emmanuelle. I still remember a sentence that easily remained in my subconscious: "I have never felt life to be empty and I am convinced that where one is, even alone, sick, in a hospital bed, one can always be interested in others, in the people around one, and one can pray" (Suor Emmanuelle, Sono una delle donne più felici della terra, Cinisello Balsamo 2011, p. 47).

In order not to be or seem too negative, I thank God that more than one Xaverian who has passed to the fourth floor has undertaken this path!

And even today, finding myself without words or medicine to relieve those who lie on a bed of suffering, I continue to recommend prayer, any prayer: that is to say, the one that, by putting us in contact with God, helps us to rediscover ourselves.

And I conclude

What I have written carries with it the experience of 14 years spent in the service of confreres affected in different ways by illness and old age. As I said earlier, it has been as full a life as I have lived in Bangladesh, despite the different situations and paths in which I have found myself on.

Good work. And I apologise for straying too far from the topics that are close to my heart.

Dr Gildo Coperchio


Quelques défis urgents pour l'avenir de notre Institut

On m'a demandé de partager quelques réflexions sur le chemin de préparation du prochain Chapitre Général (CG) de notre Famille. Je préfère répondre et me concentrer sur deux questions : ce que je demande au Chapitre ; ce que j'attends ; et quels sont - à mon avis - les choix importants et urgents pour le chemin futur de notre Famille.

Pour être honnête, lorsque j'ai lu pour la première fois le thème du XVIIIe CG (Aimer notre vocation xavérienne), j'étais surpris. Je voyais plutôt ce thème comme celui d'une conférence préparatoire à un CG, à l'instar de ce qui a été fait pour le XVe CG (2007), précédé par la conférence sur la spiritualité xavérienne en 2006.

Le CG devrait être une assemblée dotée de pouvoirs électoraux, législatifs, administratifs et judiciaires, chargée de définir les fondements de la vie de l'institut, y compris sa vie spirituelle, mais pas seulement. Il devrait également être l'instrument par excellence pour contrôler et équilibrer les forces en présence, à savoir les élus qui gouvernent et les gouvernés qui les ont élus.

J'espère avant tout que ce chapitre ne sera pas une ré-exhumation et une répétition de réflexions déjà faites et refaites sur le CHARISME XAVERIEN (il suffit de lire les nombreuses interventions faites et écrites sur la Lettre Testament). Je crois que la chose la plus importante que ce Chapitre devra faire est de remodeler d'une nouvelle manière les bases fondatrices de la vocation xavérienne en lien avec l'empreinte culturelle qui n'est plus homogène des membres de la Congrégation.

Parfois nous prenons pour acquis l'universalité d'une proposition vocationnelle qui, née dans ses valeurs fondatrices à la fin des années 1800 et au début des années 1900, ne semble pas, à mon avis, avoir été suffisamment retravaillée ou plutôt renouvelée avec des valeurs plus actuelles.

Par exemple, dans nos réflexions, nous entendons parler de FAMILLE, de PAUVRETÉ, de CHASTITE, d'OBÉISSANCE... Mais quel sens donner à ces mots, étant donné que ce concept est vu et considéré avec des dynamiques différentes dans les diverses cultures, non pas tant sur le plan conceptuel, mais surtout dans la vie de tous les jours. Combien de sauts périlleux avons-nous faits et continuons-nous à faire pour poursuivre une route qui devient de plus en plus étroite et impraticable ?

Un autre thème sur lequel je voudrais réfléchir est celui de la vieillesse (je dis à dessein la vieillesse, qui est souvent supplée par le terme ancienneté) et le thème encore plus complexe de la maladie et de la perte d'autonomie, physique et mentale (détérioration cognitive). Je ne pense pas être hors sujet en proposant cela dans une congrégation qui compte 50% de membres que l'on peut considérer comme "vieux" en termes d'âge ! Et je ne pense pas être loin de la vérité en affirmant que les Chapitres Généraux passés ont bien produit des réflexions et des exhortations mais rien en termes de législation, d'administration et d'organisation, c'est-à-dire de prise de décision.

