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Pastorale Missionaria. Che Cos’è?

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Di “pastorale” si parla tanto, ma la si studia poco persino nei seminari: più che essere studiata o insegnata si esperisce, si impara facendo, un po’ come andare in bicicletta.

L’espressione “pastorale missionaria” è senza dubbio una tautologia, perché la Chiesa si definisce missionaria per sua natura (AG 2), quindi non può esserci un’attività pastorale che non sia già missionaria; ma è una tautologia utile, perché permette di collegare due aspetti dell’agire ecclesiale niente affatto evidenti, nonostante l’uso frequente che se ne fa, quelli appunto di pastorale e missione. Di “pastorale” in realtà se ne parla tanto, ma la si studia poco persino nei seminari: più che essere studiata o insegnata si esperisce, si impara facendo, un po’ come andare in bicicletta (passatemi l’esempio impertinente). Quanto poi alla “missione”, si evita accuratamente di parlarne nell’attività pastorale ordinaria, perché può distrarre dal qui e ora, rappresenta cioè una sorta di pericolosa fuga in avanti verso “terzi mondi” ignoti e lontani: in questi nostri paesi di cosiddetta “tradizione cristiana” (attualmente disciolta nella liquidità sociale) dobbiamo infatti constatare che i fidei donum sono una razza in via di estinzione e i “missionari ad gentes” sono relegati ai margini della realtà ecclesiale, sono un fenomeno di nicchia, ancora tenacemente abbarbicato a qualche attività terzomondista. 

LE TRE SITUAZIONI DELL’UNICA MISSIONE

È forse una visione un po’ troppo negativa, quella che ho sintetizzato in queste poche righe, ma non mi sembra che siano tempi felici, sia per l’attività pastorale sia per l’azione missionaria, anche se stranamente proprio il termine inglese mission è tornato in auge di recente, specie nel contesto imprenditoriale: non c’è azienda che non affermi con convinzione e impegno la sua mission. Noi no. Noi, che la mission l’abbiamo ricevuta nientemeno che da Dio, abbiamo quasi vergogna ad esporla, esitiamo a parlarne per non sembrare fondamentalisti o bigotti. Il problema è che non sappiamo bene cosa significhi il termine “missione” e, di conseguenza, abbiamo perso il suo legame profondo con la pastorale, cioè con la “normale” attività ecclesiale. La definizione tripartita, che Giovanni Paolo II usa nell’enciclica Redemptoris missio per distinguere la pastorale ordinaria dalla missione ad gentes e dalla nuova evangelizzazione, non sembra aver chiarito tale rapporto. In effetti, la distinzione che il documento propone tra queste tre “situazioni” dell’unica missione della Chiesa (cfr. RM 33) è un po’ forzata, dato che per sua stessa ammissione, i confini tra loro “non sono nettamente definibili” (RM 34). Resta quindi da precisare, una volta di più, cosa s’intende per attività pastorale e come si riconosce in quest’ultima la prospettiva missionaria.

riunire i dispersi

PASTORE, PASTORALE, PASTORIZIA: UNA RILETTURA

In ambito protestante, all’espressione “teologia pastorale” si preferisce quella più neutra di “teologia pratica”, per evitare di concentrare l’attenzione esclusivamente sull’attività dei pastori: è come se tra noi cattolici si parlasse di “teologia pretale”. 

In effetti, il termine “pastorale” non è di immediata evidenza e rimanda all’immagine agreste del gregge e del suo pastore, una visione diciamo pure desueta, in tempi in cui ciascuno è geloso, in maniera a volte esagerata, della propria individualità e libertà. 

Essere assimilati a una pecora, immersa nella massa anonima del gregge, da cui emerge esclusivamente la figura del pastore, non è il massimo delle aspirazioni per un cattolico o una cattolica odierni. Diventa allora necessario rileggere la distinzione proposta dalla Redemptoris missio tra i due concetti di “pastorale ordinaria” e di “missione ad gentes”: cosa li unisce, cosa li distingue, come si identificano? 

SACRAMENTO DI UNITÀ O DI DIVISIONE?

Cosa li unisce, dev’essere chiaro per tutti e chiarito una volta per tutte, non possiamo mettere in discussione che la missione della Chiesa è una e unica: essere strumento di unità per il genere umano in vista della salvezza, cioè della comunione con Dio, lo afferma il Concilio (LG 1; AG 1) e lo ribadisce la stessa enciclica (RM 9). Ora, chiarita la mission di questa nostra seppur povera, fragile e frammentata Chiesa, dovrebbe essere più semplice precisare i compiti delle sue diverse componenti, in vista dell’unico obiettivo. E invece no, è dai tempi della prima comunità di Corinto che noi cristiani abbiamo una formidabile capacità di complicarci la vita: sarebbe troppo facile concentrare gli sforzi di tutti sulla meta da raggiungere, piuttosto che sottolineare le differenze e dividerci in fazioni… quelli di Paolo, di Apollo, di Cefa, ma quale strumento di unità? Se c’è una cosa che sappiamo fare egregiamente è proprio essere sacramento di divisione.

