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Per una "cultura missionaria" dell'incontro

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Una grande storia da costruire - 2

(In cammino verso il XVII CG) 

«Voi non avete solo una gloriosa storia da ricordare e da raccontare, ma una grande storia da costruire! Guardate al futuro, nel quale lo Spirito vi proietta per fare con voi ancora cose grandi » (Vita Consecrata 110)

Come missionari, avere una storia da ricordare, raccontare e da costruire, significa essere e sentirsi parte della storia della Salvezza, umili strumenti in un processo cominciato prima di noi e che ci sorpassa, evitando così di autodefinirsi come la genesi e l’apocalisse della missione. Oggi, come sempre, siamo semplicemente chiamati ad essere pronti, fedeli a Cristo, alla Chiesa, al nostro Istituto e all'uomo del nostro tempo (VC 110). In questa riflessione, considero uno degli elementi fondamentali di quel “fine unico che ci siamo proposti nel dare il nome alla Società e che ne forma la caratteristica”(RF 8) e al quale accennavo nell’editoriale in: https://dg.saveriani.org/it/comunicazioni/editoriale/item/una-grande-storia-da-costruire.

Per una “cultura missionaria” dell’incontro -

Nei documenti del XVI Capitolo Generale, al n. 51 leggiamo: «Il termine che più e meglio esprime tutto ciò che vogliamo dire con “primo annuncio”, è la parola “incontro”…». È un paragrafo che merita di essere riletto e meditato per intero, in quanto esplicita come l’amore di Cristo e la fedeltà al nostro carisma ci definiscono come missionari: catalizzatori dell’incontro di Cristo con l’altro. La qualità del missionario oggi si declina nella capacità di incontrare e nella cura di accompagnare l’umanità in tutti i suoi processi, per quanto duri e prolungati possano essere (cf. EG24), con la unica forza del Vangelo, affinché tutti ne possano ricevere beneficio.

Da un lato è uno stile evangelizzatore deciso a mantenere la distanza da quel modo oggi non più realistico e forse neppure auspicabile, di proporre Cristo e il Vangelo con la potenza delle opere. Dall’altro, ha bisogno di quella umiltà relazionale che fa del dialogo la prima ed essenziale regola. È uno stile evangelizzatore incarnato in una vita consacrata missionaria “pellegrina” (non turista), che conosce la direzione; leggera di bagagli e disposta a farsi cambiare dalle vicende che vive e incontra nel cammino; che non vive nei palazzi ma sulla strada della storia, luogo degli incontri, del dialogo e della carità (RFX 266). Quando smettiamo di incontrarci e di incontrare la gente, soprattutto i poveri, perdiamo l’ancoraggio alla cultura del popolo. Continuiamo a illuderci nella autosufficienza che ci viene dalle nostre grandi e belle strutture e non generiamo più. Se non ci coinvolgiamo in un rapporto interpersonale con i nostri interlocutori, tutto svanisce: né convinciamo né attraiamo.

Direi che nella nostra Congregazione – e non solo – questo è un problema culturale; di mentalità più che di comportamento; di esperienza più che di abilità; di affetto più che di ragionamento. Non si è cristiani, né si diventa missionari per le conclusioni di un ragionamento esatto, per una dimostrazione di verità, né per delle capacità tecniche o intellettuali. Abbiamo bisogno di missionari santi e profeti capaci di far vedere, senza artificiali spiritualismi, che Gesù Cristo è il patrimonio spirituale di cui dispongono! Niente altro. In sostanza, chi incontra un saveriano dovrebbe poter incontrare Cristo perché questo saveriano è già stato incontrato dal Risorto (EG 15). Mancando la sufficiente esperienza di Dio che sostenga un progetto di vita e ne garantisca il frutto, viene a mancare la vera radice della missione. La nostra è una crisi di radicamento e di radicalità, prima che di attività e di metodologie. Il primo cambiamento che ci è chiesto va ben oltre le attività o i programmi. Esso riguarda i fondamenti, ciò che rimane e dà stabilità in qualsiasi contesto storico o culturale. Perché ciò che ci definisce come saveriani “sta oltre” ed è di natura transculturale. È ciò che ci è stato donato in Gesù attraverso l’ispirazione e l’audacia confortiana. Quindi, il superamento della crisi non può che avvenire attraverso le persone, non nel cambio di muri o di documenti: “una riforma sarà efficace solo e unicamente se si attua con uomini rinnovati e non semplicemente con nuovi uomini … Senza un mutamento di mentalità lo sforzo funzionale risulterebbe vano” (Francesco, 22.12.2016).