Je ne veux pas le dire trop fort, mais au cours des douze années que j'ai passées à la Maison mère au IVe étage, je n'ai jamais vu une prise en compte sérieuse de nombreuses réflexions qui ont été non seulement prononcées mais aussi écrites au cours de ces années et qui devraient se trouver dans les archives.

Je ne rapporte ici que la fin de mon discours sur le sujet lors du Chapitre Général de 2013, qui a reçu des applaudissements " glaçants " et rien de plus. J'ai dit et écrit :

« Au terme de mon intervention, je voudrais poser une question provocatrice : le choix du partage avec les malades et les personnes âgées dans les différentes RSA (Residenza Sanitaria Assistenziale) ou hospices disséminés dans nos régions ne pourrait-il pas être un choix de partage de la vie, un choix missionnaire au vrai sens du terme ? Ne pourrait-on pas y voir aussi une continuation de la mission à laquelle nous pourrions être appelés lorsque l'âge et la maladie nous rendront incapables de la mission active que nous avons vécue jusqu'à hier dans les différents pays du monde ?

Certains pourraient sourire en entendant ma proposition, mais je voudrais vous inviter à entamer une réflexion sérieuse. Un tel choix serait un choix perturbateur, ce serait le choix non pas de se suicider mais de s'immoler pour rendre visibles et réelles les valeurs que nous avons prêchées et que nous disons avoir voulu choisir en acceptant la profession des conseils évangéliques. S'agit-il vraiment d'une proposition vide de sens ? Ne serait-ce pas une réponse à la question de savoir comment nous sommes appelés à la mission alors que nous avons perdu notre autonomie et nos meilleures énergies vitales ? »

Et dix ans après cette proposition utopique, que pourrais-je proposer de nouveau ?

En fait, nous sommes en retard depuis longtemps. Nous n'avons pas eu le courage législatif, administratif et organisationnel de faire des propositions concrètes, restant ancrés dans la fausse sécurité que le "cyclone" prévisible du vieillissement et de la maladie nous épargnerait d'une manière ou d'une autre. Malheureusement, et pas seulement en cela, nous continuons à agir constamment dans l'urgence.

À cet égard, je voudrais ajouter, presque en annexe, un nouveau sujet de réflexion : les DAT, ou (Dispositions Anticipées du Traitement).

De quoi s'agit-il ?

En prévision d'une éventuelle incapacité future à s'autodéterminer et après avoir obtenu des informations médicales adéquates sur les conséquences de ses choix, la loi prévoit la possibilité pour chaque personne d'exprimer ses souhaits en matière de traitement médical, ainsi que son consentement ou son refus concernant : les tests diagnostiques, les choix thérapeutiques et les traitements médicaux individuels.

Les DAT peuvent être établies par toute personne majeure et capable de discernement. Les dispositions relatives au traitement anticipé, communément appelées "Testament Biologique" ou "Biotestament", sont réglementées en Italie par l'article 4 de la loi 219 du 22 décembre 2017, qui est entrée en vigueur le 31 janvier 2018. Pour plus d'informations sur le sujet, voir ici

Pourquoi est-ce que je mentionne cela ?

Au cours de mes années passées au IVe étage et encore aujourd'hui, lorsque je suis confronté à la maladie, j'ai trop souvent constaté une désorientation compréhensible lorsqu'on me demande de donner mon consentement à des interventions médicales, chirurgicales ou autres.                

Pour clarifier mon propos, je citerai l'exemple de P. Zucchinelli qui, atteint de SLA (sclérose latérale amyotrophique), avait exprimé devant deux médecins spécialistes et moi-même le souhait de ne pas être trachéotomisé et donc intubé en cas de paralysie respiratoire causée par sa maladie (SLA). C'est un exemple de DAT.

J'ai souffert chaque fois que j'ai été amené à décider de la vie d'autrui selon des protocoles arides, sans rien savoir de ce que le patient lui-même pouvait vouloir ou demander. J'ai encore en mémoire des jours et des jours de souffrance avant mon dernier souffle parce que le protocole m'imposait de continuer à faire "survivre" la personne sans espoir. Je tiens à préciser que je ne parle pas d'euthanasie mais plutôt d'une forme de co-participation aux décisions que quelqu'un pourrait être appelé à prendre pour nous aux moments critiques probables de notre "fin de vie".