COME IDENTIFICARE LA “PASTORALE MISSIONARIA”

Andiamo allora ad analizzare cosa distingue la pastorale ordinaria dalla missione ad gentes: sarebbe arduo sintetizzare qui in poche righe i lunghi e annosi dibattiti di vescovi e teologi, pastoralisti e missiologi, basti pensare che le discussioni sul decreto Ad gentes, il documento del Concilio Vaticano II sull’attività missionaria della Chiesa, sono durate tre anni e hanno richiesto tre rifacimenti totali e cinque revisioni. In realtà, se ci atteniamo strettamente alla mission descritta sopra, non è difficile identificare la frontiera tra le due prospettive: se per la “pastorale ordinaria” si presuppone una realtà di Chiesa già definita, con “adeguate e solide strutture ecclesiali” (RM 33), alla missione ad gentes è confidata proprio la fase precedente, cioè quella in cui non esiste ancora una comunità di fedeli e occorre formarla. Se questo è vero, alla cosiddetta “nuova evangelizzazione” spetta invece il compito di ricostruire il tessuto comunitario ecclesiale, proprio là dove si è lacerato e i battezzati “non si riconoscono più membri della Chiesa” (RM 33). In questa prospettiva non è più il contesto geografico e culturale a definire il carattere pastorale o missionario dell’attività intrapresa, ma la situazione ecclesiale, la comunità come soggetto pastorale da edificare, da far crescere o da ricostruire. 

COMUNITÀ CRISTIANA O ABITANTI DI UN TERRITORIO?

Mi rendo conto di abbozzare qui una proposta che avrebbe bisogno di ben più spazio per essere presentata in modo completo e articolato, ma per questi approfondimenti rimando al mio recente testo su questo tema (Riunire i dispersi. Lineamenti di pastorale missionaria, 2021). Qui mi limito a esporre alcune idee su quella che a mio avviso dovremmo considerare l’azione pastorale missionaria, cioè quella pratica ecclesiale volta a fare di un agglomerato di abitanti in un determinato territorio, una vera e propria comunità cristiana. Non posso infatti considerare “comunità”, dal punto di vista ecclesiale, la popolazione di un dato territorio, senza averne colto il grado di adesione alla fede e al vissuto ecclesiale, o il livello di coesione tra loro. In questo senso la “pastorale missionaria” non può coincidere con la celebrazione liturgica, con la catechesi o con l’attività caritativa, benché questi tre pilastri dell’attività ecclesiale siano indirettamente necessari all’edificazione della comunità. Per dirla in altre parole, non basta andare a messa per fare comunità, così come non basta mandare i figli a catechismo per sentirsi parte di una comunità, e neppure andare a far visita agli ammalati o aiutare gli svantaggiati, anche se queste pratiche aiutano a fare comunità. Per edificare una comunità occorre costruire un tessuto di relazioni efficaci, occorre farne un organismo vivo, le cui parti si conoscono e sanno agire insieme in maniera concorde e coordinata, insomma renderlo un soggetto pastorale unitario.

UN AUTENTICO SOGGETTO GIURIDICO

In un interessante libretto del 1970 il futuro papa Benedetto XVI scriveva, a proposito della comunità cristiana: “la Chiesa come tale, in concreto come specifica comunità, è soggetto giuridico, anzi l’autentico soggetto a cui tutto il resto si riferisce” (Democrazia nella Chiesa, 2005, p. 44). Edificare ogni specifica comunità come “soggetto giuridico”, non può essere lasciato all’improvvisazione né si può pensare che sia frutto di un processo spontaneo: occorre volerlo tenacemente e prepararsi a fondo per farlo, specie se questa fantomatica comunità dev’essere “l’autentico soggetto a cui tutto il resto si riferisce”. A questo punto il vero problema diventa cosa intendiamo effettivamente per “comunità cristiana”: il Codice di diritto canonico definisce la parrocchia una “comunità di fedeli” (can. 515). 