Viene alla mente il coraggio del nostro santo fondatore, la sua audacia e anche quell’inevitabile pizzico di follia che ha fatto della sua persona un Vangelo vivo, capace di non sottrarsi ai problemi del suo tempo. La sua vita è stata un Vangelo vivo che non gli ha fatto temere di sperimentarsi nel nuovo, attraverso tanti incontri che hanno anche mutato la sua forma mentis. Un Vangelo vivo che lo ha reso capace di cogliere valori laddove gli altri vedevano solo disvalori; di riconoscere bellezze dove altri non erano in grado di scorgerle, di accogliere come gratificazioni ciò che altri consideravano seccature, di trasformare il dolore in amore e la croce in resurrezione. Osservando San Guido M. Conforti, capiamo come avere un carisma significhi avere la capacità di coinvolgersi, di andare all’incontro dove altri fuggono, di vedere cose che altri non vedono, o comunque di vederle in maniera diversa. «Infatti non è reale comunicazione della Fede la pura trasmissione materiale di un contenuto, ma la trasmissione del contenuto dal di dentro di una concreta esperienza credente. Ascoltando la prima predica cristiana di tutta la storia, i presenti si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro: “ Che cosa dobbiamo fare, fratelli?” (At. 2,37)» (Dianich S., Magistero in movimento. Il caso papa Francesco. EDB - 2016, 32).

Prossimamente affronterò un altro elemento fondamentale della nostra identità: la vita fraterna interculturale. È la modalità che esprime il modo dei saveriani di credere e di esercitare la missione; vera e propria scuola di relazioni che promuove il bene comune della Chiesa e dell’umanità intesa come Famiglia di Dio. 


 A great history still to be accomplished-2

(Preparing for the XVII General Chapter) 

«You have not only a glorious history to remember and to recount, but also a great history still to be accomplished! Look to the future, where the Spirit is sending you in order to do even greater things» (Vita Consecrata 110)

As missionaries, having a great history to remember, recount and build, means to be, and feel, part of Salvation history, humble instruments in a process that began before us and surpasses us, thus avoiding any temptation to define ourselves as the alpha and omega of the mission. Today, as always, we are simply called to be ready, faithful to Christ, the Church, our Institute and the men and women of our times (VC 110). In this reflection, I consider one of the fundamental elements of that “exclusive purpose and characteristic of the Society to which we have given our name”(FR 8) and which I mentioned in the editorial in: https://dg.saveriani.org/it/comunicazioni/editoriale/item/una-grande-storia-da-costruire.

For a “missionary culture” of encounter -

In the documents of the XVI General Chapter, no. 51, we read: «The word “encounter” is the best possible way of expressing what we mean by “first proclamation” …». This paragraph deserves to be reread and meditated in its entirety, insofar as it explicates how the love of Christ and fidelity to our charism define us as missionaries: facilitators of the encounter between Christ and others. The quality of the missionary today shows itself in the ability to encounter others and stand by people every step of the way, no matter how difficult or lengthy this may prove to be (cf. EG 24), with the sole strength that comes from the Gospel, so that all may benefit from it.