À cet égard, je me suis souvenu de « la prière de la bonne mort » que nous avons récitée tous les mois pendant le noviciat. Ne pourrait-on pas l'interpréter comme un début embryonnaire de ce que nous appelons aujourd'hui le DAT ?

J'espère sincèrement ne pas être mal compris dans ce que j'écris. Il s'agit d'une invitation à prendre conscience de cette réalité encore inconnue.

Lorsque, presque en plaisantant, j'affirme que j'ai eu une vie bien remplie et que, par conséquent, la mort ne viendrait pas me voler quoi que ce soit, certains me prennent pour un fou, comme si j'étais un suicidaire en puissance ; je réalise combien ces mots prononcés dans l'abstrait révèlent en profondeur mon rapport au passé et au présent, dans mon ouverture à l'avenir.

Il y a quelques années, un proche du Père De Cillia m'avait demandé de scanner un petit livre intitulé Sœur Emmanuelle. Je me souviens encore d'une phrase qui est facilement restée dans mon subconscient : " Je n'ai jamais senti la vie vide et je suis convaincue que là où l'on est, même seul, malade, sur un lit d'hôpital, on peut toujours s'intéresser aux autres, aux gens qui nous entourent, et on peut prier " (Suor Emmanuelle, Sono una delle donne più felici della terra, Cinisello Balsamo 2011, p. 47). Pour ne pas être ou paraître trop négatif, je rends grâce à Dieu, que plus d'un Xavérien qui est passé au IVe étage a parcouru ce chemin !

Et même aujourd'hui, me trouvant sans mots ni médicaments pour soulager ceux qui sont couchés sur un lit de souffrance, je continue à recommander la prière, n'importe quelle prière : c'est-à-dire celle qui, en nous mettant en contact avec Dieu, nous aide à nous redécouvrir nous-mêmes.

Et je conclus

Ce que j'ai écrit porte en soi l'expérience de 14 années passées au service de confrères touchés de différentes manières par la maladie et la vieillesse. Comme je l'ai dit plus haut, ce fut une vie aussi pleine que celle que j'ai vécue au Bangladesh, malgré les situations et les différents chemins dans lesquels je me suis trouvé.

Bon travail. Et je m'excuse de m'éloigner trop des sujets qui me tiennent pourtant à cœur.

Dr Gildo Coperchio


Algunos desafíos urgentes para el futuro de nuestro Istituto

Me han pedido, y comparto con gusto, algunas reflexiones sobre el camino de preparación del próximo Capítulo General (CG) de nuestra Familia. Prefiero responder y centrarme en dos cuestiones: ¿qué pido al Capítulo?, ¿qué espero?; y ¿cuáles son -en mi opinión- las opciones importantes y urgentes para el camino futuro de nuestra Familia?

Si he de ser sincero, cuando leí por primera vez el lema del XVIII CG (Amar nuestra vocación javeriana) me quedé asombrado. Yo vería este tema más bien como el tema de un congreso convocado tal vez en preparación de un CG, en la línea de lo que se hizo para la XV CG (2007) precedido por el congreso sobre espiritualidad javeriana allá por 2006.

El CG debería ser una asamblea con poderes electorales, legislativos, administrativos y judiciales, encargada de definir los fundamentos de la vida del instituto, incluida su vida espiritual, pero no sólo para ello, también debería ser el instrumento por excelencia para controlar, unificar y equilibrar las fuerzas en juego, a saber, los elegidos para gobernar y los gobernados que los eligieron.

Sobre cualquier otra cosa, espero que este Capítulo no sea una re-exhumación y repetición de reflexiones ya hechas y superadas sobre el CARISMA JAVERIANO (basta leer las no pocas intervenciones hechas y escritas sobre la Carta Testamento). Creo que lo más importante que este capítulo tendrá que hacer es remodelar de un modo nuevo las bases fundantes de la vocación javeriana en relación con las huellas culturales ya no homogéneas de los miembros de la Congregación.