Il fatto è che, dopo averla definita così, non ne offre alcuna spiegazione e non ne tira alcuna conseguenza: mette l’etichetta e volta pagina. Riconosce cioè che la parrocchia è una comunità, ma non sa cosa sia quest’ultima né può inventarselo, perciò torna sui suoi passi e dice che “come regola generale, la parrocchia […] comprende tutti i fedeli di un determinato territorio” (can. 518) ed è rappresentata da un parroco (can. 532). E allora la comunità? Aspettiamo con speranza le prossime puntate, ma per ora non se ne fa nulla: nonostante le apparenze, la promettente definizione al can. 515 non introduce nessun nuovo soggetto giuridico, tutto resta com’era prima: la parrocchia in realtà non è una comunità di fedeli ma un territorio, cioè una “porzione” della diocesi, come si leggeva nel can. 216 della precedente edizione del Codice (1917). In questa prospettiva la comunità non è un soggetto, né dal punto di vista giuridico né da quello pastorale, è solamente un dato anagrafico territoriale, analogo al comune, come la provincia per la diocesi. Non serve edificarla: l’appartenenza avviene automaticamente per motivi residenziali. 

Quanto sia effettiva dal punto di vista pastorale, sociale e affettivo, è tutto da scoprire, ma di fatto l’unico legame previsto dal Codice tra il fedele e la comunità parrocchiale è il suo stato anagrafico.

ANIMATORI DI COMUNITÀ ECCLESIALI

Qualcuno invece sa dirmi chi sono gli “animatori delle comunità ecclesiali” a cui papa Francesco rivolge il suo accorato appello, nell’ultimo messaggio per la Giornata mondiale della Pace di quest’anno? I governanti, i responsabili politici e i pastori li conosciamo, ma questa nuova categoria mi sfugge: eppure se il papa ha voluto citarla subito dopo i pastori, qualcosa vorrà dire, non vi pare? Trovo estremamente curioso questo semplice accenno: volendo distinguere i pastori dagli “animatori di comunità”, ci viene detto anzitutto che i due ruoli non coincidono, quindi che il parroco e i suoi vicari (che riteniamo tutti “pastori”) non sono necessariamente gli animatori della comunità. Di più: nel maggio scorso il papa ha elevato a ministero l’antico ruolo del catechista con il motu proprio Antiquum ministerium, quindi neppure questa figura è assimilabile a quella dell’animatore di comunità. Dobbiamo forse cominciare a pensare ad una figura specifica, che si accolli il servizio pastorale di animare la comunità ecclesiale, farla crescere e maturare? Speriamo proprio di sì!

IL TEMPO DELLA MISSIONE È APPENA COMINCIATO

Se vogliamo dare un senso specifico all’espressione “pastorale missionaria”, al di là della tautologia cui accennavo all’inizio di questo articolo, dovremmo dire che si tratta dell’attività ecclesiale finalizzata all’edificazione o alla ricostruzione della comunità cristiana. Dobbiamo però considerare la comunità ecclesiale non come una figura anagrafica territoriale, a cui si appartiene automaticamente per residenza, ma come un organismo vivente, da costituire e far crescere. Non sarà quindi né la latitudine né il contesto a caratterizzare la pastorale missionaria: potrà svolgersi nel primo come nel terzo mondo, in situazioni di antica, recente o assente cristianità. Insomma non è finito il tempo della missione, anzi, è appena cominciato!


Pastoral Misionera. ¿Qué es?

En realidad, se habla mucho de “pastoral”, pero se estudia muy poco incluso en los Seminarios: más que estudiarse o enseñarse, se experimenta, se aprende haciendo, un poco como montar en bicicleta.


La expresión “pastoral misionera” es, sin duda, una tautología, porque la Iglesia se define como misionera por su propia naturaleza (AG 2), por ello, no puede haber una actividad pastoral que no sea ya misionera. Pero es una tautología útil, porque permite relacionar dos aspectos de la acción eclesial que no son nada evidentes, a pesar del frecuente uso que se hace de ellos: el de la pastoral y el de la misión. En realidad, se habla mucho de “pastoral”, pero se estudia muy poco incluso en los Seminarios: más que estudiarse o enseñarse, se experimenta, se aprende haciendo, un poco como montar en bicicleta (permitidme este ejemplo impertinente). En cuanto a la “misión”, evitamos cuidadosamente hablar de ella en la actividad pastoral ordinaria, porque puede distraernos del aquí y del ahora, es decir, representa una especie de peligrosa huida hacia delante, hacia “terceros mundos” desconocidos y lejanos: en estos países nuestros de supuesta “tradición cristiana” (actualmente disuelta en la liquidez social) hay que constatar de hecho que los fidei donum son una raza en extinción y los “misioneros ad gentes” están relegados a los márgenes de la realidad eclesial, son un fenómeno de nicho, todavía tenazmente aferrado a alguna actividad tercermundista.