On the one hand it is an evangelizing style that resolutely keeps its distance from a way of presenting Christ and the Gospel through the power of works, a strategy that is no longer realistic or desirable. On the other hand, it needs a relational humility that makes dialogue the first and essential rule. It is an evangelizing style that is incarnated into the “pilgrim” (not tourist) consecrated missionary life, which knows the direction it must take; it carries little baggage and is open to being changed by the events it experiences and encounters during the journey; it does not live in palaces but on the streets of history, the place of encounters, dialogue and charity (RFX 266). When we cease to encounter each other and encounter people, especially the poor, we lose our anchor to the history of the people’s culture. We continue to deceive ourselves in the self-sufficiency that comes to us from our great and beautiful structures and we no longer generate life. If we do not get involved in an interpersonal relationship with our interlocutors, everything disappears: we neither convince nor attract.

I would say that this is a cultural problem in our Congregation (and not only); it is more a problem of mentality than of behavior; of experience more than of ability; of affection more than of thinking. We are not Christians, nor do we become missionaries, thanks to the conclusions of an exact reasoning, a demonstration of truth, or technical and intellectual abilities. We need holy missionaries and prophets who are capable of making others see, without artificial spiritualisms, that Jesus Christ, and nothing else, is our spiritual patrimony! Anyone who meets a Xaverian should be able to encounter Christ because this Xaverian has already been encountered by the Risen Christ (EG 15). In the absence of an adequate experience of God that sustains a life project and guarantees its fruits, the true roots of the mission are lost. Ours is a crisis of rootedness and radicalness,  before being a crisis of activity and methodology. The first change that is asked of us goes well beyond activities and programs. It concerns the foundations, that which remains and gives stability in any historical or cultural context because what defines us as Xaverians “lies beyond” and has a transcultural nature. It is what has been given to us in Christ through the inspiration and the audacity of Conforti. Therefore, overcoming the crisis can only happen through persons and not through new buildings or documents: “the reform will be effective only if it is carried out by men and women who are renewed and not simply newWithout a change of mentality, efforts at practical improvement will be in vain” (Pope Francis, Christmas greetings to the Roman Curia, 22 December 2016).

The courage of our Founder comes to mind, along with his audacity and also the inevitable touch of folly that made him a living Gospel, capable of facing the problems of his times head on. His life was a living Gospel that made him unafraid to try new things, through the many encounters that also changed his forma mentis. A living Gospel that made him capable of perceiving values where others saw only disvalues; to recognize beauty where others were unable to perceive it, to welcome as gratifications what others looked upon only as a nuisance, to transform suffering into love and the cross into resurrection. Observing St. Guido M. Conforti, we understand how having a charism means to have the ability to get involved, to go out towards others where others flee, to see things that others do not see, or in any case to see them in a different way. «In fact the pure material transmission of a message is not a real communication of the Faith, but the transmission of a message from within a concrete believing experience. Listening to the first Christian homily of all time, those present were cut to the heart and said to Peter and the other apostles: “ What are we to do, brothers?” (Acts 2:37)» (Dianich S., Magistero in movimento. Il caso papa Francesco. EDB, 2016, 32).

In the near future I will deal with another fundamental element of our identity: the intercultural fraternal life. It is the modality that expresses the Xaverian way of believing and living the mission; a true and proper school of relationships that promotes the common good of the Church and humanity understood as the Family of God. 


 Una gran historia a construir - 2

(En camino hacia el XVII CG) 

«¡Ustedes no solamente tienen una historia gloriosa que recordar y contar, sino una gran historia que construir! Pongan los ojos en el futuro, hacia el que el Espíritu les impulsa, para seguir haciendo con ustedes grandes cosas» (Vita Consecrata 110).