A veces damos por supuesta la universalidad de una propuesta vocacional que, nacida en sus valores fundacionales a finales del 1800 y principios del 1900, no parece, en mi opinión, haber sido suficientemente reelaborada o. más bien, renovada desde valores más actuales.

Por ejemplo, en nuestras reflexiones oímos hablar de FAMILIA, POBREZA, CASTIDAD, OBEDIENCIA... Pero qué significados hay que dar a estas palabras, dado que estos conceptos son vistos y considerados con dinámicas diferentes en las distintas culturas, no tanto conceptualmente, sino sobre todo en la vida cotidiana. Damos por supuesta una uniformidad de visión, conociendo por experiencia la imposibilidad de tener un sentir común. ¿Cuántos saltos mortales hemos hecho y seguimos haciendo para continuar por un camino cada vez más estrecho e intransitable?

Otro tema sobre el que me gustaría reflexionar es el de la vejez (digo a propósito vejez, que a menudo se exorciza con el término ancianidad) y el tema aún más complejo ligado a la enfermedad y a la pérdida de la propia autosuficiencia, tanto física como mental (deterioro cognitivo). No creo estar fuera de tema al proponer esto en una congregación que cuenta con un 50% de miembros que pueden considerarse “viejos” en términos de edad. Y no creo estar lejos de la verdad al afirmar que los Capítulos Generales anteriores han producido reflexiones y exhortaciones, pero nada en términos de legislación, administración y organización, es decir, nada decisional.

No quiero decirlo muy en alto, pero en mis doce años en la Casa Madre, en el IV piso, nunca he encontrado una toma de conciencia seria respecto a las no pocas reflexiones que no sólo se dijeron, sino que también se escribieron durante esos años, y que deberían estar en los archivos.

Aquí sólo cito el final de mi intervención sobre el tema en el Capítulo General de 2013, que fue recibido con un “conmovedor” aplauso y nada más. Dije y escribí:

“Como conclusión de mi intervención quisiera hacer una pregunta provocadora: ¿La opción de compartir con los enfermos y los ancianos de las diversas RSA (Residencia Sanitaria Asistencial) u hospicios diseminados por nuestras regiones, no podría ser una opción para compartir la vida, una opción misionera en el verdadero sentido de la palabra? ¿No podría considerarse también una continuación de la misión a la que podríamos ser llamados cuando la edad y la enfermedad nos incapaciten para la misión activa que hemos vivido hasta ayer en los distintos países del mundo?

Algunos podrían sonreír al oír esta propuesta mía, pero quisiera invitarles a iniciar una reflexión seria. Una opción como ésta sería una opción disruptiva, sería la opción no de suicidarnos, sino de inmolarnos para hacer visibles y reales aquellos valores que hemos predicado y que decimos haber querido elegir al aceptar la profesión de los consejos evangélicos. ¿Es realmente una propuesta sin sentido? ¿No podría ser una respuesta a la pregunta sobre las modalidades de la misión a la que somos llamados cuando hayamos perdido nuestra autonomía y nuestras mejores energías vitales?”.

Y 10 años después de esta utópica propuesta, ¿qué podría volver a proponer?

De hecho, estamos en fuerte retardo. Nos ha faltado el coraje decisional legislativo, administrativo y organizativo para plantear propuestas concretas, quedándonos anclados en la falsa seguridad de que el previsible “ciclón” del envejecimiento y la enfermedad nos libraría de alguna manera. Desgraciadamente, y no sólo en esto, seguimos procediendo constantemente en emergencia.

A este respecto, me gustaría añadir, casi como apéndice, un nuevo argumento de reflexión: las DAT, es decir: Disposiciones Anticipadas de Tratamiento.

¿En qué consisten?

En previsión de una posible incapacidad futura para autodeterminarse y tras haber adquirido una información médica adecuada sobre las consecuencias de las propias opciones, la ley prevé la posibilidad de que cada persona exprese sus deseos en materia de tratamiento sanitario, así como el consentimiento o el rechazo sobre: pruebas diagnósticas, opciones terapéuticas y tratamientos sanitarios particulares.

