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Settant’anni di presenza in Bangladesh

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I missionari saveriani arrivarono nell’allora Pakistan Orientale nel 1952, subentrando ai salesiani che avevano gestito la diocesi di Krishnanagar e ai gesuiti che invece dipendevano giuridicamente dall’arcidiocesi di Calcutta. Di fatto la divisione del sub-continente indiano aveva causato la ristrutturazione ecclesiastica dell’area. Le estremità orientali della diocesi di Krishnanagar (Kustia, Jessore e Khulna), così come quelle sud orientali dell’arcidiocesi di Calcutta (Satkhira), dall’agosto del 1947 non facevano più parte dell’India ma del nuovo Stato del Pakistan. Fu per questo che il 3 gennaio 1952 Pio XII eresse questi territori nella nuova diocesi di Jessore, affidandola alle cure dei saveriani. Dal 1956, la nuova diocesi sarà conosciuta come la diocesi di Khulna, una cittadina 60 km a sud-est di Jessore, oggi terzo centro urbano del paese.

La diocesi di Khulna

La diocesi attuale coincide con la divisione amministrativa omonima e comprende 10 parrocchie per un totale di circa 35mila cattolici. Questi, pur essendo in gran parte bengalesi, provengono in realtà da tre gruppi “culturali” distinti e separati. Ci sono i cristiani del vecchio distretto di Kustia, ora diviso nei distretti di Chuadanga e Meherpur, che discendono da un gruppo di musulmani nikari (una casta di pescatori, assimilata ai dalit) che nella seconda metà del XIX secolo si sono convertiti al cristianesimo anglicano per poi approdare al cattolicesimo. Ci sono poi i cristiani del sud-ovest del Bangladesh, quelli compresi nei distretti di Satkhira, Jessore, Jhineidah e Khulna, la cui provenienza è rishi, un gruppo di ex fuori casta, tradizionalmente dediti al lavoro della pelle, molto bassi nella scala sociale del Bengala. Infine c’è un ultimo gruppo di cristiani di provenienza namasudra, anch’essa una casta bassa di agricoltori, concentrati nei distretti di Jessore e Khulna.

Una situazione sociale disastrosa

Quando nel 1952 i saveriani iniziarono il loro lavoro, non esistevano preti locali e lo stesso vescovo, Dante Battaglierin (1904-1978), era straniero. Il Pakistan allora si dibatteva in una situazione sociale disastrosa. La miseria estrema della gente e la mancanza pressoché di ogni cosa assoggettava i missionari a privazioni di ogni tipo, senza peraltro la soddisfazione di vedere i frutti di tanto duro lavoro. L’attività con i rishi in genere e in particolare con quelli della parrocchia di Satkhira, che dal 1989 sarà divisa in due con l’erezione della parrocchia di Borodol, presentava difficoltà enormi. Questi cristiani avevano aderito alla Chiesa cattolica solo a partire dal 1937, cosicché la loro maturità cristiana lasciava molto a desiderare. Inoltre, la loro povertà li faceva poco sensibili a discorsi religiosi. Tuttavia, erano proprio i rishi che manifestavano un’apertura all’annuncio dei missionari, a differenza degli indù di casta alta e dei musulmani. Questa apertura di fondo dei rishi obbligava i missionari a lavorare con loro, nonostante le grandi difficoltà che ciò comportava. Spesso i padri che lavoravano a Borodol, Satkhirae Shimulia si lamentavano della mancanza di senso religioso della loro gente, consapevoli che i rishi erano attratti dalla necessità di soddisfare i propri bisogni materiali più che quelli spirituali. Con una teologia che vedeva nella conversione l’unico possibile frutto della presenza missionaria, i missionari erano scoraggiati e sul punto di mollare. Padre Bernacchi, ad esempio, nel 1969, quando richiesto di ritardare la partenza dal Pakistan così da assicurarsi un nuovo visto per poter rientrare successivamente, rifiutò la proposta, commentando: “Mi chiedo come puoi chiedermi di ricordare il Pakistan, … anche io ho il diritto a salvare la mia anima” (in C. Zene, The rishi of Bangladesh, p. 239). Tale era il suo scoramento dopo 2/3 anni passati come parroco a Satkhira. Liti continue, matrimoni irregolari, lotte intestine, la povertà endemica della gente e la conseguente attitudine a mendicare erano ciò che consumava la resilienza anche dei missionari più forti. Di conseguenza, i padri cambiavano di posto frequentemente, inficiando la stabilizzazione dei nuovi cristiani, che cercavano sicurezza e protezione.