Come misioneros, tener una historia para recordar, contar y construir, significa ser y sentirse parte de la historia de la Salvación, humildes instrumentos en un proceso que empezó antes de nosotros y que nos supera, evitando así de autodefinirnos come el génesis y el apocalipsis de la misión. Hoy, come siempre, estamos simplemente llamados a estar preparados, fieles a Cristo, a la Iglesia, a nuestro Instituto y al hombre de nuestro tiempo (VC 110). En esta reflexión, trataré sobre uno de los elementos fundamentales de aquel “fin único que nos hemos propuesto al dar el nombre a la Sociedad y que es su característica” (RF 8) y al cual señalaba en el editorial en:

https://dg.saveriani.org/it/comunicazioni/editoriale/item/una-grande-storia-da-construire

Hacia una “cultura misionera” del encuentro

En los documentos del XVI Capítulo General n. 51 leemos: «El término que más y mejor expresa todo lo que queremos decir con “primer anuncio”, es la palabra “encuentro” …».  Es un párrafo que merece ser releído y meditado por entero, en cuanto que explícita cómo el amor de Cristo y la fidelidad a nuestro carisma nos definen come misioneros: catalizadores del encuentro de Cristo con el otro. La calidad del misionero hoy, se declina en la capacidad de encontrar y en la atención de acompañar a la humanidad en todos sus procesos, por muy duros y prolongados que puedan ser (cfr. EG 24) con la única fuerza del Evangelio, a fin de que todos puedan recibir su beneficio.

Por un lado, este es un estilo evangelizador decidido a mantener la distancia de aquel modo que hoy ya no es realista y quizás tampoco deseable: proponer a Cristo y el Evangelio con el poderío de las obras. Por otra parte, este estilo necesita aquella humildad relacional que hace del diálogo la regla primera y esencial. Este es un estilo evangelizador encarnado desde una vida consagrada misionera como “peregrinos” (no turistas) que conocen la dirección a seguir; ligera de equipaje y dispuesta a dejarse cambiar por los hechos que vive y encuentra en el camino; que no vive en palacios, sino en el camino de la historia, lugar de encuentros, de diálogo y de caridad (RFX 266). Cuando dejamos de encontrarnos y de encontrar a la gente, sobre todo a los pobres, perdemos el arraigo en la cultura del pueblo. Nos deslumbra la autosuficiencia de nuestras grandes y hermosas estructuras, pero no generamos nada. Si no nos involucramos en una relación interpersonal con nuestros interlocutores, todo se desvanece: ni convencemos ni atraemos.

Diría que en nuestra Congregación – y no sólo en ella – éste es un problema cultural; de mentalidad, más que de comportamiento; de experiencia, más que de habilidad; de afecto, más que de razonamiento. No se es cristiano, ni se llega a ser misioneros por las conclusiones de un razonamiento exacto, por la demostración de una verdad, ni por de las capacidades técnicas o intelectuales. ¡Tenemos necesidad de misioneros santos y profetas, capaces de hacer ver, sin espiritualismos artificiosos, que Jesucristo es el patrimonio espiritual que poseen! Ninguna otra cosa. En sustancia, quien encuentra a un Xaveriano debería poder encontrar Cristo, porque este Xaveriano ya ha sido encontrado por el Resucitado (EG 15). Faltando una suficiente experiencia de Dio que sustente un proyecto de vida y garantice sus frutos, falta la verdadera raíz de la misión. Nuestra crisis es una crisis de radicamento y de radicalidad, antes que de actividad y de metodologías. El primer cambio que se nos pide va más allá de las actividades o de programas; concierne a los fundamentos, a lo que permanece y da estabilidad en cualquiera contexto histórico o cultural. Porque lo que nos define come Xaverianos “está más allá” de actividades o de programas: es de naturaleza transcultural. Es lo que nos ha sido donado en Jesús a través de la inspiración y la audacia confortiana. Por tanto, la superación de la crisis no puede acontecer sino a través de las personas, no en el cambio de muros o de documentos: “una reforma será eficaz sólo y únicamente si se actúa con hombres renovados y no simplemente con hombres nuevos … Sin un cambio de mentalidad, el esfuerzo funcional resultaría vano” (Francisco 22.12.2016).