Todas las personas mayores de edad con capacidad de comprensión y voluntad pueden hacer las DAT.

Las disposiciones anticipadas de tratamiento, comúnmente denominadas “testamento biológico” o “biotestamento”, están reguladas en Italia por el artículo 4 de la Ley 219 del 22 de diciembre 2017, que entró en vigor el 31 de enero 2018.  Para más información sobre el tema, click aquí

¿Por qué menciono esto?

En los años que pasé en la IV piso, y todavía hoy, cuando me enfrento a la enfermedad, he encontrado con demasiada frecuencia una comprensible desorientación cuando se pide que se exprese un consentimiento a intervenciones médicas, quirúrgicas o de otro tipo.                

Para aclarar mi concepto, citaré el ejemplo del P. Zucchinelli que, afectado de ELA (Esclerosis Lateral Amiotrófica), había expresado ante dos médicos especialistas y ante mí mismo el deseo de no ser traqueotomizado y, por tanto, entubado en caso de parálisis respiratoria provocada por su enfermedad (ELA). Este es un ejemplo de DAT.

He sufrido cada vez que me han llamado para decidir sobre la vida de otros según áridos protocolos, sin saber nada de lo que el mismo paciente pudiera querer o pedir. Todavía tengo en la memoria días y días de sufrimiento antes del último respiro porque el protocolo dictaba que tenía que seguir haciendo “sobrevivir” a quien para el cual ya no había esperanza. Me gustaría dejar claro que no estoy hablando tanto de EUTANASIA, sino de una especie de coparticipación en las decisiones que alguien podría estar llamado a tomar por nosotros en probables momentos críticos de nuestro “fin de vida”.

A este respecto, me ha venido a la memoria la práctica de “la preparación para la buena muerte” que recitábamos mensualmente durante el noviciado. ¿No podría interpretarse como un comienzo embrionario de lo que ahora llamamos DAT?

Espero sinceramente que no se me malinterprete en lo que escribo. Lo mío es una invitación a tomar conciencia de esta realidad aún desconocida.

Cuando, casi en broma, afirmo que he tenido una vida plena y que, por tanto, la muerte no vendría a robarme nada, alguien me toma por loco, como si fuera un aspirante al suicidio; me doy cuenta, entonces, de cómo estas palabras pronunciadas instintivamente revelan en profundidad mi relación con el pasado y el presente, en la apertura al futuro.

Hace varios años, un pariente del padre De Cillia me pidió que examinara un librito titulado Sor Emmanuelle. Todavía recuerdo una frase que se quedó fácilmente en mi subconsciente: “Nunca he sentido la vida vacía y estoy convencida de que dondequiera que estemos, incluso sola, enferma, en la cama de un hospital, siempre puedes interesarte por los demás, por la gente que te rodea, y puedes rezar” (Suor Emmanuelle, Sono una delle donne più felici della terra, Cinisello Balsamo 2011, p. 47). Para no ser ni sonar demasiado negativo, ¡gracias a Dios soy testigo de que más de un javeriano que ha pasado por el IV piso ha recorrido este camino!

Y aún hoy, cuando me encuentro sin palabras ni medicinas para dar alivio a quien yace en un lecho de sufrimiento, sigo recomendando la oración, cualquier oración: es decir, aquella que al ponernos en contacto con Dios nos ayuda a redescubrirnos.

Y concluyo

Lo que he escrito lleva en sí la experiencia de 14 años pasados al servicio de hermanos tocados de diversas maneras por la enfermedad y la vejez. Como he dicho más arriba, ha sido una vida tan plena como la que viví en Bangladesh, a pesar de las situaciones y los diferentes caminos en los que me encontré.

Buen trabajo. Y pido disculpas por haber divagado demasiado sobre temas que, sin embargo, tocan mi corazón.

Dr. Gildo Coperchio

Gildo Coperchio, sx
05 May 2023
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