Le novità del Concilio

Con le novità teologiche del Concilio Vaticano II, i missionari venivano provvisti di nuovi paradigmi di presenza. Alcuni saveriani cominciarono a prendere in seria considerazione la disastrosa situazione socio economica della gente, convinti che prima di parlare di religione bisognasse venir incontro ai loro bisogni materiali. Da ricordare al riguardo, nel 1967, il tentativo dei padri Mario Veronesi e Valeriano Cobbe. I due saveriani trasformarono la comunità cristiana di Shimulia, creando cooperative e gruppi di micro-credito e, soprattutto, attuando un ambizioso progetto di irrigazione, che avrebbe liberato cristiani, indù e musulmani, dal dominio dei latifondisti locali. Purtroppo entrambi questi missionari incontreranno una fine prematura e violenta. Nel 1971 p.Veronesi venne ucciso da soldati pakistani a Jessore mentre tentava di difendere un gruppo di cristiani. Due anni più tardi, lo stesso p. Cobbe verrà assassinato, presumibilmente da sicari assoldati dai locali proprietari terrieri che mal sopportavano la nuova libertà di quelli che erano stati veri e propri servi della gleba.

L’indipendenza del Bangladesh

Le prime due decadi dell’indipendenza del Bangladesh (dal 1971) furono segnate da grandi discussioni e attività. I saveriani scelsero i rishi come gruppo privilegiato della loro azione, e, nel tentativo di sviluppare nuovi modi di fare missione, un numero di esperienze chiamate “Le vie nuove” presero forma. A partire dalla fine degli anni ‘70, i padri Luigi Paggi e Pierluigi Lupi iniziarono la loro presenza in Chuknagar tra i rishi indù, con l’intento di offrire loro vie di liberazione tramite l’educazione. Ma “vie nuove”indicava non solo nuove attività ma anche il rinnovo di quelle tradizionali. Nel 1978, p.Antonio Germano venne assegnato a Borodol, e prima con p. Pietro Colombara e poi con p. Osvaldo Torresani, iniziò un programma aggressivo di trasformazione sociale che includeva il rifiuto di pratiche quali l’avvelenamento delle mucche e la consumazione di carni morte, alla base della loro intoccabilità. Questa era ritenuta infatti la conditio sine qua non per l’affrancamento sociale dei cristiani di Borodol.

Dagli anni ‘90 in poi, la Chiesa di Khulna registrò la crescita numerica del clero locale. Questo, poco a poco, venne a sostituire nelle parrocchie i saveriani, i quali ebbero l’occasione per nuove aperture ed esperienze. Alla fine degli anni ‘80, i saveriani aprirono così una nuova missione tra i tribali garo e koch mandai a Noluakuri, nel distretto di Mymensingh, 70 chilometri a nord di Dacca.

Nuovi tipi di presenza missionaria

Oltre alla presenza a Noluakuri, in quegli anni i saveriani iniziarono l’attività di formazione di nuovi missionari. Altri ancora, con il supporto più o meno esplicito della comunità saveriana, intraprenderanno nuovi tipi di presenza missionaria. Mi riferisco alle attività di dialogo interreligioso, di artigianato tra le donne; alla presenza tra iragazzi di strada e tra i tribali munda di Satkhira; alla missioni dei chirurghi italiani a Khulna, alla presenza tra i malati e le prostitute della stazione ferroviaria di Dacca; all’attività editoriale a Dacca e, infine, alla presenza tra i tribali buddhisti della Chittagong Hill Tracts. L’attività sanitaria che fin dagli inizi con il Fatima Hospital aveva dato vita ad un’altra grande tradizione saveriana, continuerà in altre strutture ospedaliere del paese.