Viene a la mente, el coraje de nuestro santo fundador, su audacia y aquella inevitable pizca de locura que hizo de su persona un Evangelio vivo, capaz de no sustraerse a los problemas de su tiempo. Su vida fue un Evangelio vivo que no le hizo tener miedo a experimentarse en lo nuevo, a través de muchos encuentros que le cambiaron su forma mentis. Un Evangelio vivo que lo hizo capaz de acoger valores donde otros veían sólo desvalores; de reconocer la belleza donde otros no eran capaces de distinguirla, de acoger come gratificaciones lo que otros consideraban molestias, de transformar el dolor en amor y la cruz en resurrección. Observando a San Guido María Conforti, entendemos que tener un carisma significa tener la capacidad de involucrarse, de ir al encuentro allí donde otros huyen, de ver cosas que otros no ven o, en todo caso, de verlas en manera diferente. «En efecto, no es real comunicación de la Fe la mera transmisión material de un contenido, sino la transmisión del contenido desde dentro de una concreta experiencia creyente. Escuchando la primera homilía cristiana de toda la historia, los presentes sintieron traspasados su corazón y le dijeron a Pedro: “¿Qué tenemos qué hacer, hermanos? (He 2,37)» (Dianich S., Magistero in movimento. Il caso papa Francesco. EDB, 2016, 32).

Próximamente afrontaré otro elemento fundamental de nuestra identidad: la vida fraterna intercultural. Es la modalidad que expresa la manera de los Xaverianos de creer y de ejercer la misión; verdadera escuela de relaciones que promueve el bien común de la Iglesia y de la humanidad entendida come Familia de Dio. 


 Une grande histoire à construire - 2

(En marche vers le XVII CG)

Vous n’avez pas seulement à vous rappeler et à raconter une histoire glorieuse, mais vous avez à construire une grande histoire! Regardez vers l’avenir, où l’Esprit vous envoie pour faire encore avec vous de grandes choses. (Vita consecrata 110)

Comme missionnaires, se souvenir de son histoire, la raconter et la construire, signifie être et se sentir partie prenante de l’histoire du Salut, comme des humbles instruments dans un processus commencé avant nous et qui nous dépasse, en évitant ainsi de se considérer comme la genèse et l’apocalypse de la mission. Aujourd’hui, comme toujours, nous sommes appelés à simplement être prêts, fidèles au Christ, à l’Église, à notre Institut et à l’homme de notre temps (VC 110). Dans cette réflexion, je considère un des éléments fondamentaux de cette « finalité unique que nous nous sommes fixés au moment de donner notre nom à notre Société et qui en constitue la caractéristique » (RF 8). J’y faisais allusion dans l’éditorial :

https://dg.saveriani.org/it/comunicazioni/editoriale/item/una-grande-storia-da-costruire

Pour une « culture missionnaire » de la rencontre

Dans les documents du XVI Chapitre Général, au n. 51, nous lisons : « Le terme qui exprime davantage et mieux tout ce que nous entendons comme “première annonce” est la parole “rencontre” ». Ce paragraphe mérite d’être relu et médité dans son entièreté : il explicite comment l’amour du Christ et la fidélité à notre charisme nous définissent comme missionnaires : catalyseurs de la rencontre du Christ avec l’autre. La qualité du missionnaire aujourd’hui se décline dans la capacité de rencontrer et dans le soin d’accompagner l’humanité dans tous ses processus, même s’ils peuvent être durs et prolongés (cf. EG 24), avec la seule force de l’Évangile, afin que tous puissent en tirer du profit.

D’un côté, il s’agit de promouvoir un style évangélisateur qui garde ses distances de la manière de proposer le Christ et l’Évangile avec la puissance des œuvres car, de nos jours, ce style n’est peut-être ni réaliste ni souhaitable De l’autre côté, l’évangélisation a besoin de cette humilité relationnelle qui fait du dialogue la règle première et essentielle. C’est le style évangélisateur incarné dans une vie consacrée missionnaire « pèlerine » (non touriste), qui connaît la direction. Il est léger de bagages et disposé à se laisser convertir à partir des vicissitudes et des rencontres vécues. Il ne vit pas dans les palais mais sur la route de l’histoire, lieu des rencontres, du dialogue et de la charité. Quand nous cessons de nous rencontrer et de rencontrer les gens, surtout les pauvres, nous perdons l’ancrage à la culture du peuple. Nous continuons à nous faire des illusions dans l’autosuffisance qui nous vient de nos grandes et belles structures jusqu’à ne plus engendrer. Si nous ne nous impliquons pas en un rapport interpersonnel avec nos interlocuteurs, tout se perd : nous ne convaincrons ni attirerons personne.