LAS TRES SITUACIONES DE LA ÚNICA MISIÓN  

Quizá sea una visión demasiado negativa la que he resumido en estas pocas líneas, pero no me parece que sean tiempos felices, tanto para la actividad pastoral como para la acción misionera, aunque, curiosamente, es precisamente el término inglés mission el que ha vuelto a ponerse de moda en los últimos tiempos, sobre todo en el contexto empresarial: no hay empresa que no afirme con convicción y compromiso su mission. Nosotros no. Nosotros, que hemos recibido la mission nada menos que de Dios, casi nos avergonzamos de exponerla, titubeamos a hablar de ella para no parecer fundamentalistas o fanáticos. El problema es que no sabemos realmente lo que significa el término “misión” y, en consecuencia, hemos perdido su profunda conexión con la pastoral, es decir, con la actividad eclesial “normal”. La triple definición que Juan Pablo II utiliza en la encíclica Redemptoris missio para distinguir la pastoral ordinaria de la misión ad gentes y de la nueva evangelización, no parece haber aclarado la relación que se da entre estas realidades. De hecho, la distinción que el documento propone entre estas tres “situaciones” de la única misión de la Iglesia (cfr. RM 33) aparece un poco forzada, dado que, según admite, los límites entre ellas “no son claramente definibles” (RM 34). Queda, pues, por precisar, una vez más, qué se entiende por actividad pastoral y cómo se reconoce en ésta la perspectiva misionera.

PASTOR, PASTORAL, PASTOREO: UNA REINTERPRETACIÓN

En ámbito protestante, ante la expresión “teología pastoral”, se prefiere aquella más neutral de “teología práctica”, para evitar centrar la atención exclusivamente en la actividad de los pastores: es como si los católicos habláramos de “teología clerical”.

De hecho, el término “pastoral” no es inmediatamente obvio y recuerda la imagen rústica del rebaño y su pastor; una visión, digamos, anticuada, en tiempos en los que cada uno es celoso, a veces de forma exagerada, de su propia individualidad y libertad.

Ser asemejados a una oveja, inmersa en la masa anónima del rebaño, de la que sólo emerge la figura del pastor, no es la más alta de las aspiraciones para un católico o una católica de hoy. Es, pues, necesario releer la distinción propuesta por la Redemptoris missio entre los dos conceptos de “pastoral ordinaria” y “misión ad gentes”: ¿qué los une? ¿Qué los distingue, cómo se identifican?

¿SACRAMENTO DE UNIDAD O DE DIVISIÓN?

Lo que les une. Debe quedar claro para todos y aclarado de una vez por todas, que no podemos poner en discusión que la misión de la Iglesia es una y única: ser instrumento de unidad para el género humano en vistas de la salvación, es decir, la comunión con Dios. Así lo afirma el Concilio (LG 1; AG 1) y la misma encíclica lo reitera (RM 9). Ahora, una vez aclarada la mission de nuestra pobre, frágil y fragmentada Iglesia, debería ser más fácil precisar las tareas de sus diversos componentes, con vistas al único objetivo. Pero no, sucede que desde los tiempos de la primera comunidad de Corinto, los cristianos tenemos una tremenda capacidad para complicarnos la vida: sería demasiado fácil concentrar los esfuerzos de todos en el objetivo a alcanzar, en lugar de acentuar las diferencias y dividirnos en facciones... los de Pablo, o los Apolo, o los de Cefas… ¿Cómo podemos llamarnos ‘instrumento de unidad’? Si hay algo que sabemos hacer excelsamente es ser un sacramento de división.

CÓMO IDENTIFICAR LA “PASTORAL MISIONERA”

Analicemos, por consiguiente, qué es lo que distingue la pastoral ordinaria de la misión ad gentes: sería arduo resumir aquí en unas pocas líneas los largos y añejos debates de obispos y teólogos, pastoralistas y misionólogos, baste considerar que las discusiones sobre el decreto Ad gentes, el documento del Concilio Vaticano II sobre la actividad misionera de la Iglesia, duraron tres años y requirió rehacerse totalmente tres veces, con cinco revisiones. En realidad, si nos atenemos estrictamente a la mission antes descrita, no es difícil identificar la frontera entre ambas perspectivas: si por “pastoral ordinaria” se presupone una realidad eclesial ya definida, con “adecuadas y sólidas estructuras eclesiales” (RM 33), a la misión ad gentes se le confía la fase previa, es decir, aquella en la que todavía no existe una comunidad de fieles y es necesario formarla. Si esto es cierto, a la así llamada “nueva evangelización” corresponde, en cambio, la tarea de reconstruir el tejido comunitario eclesial, precisamente allí donde se ha desgarrado y los bautizados “ya no se reconocen como miembros de la Iglesia” (RM 33). En esta perspectiva ya no es el contexto geográfico y cultural el que define el carácter pastoral o misionero de la actividad emprendida, sino la situación eclesial, la comunidad como sujeto pastoral a construir, hacer crecer o reconstruir.