Nell’ultima decade, nonostante le tante morti, l’età ormai avanzata di tanti e la mancanza di personale di ricambio, i saveriani del Bangladesh hanno cercato di mantenere le posizioni, con il risultato di aumentare la dispersione del personale missionario.

Un tentativo di bilancio

Sebbene fare valutazioni sia sempre arduo, la quasi settantennale presenza saveriana nel Pakistan Orientale prima e nel Bangladesh poi, richiede uno sforzo di auto comprensione. È indubbio che i saveriani abbiano creato e fatto crescere la Chiesa di Khulna, in tutte le sue componenti. La diocesi di Khulna oggi è autonoma e indipendente dai saveriani, che vi lavorano come semplici ausiliari. Khulna è stata, fino ai primi anni ‘90, il luogo esclusivo dell’impegno missionario dei saveriani, e se a livello di plantatio ecclesiae può essere considerata un successo, dal lato più strettamente missionario rimane ancora una realtà in evoluzione. L’apertura missionaria che tanti saveriani vorrebbero vedere a Khulna non è ancora una realtà evidente. L’attenzione preferenziale per gruppi marginali come i rishi, sembra non essere ancora operativa. Molto attenta alla dimensione sacramentale e celebrativa, la Chiesa di Khulna sembra meno interessata alla dimensione profetica e di testimonianza. Con una popolazione cristiana che corrisponde allo 0,2 per cento della popolazione della diocesi, questa è ancora troppo concentrata su se stessa, con poco o nessun interesse verso le masse non cristiane tra cui vive. Nonostante grandi trasformazioni e miglioramenti, la diversità delle sue componenti (nikari, rishi, namasudra) è riflessa anche nel suo clero, dove facilmente essa diventa discriminazione e nepotismo. Ovviamente la responsabilità perqueste piaghe non può che essere anche nostra, cattivi maestri.

Verso una missione “liquida”?

I saveriani hanno lavorato e tuttora lavorano oltre i confini di Khulna. Da una centralizzazione geografica (tutti a Khulna) e politica (tutti nella pastorale tradizionale) si è passati negli anni ad una realtà senza centro geografico, oltre l’attività pastorale che fino agli inizi degli anni ‘90 era l’unica possibile. La moltiplicazione e frammentazione delle attività degli ultimi vent’anni rispecchiano, presumo, la diluizione e allo stesso tempo l’allargamento del concetto di missione, che dalla perdita dell’elemento proselitista, è potuta diventare qualsiasi cosa. La liquidità del concetto di missione si è così incontrata con la liquidità dei missionari che hanno informato la missione secondo i propri desideri, a scapito forse della componente comunitaria, pur importante nella definizione del concetto di missione (cfr. RM 26-27).

Dalla fine della missione “coloniale” un nuovo inizio?

Nonostante gli sforzi e le buone intenzioni dei suoi missionari, la Chiesa del Bangladesh sembra essersi incamminata verso la stessa meta che le sorelle occidentali stanno già raggiungendo: quella della insignificanza e marginalità sociale. Al momento, la Chiesa di Khulna, ma potremmo dire del Bangladesh, resiste ancora come cittadella cristiana, ma tutto lascia presagire che sia solo questione di tempo, e che anch’essa dovrà affrontare la realtà di una società sempre più indifferente ai suoi valori e prospettive.

Di fatto la missione ottocentesca (coloniale) e le Chiese che essa ha originato, così come le Chiese da cui essa ha avuto origine, stanno per chiudere i battenti. La missione del futuro perderà forse la sua dimensione istituzionale ma guadagnerà in quella relazionale, di amicizia e solidarietà con le persone. Quest’ultima è, fin d’ora, ciò che mostra il successo della missione saveriana in Bangladesh più e oltre le cattedrali, gli ospedali e le scuole che prima o poi saranno circondate dal deserto. Il futuro rimane nebuloso ma certamente le nuove presenze missionarie dovranno essere, a differenza del passato, piccole e umili, snelle e soprattutto specializzate, lontane dal potere e dai soldi, aperte alla condivisione e all’accoglienza, oltre ogni cittadella e ghetto di sorta.

Sergio Targa sx

Sergio Targa sx
11 Enero 2022
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