Je dirais que dans notre Congrégation, et ailleurs, c’est bien un problème culturel : de mentalité plus que de comportement, d’expérience plus que d’habileté, d’affection plus que de raisonnement. On n’est pas chrétiens, ni on ne devient pas missionnaire suite aux conclusions d’un raisonnement exacte, ou à une démonstration de vérités, ni aux capacités techniques ou intellectuelles. Nous avons besoin de missionnaires saints et prophètes, capables de faire voir, - sans recourir à des spiritualismes artificiels,- que Jésus Christ est le patrimoine spirituel dont nous disposons. Rien d’autre. Bref, celui qui rencontre un Xavérien, il devrait pouvoir rencontrer le Christ parce que ce Xavérien a déjà été rencontré par le Ressuscité (cf. EG 14). Si vient à manquer une suffisante expérience de Dieu qui soutient un projet de vie et qui en garantit des fruits, manquera également la vraie racine de la mission. La nôtre est une crise d’enracinement et de radicalité, avant que d’activité ou de méthodologie. Le premier changement qui nous est demandé va bien au-delà des activités ou des programmes. Il concerne les fondements, ce qui reste et qui donne stabilité dans n’importe quel contexte historique ou culturel. Ce qui nous définit comme Xavériens « demeure au-delà » et il est foncièrement transculturel. Et c’est bien ce qui nous a été donné en Jésus à travers l’inspiration et l’audace confortienne. Donc le dépassement de la crise ne peut qu’avoir lieu à travers les personnes, non pas en changeant les murs ou les documents : « une réforme sera efficace seulement et uniquement si elle a lieu avec des hommes renouvelés et non simplement avec des nouvelles personnes. (…) Sans un changement de mentalité, l’effort fonctionnel finira par être inutile » (Francesco, 22.12.2016).

Souvenons-nous ici du courage de notre Saint Fondateur, de son audace et aussi de cet inévitable grain de folie qui a fait de sa personne un Évangile vivant, capable de ne pas se soustraire aux problèmes de son temps. Sa vie a été un Évangile vivant qui lui a donné la force d’expérimenter du nouveau, à travers beaucoup de rencontres qui ont changé même sa forma mentis. L’Évangile vivant l’a rendu capable de saisir les valeurs où les autres voyaient seulement les inconsistances ; de reconnaître les beautés où les autres n’étaient pas en mesure de les apercevoir, d’accueillir comme gratifications ce que les autres considéraient comme des ennuis, de transformer la douleur en amour et la croix en résurrection. En observant Saint Guido M. Conforti, nous comprenons qu’avoir un charisme signifie avoir la capacité de s’impliquer, d’aller à la rencontre là où les personnes fuient, de voir les choses que les autres ne voient pas, ou quand même, de les voir différemment. « En effet, la réelle communication de la Foi n’est pas tellement la transmission matérielle d’un contenu, mais la transmission du contenu du dedans d’une concrète expérience croyante. En écoutant la première homélie chrétienne de toute l’histoire, les présents se sentirent transpercer le cœur et ils dirent à Pierre : « Que devons-nous faire, frères ? (Ac 2,37) » (Dianich S., Magistero in movimento. Il caso papa Francesco, EDB, 2016, p. 32).

Prochainement, j’aborderai un autre élément fondamental de notre identité : la vie fraternelle interculturelle. C’est la modalité qui exprime la manière xavérienne de croire et d’exercer la mission. C’est une véritable école de relations qui promeut le bien commun de l’Église et de l’humanité entendue comme Famille de Dieu.

Eugenio Pulcini sx
05 Maggio 2017
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