¿COMUNIDAD CRISTIANA O HABITANTES DE UN TERRITORIO?

Soy consciente de que estoy esbozando aquí una propuesta que necesitaría mucho más espacio para ser presentada de forma completa y articulada, pero para estos estudios en profundidad os remito a mi reciente texto sobre este tema (Riunire i dispersersi. Lineamenti di pastorale missionaria, 2021). Aquí me limito a exponer algunas ideas sobre lo que, a mi juicio, debemos considerar la acción pastoral misionera, es decir, aquella práctica eclesial dirigida a hacer de una aglomeración de habitantes en un territorio determinado, una verdadera y típica comunidad cristiana. En efecto, no puedo considerar a la población de un determinado territorio como una “comunidad”, desde el punto de vista eclesial, sin haber entendido su grado de adhesión a la fe y a la experiencia eclesial, o el nivel de cohesión entre ellos. En este sentido, la “pastoral misionera” no puede coincidir con la celebración litúrgica, la catequesis o la actividad caritativa, aunque estos tres pilares de la actividad eclesial sean indirectamente necesarios para la construcción de la comunidad. En otras palabras, no basta con ir a misa para construir comunidad, como tampoco basta con enviar a los hijos a la catequesis para sentirse parte de una comunidad, ni basta con visitar a los enfermos o ayudar a los desfavorecidos, aunque estas prácticas ayuden a construir comunidad. Para construir una comunidad es necesario construir un tejido de relaciones eficaces, es necesario hacer de ella un organismo vivo, cuyas partes se conozcan entre sí y sepan actuar juntas de forma concertada y coordinada, en definitiva, hacer de ella un sujeto pastoral unitario.

UN AUTÉNTICO SUJETO JURÍDICO

En un interesante opúsculo de 1970, el futuro Papa Benedicto XVI escribió sobre la comunidad cristiana: “la Iglesia como tal, en concreto como comunidad específica, es un sujeto jurídico; de hecho, es el auténtico sujeto al que hace referencia todo lo demás” (Democrazia nella Chiesa, 2005, p. 44). La construcción de cualquier comunidad específica como “sujeto jurídico” no puede dejarse a la improvisación, ni puede pensarse que es el resultado de un proceso espontáneo: es necesario que sea tenazmente deseada y minuciosamente preparada, sobre todo si esta comunidad imaginaria ha de ser “el auténtico sujeto al que se refiere todo lo demás”. Llegados a este punto, el verdadero problema es qué entendemos realmente por “comunidad cristiana”: el Código de Derecho Canónico define la parroquia como “comunidad de fieles” (canon 515).

El caso es que, tras definirla así, no ofrece ninguna explicación ni saca ninguna conclusión: pone la etiqueta y luego cambia página. Reconoce que la parroquia es una comunidad, pero no sabe qué es esta comunidad, ni puede inventarlo, por lo que vuelve sobre sus pasos y dice que “por regla general, la parroquia [...] comprende a todos los fieles de un territorio determinado” (canon 518) y está representada por un párroco (can. 532). ¿Y la comunidad? Aguardamos con esperanza los próximos episodios, pero de momento no hay nada que hacer al respecto: a pesar de las apariencias, la prometedora definición del canon 515 no introduce ningún nuevo sujeto jurídico, todo sigue como antes: la parroquia en realidad no es una comunidad de fieles, sino un territorio, es decir, una “porción” de la diócesis, como se leía en el canon 216 de la anterior edición del Código (1917). En esta perspectiva, la comunidad no es un sujeto, ni desde el punto de vista jurídico ni desde el punto de vista pastoral, es sólo un dato de catastro territorial, similar al municipio, como la provincia para la diócesis. No es necesario construirla: la adhesión se produce automáticamente por motivos residenciales. Queda por ver su eficacia desde el punto de vista pastoral, social y afectivo, pero, de hecho, el único vínculo previsto por el Código entre los fieles y la comunidad parroquial es su condición de inscritos en el registro.

ANIMADORES DE COMUNIDADES ECLESIALES

¿Puede alguien decirme quiénes son los “animadores de las comunidades eclesiales” a los que el Papa Francisco dirige su sorprendente llamado en el último mensaje para la Jornada Mundial de la Paz de este año? Conocemos a los gobernantes, a los dirigentes políticos y a los pastores, pero esta nueva categoría se me escapa: sin embargo, si el Papa ha querido mencionarla inmediatamente después de los pastores, debe significar algo, ¿no creen? Me parece muy curiosa esta simple referencia: queriendo distinguir entre pastores y “animadores de la comunidad”, se nos dice en primer lugar que ambos papeles no coinciden, y por tanto que el párroco y sus vicarios (a los que todos consideramos “pastores”) no son necesariamente los animadores de la comunidad. Es más, el pasado mes de mayo el Papa elevó la antigua función del catequista a ministerio con el motu proprio Antiquum ministerium, por lo que ni siquiera esta figura puede asimilarse a la del animador comunitario. ¿Debemos quizás empezar a pensar en una figura específica que asuma el servicio pastoral de animar la comunidad eclesial, haciéndola crecer y madurar? Eso es lo que esperamos.

EL TIEMPO DE LA MISIÓN ACABA DE EMPEZAR

Si queremos dar un sentido específico a la expresión “pastoral misionera”, más allá de la tautología que he mencionado al inicio de este artículo, deberíamos decir que se trata de la actividad eclesial destinada a construir o reconstruir la comunidad cristiana. Sin embargo, debemos considerar la comunidad eclesial no como una figura de catastro territorial, a la que se pertenece automáticamente por la residencia, sino como un organismo vivo, que hay que constituir y hacer crecer. Por lo tanto, ni la latitud ni el contexto caracterizan la pastoral misionera: puede tener lugar en el primer mundo o en el tercero, en situaciones de cristianismo antiguo, reciente o ausente. En resumen, el tiempo de la misión no ha terminado, al contrario, ¡acaba de empezar!


LA PASTORALE MISSIONNAIRE : QU’EST-CE QUE C’EST ?

On parle beaucoup de « pastorale », mais on l’étudie peu même dans les séminaires : plus qu’être étudiée ou enseignée, on doit l’expérimenter, on l’apprend en faisant plus ou moins comme quand on apprend à faire du vélo.

L’expression « pastorale missionnaire » est sans aucun doute une tautologie, parce que l’Église se définit comme missionnaire de par sa nature (AG 2), il ne peut donc pas y avoir d’activité pastorale qui ne soit déjà missionnaire ; mais c’est une tautologie utile, parce qu’il permet de relier deux aspects de l’action ecclésiale qui ne sont pas du tout évidents, malgré l’usage fréquent qui en est fait, ceux précisément de pastorale et de mission. On parle en réalité beaucoup de « pastorale », mais on l’étudie peu même dans les séminaires : plus qu’être étudiée ou enseignée on l’expérimente, on l’apprend en faisant, un peu comme quand on apprend à faire du vélo (permettez-moi l’exemple impertinent). Quant à la « mission », on évite soigneusement d’en parler dans l’activité pastorale ordinaire, car elle peut détourner l’attention du présent, c’est-à-dire représenter une sorte de dangereuse fuite en avant vers des « tiers mondes » inconnus et lointains : dans ces pays dits « tradition chrétienne » (actuellement dissoute dans la liquidité sociale) nous devons en effet constater que les fidei donum sont une race en voie d’extinction et que les « missionnaires ad gentes » sont relégués aux marges de la réalité ecclésiale, ils sont un phénomène de niche, d’une manière ou d’une autre accrochés à un certain nombre d’activités du tiers monde.

LES TROIS SITUATIONS D’UNE UNIQUE MISSION

C’est peut-être une vision un peu trop négative, celle que j’ai résumée dans ces quelques lignes, mais il ne me semble pas que ce soient des temps heureux, tant pour l’activité pastorale que pour l’action missionnaire, même si étrangement justement le terme anglais mission est revenu en vogue récemment, il n’y a pas d’entreprise qui n’affirme sa mission avec conviction et engagement. Nous non. Nous qui avons reçu la mission de Dieu, nous avons presque honte de l’exposer, nous hésitons à en parler pour ne pas paraître fondamentalistes ou fanatiques. Le problème est que nous ne savons pas bien ce que signifie le terme « mission » et, par conséquent, nous avons perdu son lien profond avec la pastorale, c’est-à-dire avec l’activité ecclésiale « normale ». La définition tripartite que Jean-Paul II utilise dans l’encyclique Redemptoris missio pour distinguer la pastorale ordinaire de la mission ad gentes et de la nouvelle évangélisation ne semble pas avoir clarifié ce rapport. En effet, la distinction que le document propose entre ces trois « situations » de l’unique mission de l’Église (cf. RM 33) est un peu forcée, étant donné que, de son propre aveu, les frontières entre elles « ne sont pas clairement définissables » (RM 34). Il reste donc à préciser, une fois de plus, ce qu’on entend par activité pastorale et comment on reconnaît dans cette dernière la perspective missionnaire.

PASTEUR, PASTORALE, PASTORALISME : UNE RELECTURE

Dans le milieu protestant, on préfère l’expression « théologie pastorale » à celle plus neutre de « théologie pratique », pour éviter de concentrer l’attention exclusivement sur l’activité des pasteurs : c’est comme si parmi nous, catholiques, on parlait de « théologie cléricale ».

En effet, le terme « pastorale » n’est pas d’évidence immédiate et renvoie à l’image agreste du troupeau et de son pasteur, une vision que nous disons aussi désuète, à une époque où chacun est jaloux, de manière parfois exagérée, de son individualité et de sa liberté.

Être assimilé à une brebis, immergée dans la masse anonyme du troupeau, dont émerge exclusivement la figure du pasteur, n’est pas le maximum des aspirations pour un catholique ou une catholique d’aujourd’hui. Il devient alors nécessaire de relire la distinction proposée par la Redemptoris missio entre les deux concepts de « pastorale ordinaire » et de « mission ad gentes » : qu’est-ce qui les unit, qu’est-ce qui les distingue, comment s’identifient-ils ?

SACREMENT D’UNITE OU DE DIVISION ?

Ce qui les unit, doit être clair pour tous et clarifié une fois pour toutes, nous ne pouvons pas remettre en cause le fait que la mission de l’Eglise est une et unique : être un instrument d’unité pour le genre humain en vue du salut, c’est-à-dire de la communion avec Dieu, affirme le Concile (LG 1 ; AG 1) et réitère la même encyclique (RM 9). Une fois clarifiée, la mission de notre Église, bien que pauvre, fragile et fragmentée, devrait être plus simple de préciser pour ce qui concerne les tâches de ses différentes composantes, en vue de l’unique objectif. Ce n’est pourtant pas le cas, c’est depuis la première communauté de Corinthe que nous chrétiens avons une formidable capacité à nous compliquer la vie : il serait trop facile de concentrer les efforts de tous sur le but à atteindre, plutôt que de souligner les différences et de nous diviser en factions... Ceux de Paul, d’Apollon, de Céphas, mais quel instrument d’unité ? S’il y a une chose que nous savons bien faire, c’est bien d’être sacrement de division.

COMMENT IDENTIFIER LA « PASTORALE MISSIONNAIRE » ?

Analysons alors ce qui distingue la pastorale ordinaire de la mission ad gentes : il serait difficile de résumer ici en quelques lignes les longs et vieux débats entre évêques et théologiens, pastoralistes et missiologues, il suffit de penser aux discussions sur le décret Ad gentes, le document du Concile Vatican II sur l’activité missionnaire de l’Eglise, qui ont duré trois ans et qui ont porté à trois restructurations totales et cinq révisions. En réalité, si nous nous en tenons strictement à la mission décrite ci-dessus, il n’est pas difficile d’identifier la frontière entre les deux perspectives : si pour la « pastorale ordinaire » on présuppose une réalité d’Eglise déjà définie, avec « des structures ecclésiales adéquates et solides » (RM 33), on attribue à la mission ad gentes précisément la phase précédente, c’est-à-dire celle où il n’existe pas encore de communauté de fidèles et où il faut la former. Si cela est vrai, c’est au contraire à la soi-disant « nouvelle évangélisation » que revient la tâche de reconstruire le tissu communautaire ecclésial, précisément là où il s’est déchiré et où les baptisés « ne se reconnaissent plus membres de l’Eglise » (RM 33). Dans cette perspective, ce n’est plus le contexte géographique et culturel qui définit le caractère pastoral ou missionnaire de l’activité entreprise, mais la situation ecclésiale, la communauté comme sujet pastoral à édifier, à faire croître ou à reconstruire.

COMMUNAUTÉ CHRÉTIENNE OU HABITANTS D’UN TERRITOIRE ?

Je me rends compte d’esquisser ici une proposition qui aurait besoin de beaucoup plus d’espace pour être présentée de manière complète et articulée, mais pour ces approfondissements, je renvoie à mon récent texte sur ce thème (Réunir les dispersés. Orientations de pastorale missionnaire, 2021). Ici, je me limite à exposer quelques idées sur ce que nous devrions à mon avis considérer comme l’action pastorale missionnaire, c’est-à-dire cette pratique ecclésiale visant à faire d’une agglomération d’habitants sur un territoire déterminé, une véritable communauté chrétienne. Je ne peux en effet pas considérer comme « communauté », du point de vue ecclésial, la population d’un territoire donné, sans en avoir saisi le degré d’adhésion à la foi et au vécu ecclésial, ou le niveau de cohésion entre eux. En ce sens, la « pastorale missionnaire » ne peut pas coïncider avec la célébration liturgique, la catéchèse ou l’activité caritative, bien que ces trois piliers de l’activité ecclésiale soient indirectement nécessaires à l’édification de la communauté. En d’autres termes, il ne suffit pas d’aller à la messe pour faire des communautés, il ne suffit pas d’envoyer les enfants au catéchisme pour se sentir membres d’une communauté, ni même d’aller rendre visite aux malades ou aider les défavorisés, même si ces pratiques aident à faire des communautés. Pour édifier une communauté, il faut construire un tissu de relations efficaces, il faut en faire un organisme vivant, dont les parties se connaissent et savent agir ensemble de manière concorde et coordonnée ; bref, en faire un sujet pastoral unitaire.

UN AUTHENTIQUE SUJET JURIDIQUE

Dans un livret intéressant de 1970, le futur pape Benoît XVI écrivait, à propos de la communauté chrétienne : « l’Église en tant que telle, concrètement en tant que communauté spécifique, est sujet juridique, et même le sujet authentique auquel tout le reste se réfère » (Démocratie dans l’Église, 2005, p. 44). Édifier chaque communauté spécifique comme « entité juridique », ne peut être laissé à l’improvisation ni être considéré comme le fruit d’un processus spontané : il faut le vouloir avec ténacité et se préparer à le faire, surtout si cette communauté imaginaire doit être « le véritable sujet auquel tout le reste se réfère ». A ce point, le vrai problème devient ce que nous entendons effectivement par « communauté chrétienne » : le Code de droit canonique définit la paroisse comme une « communauté de fidèles » (can. 515).

Le fait est que, après l’avoir définie ainsi, elle n’en donne aucune explication et n’en tire aucune conséquence : elle met l’étiquette et tourne la page. C’est-à-dire qu’elle reconnaît que la paroisse est une communauté, mais elle ne sait pas ce qu’est cette dernière ni peut l’inventer, donc elle revient sur ses pas et dit que « en règle générale, la paroisse [...] comprend tous les fidèles d’un territoire déterminé » (can. 518) et est représentée par un curé (can. 532). Et la communauté alors ? Nous attendons avec espoir les prochains épisodes, mais pour l’instant rien ne se fait : malgré les apparences, la définition prometteuse au can. 515 n’introduit aucun nouveau sujet juridique, tout reste comme avant : la paroisse n’est en réalité pas une communauté de fidèles mais un territoire, c’est-à-dire une « partie » du diocèse, comme on le lisait dans le can. 216 de la précédente édition du Code (1917). Dans cette perspective, la communauté n’est pas un sujet, ni du point de vue juridique ni du point de vue pastoral, elle n’est qu’une donnée du registre territorial, analogue à la commune, comme la province pour le diocèse. Il n’est pas nécessaire de la construire : l’adhésion se fait automatiquement pour des raisons résidentielles. Combien elle est effective du point de vue pastoral, social et affectif, tout est à découvrir, mais de fait l’unique lien prévu par le Code entre le fidèle et la communauté paroissiale est son inscription au registre.

ANIMATEURS DE COMMUNAUTÉS ECCLÉSIALES

Quelqu’un peut-il au contraire me dire qui sont les « animateurs des communautés ecclésiales » auxquels le pape François adresse son appel pressant, dans le dernier message pour la Journée mondiale de la Paix de cette année ? Nous connaissons les gouvernants, les responsables politiques et les pasteurs, mais cette nouvelle catégorie m’échappe : et pourtant, si le pape a voulu la citer tout de suite après les pasteurs, il a quelque chose à dire, n’est-ce pas ? Je trouve extrêmement curieux cette simple allusion : en voulant distinguer les pasteurs des « animateurs de communauté », on nous dit avant tout que les deux rôles ne coïncident pas, donc que le curé et ses vicaires (que nous considérons tous comme « pasteurs ») ne sont pas nécessairement les animateurs de la communauté. De plus, en mai dernier, le Pape a élevé au ministère l’ancien rôle du catéchiste avec le motu proprio Antiquum ministerium, et cette figure n’est donc pas non plus assimilable à celle de l’animateur de communauté. Devons-nous commencer à penser à une figure spécifique, qui accepte prendre sur soi le service pastoral d’animer la communauté ecclésiale, de la faire grandir et mûrir ? Nous espérons que oui !

LE TEMPS DE LA MISSION NE FAIT QUE COMMENCER

Si nous voulons donner un sens spécifique à l’expression « pastorale missionnaire », au-delà de la tautologie dont je parlais au début de cet article, nous devrions dire qu’il s’agit de l’activité ecclésiale visant à l’édification ou à la reconstruction de la communauté chrétienne. Nous devons cependant considérer la communauté ecclésiale non pas comme une figure de registre territorial, auquel on appartient automatiquement par résidence, mais comme un organisme vivant, à constituer et à faire croître. Ce ne sera donc ni la latitude ni le contexte qui caractériseront la pastorale missionnaire : elle pourra se dérouler dans le premier comme dans le tiers monde, dans des situations d’ancienne, récente ou absente chrétienté. Bref, le temps de la mission n’est pas terminé, au contraire, il ne fait que commencer !

Cesare Baldi
06 April 2022
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